mercoledì 16 settembre 2009

Sul PdL del futuro

Il Pdl non è too big to fail di Carmelo Palma

Ad un anno dal fallimento della Lehman Brothers, è fin troppo facile ricavarne una chiave di lettura “globale”, e adattarne lo schema per rileggere fenomeni che non hanno diretta attinenza con la tempesta finanziaria che, dopo l’11 settembre, ha più segnato la storia politica dell’ultimo decennio.
Però è forse vero che anche quell’evento è in grado di insegnare qualcosa al di fuori dei confini (tutt’altro che definiti) del sistema finanziario. Di ammonire chiunque “governi” un’organizzazione di interessi complessa (un Paese, una banca, un partito, una famiglia…) a misurare le proprie responsabilità e i propri successi e insuccessi su un tempo lungo e su obiettivi larghi, che non coincidono sempre (anzi, che non coincidono mai) con la vicenda biografica e con la fortuna “privata” dei suoi amministratori e neppure dei suoi fondatori.Sarebbe opportuno che anche il Pdl facesse davvero tesoro di questa lezione, ieri richiamata con ammirevole chiarezza dal professor Alessandro Campi in un pezzo pubblicato su Ffwebmagazine. Il “presentismo” compromette la possibilità che la straordinaria e tutt’altro che lineare parabola politica berlusconiana, si consolidi in una eredità politicamente spendibile. Una rottura (e che rottura!), che ha segnato in profondità la storia politica italiana, sarebbe così condannata dai suoi stessi apologeti a divenire una semplice “parentesi”, chiusa la quale tornerebbe la normalità.
Se si vuole costruire il futuro e non consumare il presente, bisognerebbe anche ammettere che l’eccezionalità della leadership berlusconiana non giustifica l’eccezionalismo politico del suo partito e un’interpretazione religiosa del suo carisma politico. L’organizzazione politica e la formazione della classe dirigente non possono ispirarsi alla dottrina della successione apostolica. E la stessa scelta di essere “popolo” e non “partito”, in questa declinazione del tutto anomala che sta assumendo nel Pdl, non serve, in teoria, neppure ad evitare il rischio della degenerazione frazionista, che, Berlusconi regnante, è politicamente impossibile, ma che diverrebbe politicamente inevitabile se il Pdl non riuscisse nel frattempo a trovare un fattore di unità diverso dalla leadership berlusconiana.
Peraltro, in nessuna democrazia del mondo l’unità politica di un grande partito di governo si fonda sulla leadership intesa in senso “personale”, quanto piuttosto sulle regole, del tutto impersonali, che rendono un partito capace di costruire leadership, e di rinnovare la propria capacità di offerta politica. Insomma il passaggio dal leader che costruisce il partito al partito che costruisce le leadership è, anche per il Pdl, ineludibile. E per tante ragioni, non solo legate alla biografia e all’età di Berlusconi, non può essere rinviato. E temiamo che Berlusconi, anche per non sentirsene minacciato, debba guidare questo processo, sentirsene partecipe quanto (se non più) delle sorti del suo governo. Anche in questo modo farebbe il bene del Paese.
Certo, per tornare alla “metafora Lehman”, ci si può illudere che il Pdl sia too big to fail e si può continuare a giocare spregiudicatamente, con una “leva” sempre più lunga, col patrimonio politico berlusconiano. Ma il valore di questo patrimonio è destinato a diminuire e se non torna a “patrimonializzarsi” politicamente, anche il Pdl rischia il collasso.

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Qui non serve un ritorno agli anni ‘50

- di Benedetto Della Vedova dal Secolo D’Italia del 16 settembre 2009 -

Sandro Bondi ha saputo in questi anni costruire a Gubbio con tenacia e intelligenza, per Forza Italia prima e per il PdL ora, un appuntamento ambizioso di discussione e confronto. La “scuola di formazione politica” non ha deluso le aspettative e anche quest’anno ha rappresentato uno dei rari (anzi, diciamolo: l’unico) momenti di pubblico dibattito all’interno del centrodestra berlusconiano. E se vogliamo indicare un esito politico cui sono giunti i tre giorni di discussione esso ha proprio coinciso – e non è una tautologia – con il riconoscimento della “normalità” del dibattito politico.

Non è solo possibile, ma anche auspicabile che in un partito che rappresenta un elettorato complesso, unito attorno ad una leadership e ad un progetto di governo, ma non “omologato” dal punto di vista politico-culturale, ci si possa confrontare, senza dividersi, su letture diverse della realtà e della responsabilità della politica. Si può lealmente sostenere un esecutivo “battezzato” dal voto degli elettori senza ritenere che l’unico compito di un partito (che non è un corpo mistico, ma è fatto dalle idee di quanti lo animano e lo abitano) sia quello di assolvere alla difesa del governo e, per i più bellicosi, all’offesa dell’opposizione, anche perché sul lungo periodo l’unità di un “grande” partito è per definizione dinamica e non statica, adattiva e non ideologica.

Anche sul tema sensibile e ambiguo dell’identità la discussione può essere viva e sensibile, senza essere lacerante. Se tutti trovano e accettano la misura giusta e la consapevolezza di non dovere fondare (o peggio rifondare) il profilo morale del Paese, né quella di incarnare un’ideale antropologicamente superiore. Alla politica italiana, ha già fatto sufficiente danno il mito della superiorità antropologica della sinistra.

Per quello che mi riguarda, come ho avuto modo di ribadire anche a Gubbio, penso che ad una destra rincantucciata in un ideale astrattamente conservatore e compiaciuta della propria durezza identitaria sia necessaria una rottura che, in altri tempi, si sarebbe detta “berlusconiana”. Quelle di trasversalismo ideologico ed eclettismo culturale erano le accuse sanguinose che la sinistra rivolgeva al primo Berlusconi, reo di non avere una cultura politica, ma di limitarsi a riflettere, in tutte le sue contraddizioni, quella del suo elettorato. Non mi pare utile che, a distanza di 15 anni, diventino le accuse che la destra rivolge a se stessa, nel tentativo di farsi migliore. Finendo per vagheggiare come età dell’oro gli anni cinquanta e la loro identità culturale e civile. Anche qui, è una questione di misura: si può continuare a celebrare il 1948, senza eleggere, a distanza di 60 anni, l’Italia post-degasperiana a patria ideale. I seguaci del personalismo di Maritain e dell’individualismo di Popper possono agevolmente convivere nello stesso partito, se i primi non vogliono espellere i secondi.

Sull’immigrazione, sui temi biopolitici, sulla questione più generale dell’identità culturale del partito e di quella costituzionale del Paese, il centrodestra può continuare a non concedere nulla al politicamente corretto, e insieme uscire dalla sindrome dell’assedio e da quella del rimpianto.

“Il ‘900 è finito con la vittoria della libertà” , recitava, citando Baget Bozzo, il titolo della tre giorni di Gubbio. E la celebrazione di questa libertà è culminata in un processo – non diciamo senza appello, ma con troppi accusatori e pochi difensori – alla “falsa” libertà di un mondo che ha smarrito il senso della dignità umana. Ma la libertà che dal 1989 ha dilagato nei paesi dell’ex impero sovietico (senza peraltro affermarsi ovunque come aveva previsto troppo ottimisticamente qualche teorico della fine della storia), “quale” libertà era? Non era forse quella “individualistica” e “relativistica” che molti reduci della schiavitù sovietica inseguivano nel costume, negli stili di vita e nello stesso modello politico dell’Occidente liberale reduce, a propria volta, dalle angosce della guerra fredda? Apprestandosi a celebrare la data che segnò la fine del cosiddetto secolo breve, non è intellettualmente troppo disinvolto liquidare come “falsa” quella libertà che i paesi ex sovietici e la stessa Russia spiavano al di là della cortina di ferro ed eleggere come vera quella capace di tornare, un po’ archeologicamente, alle proprie radici profonde, ai tesori del proprio passato, ad una età dell’oro che storicamente non è mai esistita?

Non penso, illuministicamente, che la storia umana muova necessariamente nella direzione di un’umanità migliore. Ma mi pare abbastanza dimostrabile che mai la persona umana è stata al centro della politica più di quanto è avvenuto nell’esperienza delle “democrazie relativistiche” dell’Occidente liberale del secondo dopoguerra. Forse che il rispetto e la dignità della persona umana erano maggiori nella Spagna di Franco “trono, spada ed altare” che in quella di Zapatero? Nell’America devotamente segregazionista, più che in quella dell’edonismo reaganiano? Nell’Italia spregiudicatamente concordataria dell’uomo della Provvidenza Benito Mussolini, più che in quella della legge Baslini-Fortuna sul divorzio?

Si può rileggere la storia delle idee, scartare idee nuove e riesumarne di vecchie. Ma senza trasformare la politica in un’inutile ancella della teologia morale. E senza barare, per esigenze di retorica: ad esempio, si può anche riesumare il vecchio slogan mazziniano “Dio, patria, famiglia”, ma mi pare assai arduo asservirlo ad un ideale di restaurazione tradizionalista.

Mi pare escluso che l’ideale religioso possa costituire un fondamento costituzionale di legittimazione politica, una “radice”, come usa dirsi, di insperati rigogli normativi. Ad escluderlo, oltre a molte ragioni di fatto e di diritto, è la banale constatazione che su quella trincea combattiamo le pretese dell’islamismo politico. O no?

La Patria, poi, oggi è davvero (anche nel cuore dei nostri soldati in Afghanistan) quella “costituzionale”, prima che quella nazionale. E’ il tricolore che sventola a Herat. E’ l’ideale politico universalistico della libertà e della dignità umana e coincide sempre meno con la difesa dei sacri confini della nazione e degli italiani “di sangue”. Ed è anche, come ha giustamente sottolineato Fini, l’ideale che “rende italiani” gli stranieri che scelgono di esserlo, impegnandosi ad esserlo davvero.

E la famiglia? La famiglia che dobbiamo difendere, ad esempio, dall’offensiva culturale maschilista dell’islamismo radicale è quella egualitaria post-divorzio e post-riforma del diritto di famiglia, mica quella con un capo-famiglia maschio e una moglie giuridicamente subordinata, che fino agli anni settanta è stata la bella famiglia italiana (e che agli islamici starebbe assai più comoda di quella contaminata dal femminismo). O vogliamo tornare a quella?

Negli anni settanta liberali, socialisti e anche molti cattolici – penso alle Acli – hanno cambiato il paese sfidando la Chiesa su quello che per allora era un valore non negoziabile, l’indissolubilità del matrimonio. Nessuno di noi, credo, anche di noi eletti del PdL che vivono liberamente e responsabilmente le loro relazioni, rimpiange la sconfitta di Almirante e Fanfani, o no? Archiviamo come “nichilismo anni settanta” anche quella stagione riformatrice che ha rifondato nella responsabilità e nella libertà le nostre famiglie (quelle reali – di ciascuno di noi, non quelle ideali – di nessuno)?

Qual è la tradizione cui vogliamo ancorare il PdL? Quella del delitto d’onore? Se posso scegliere, io preferisco quella dell’Occidente tollerante, quello della piena cittadinanza per gli omosessuali, anche attraverso il riconoscimento giuridico delle coppie conviventi.

Se invece in nome della centralità della persona nella politica e nel Governo intendiamo mettere al centro della nostra azione i problemi concreti e quotidiani con cui le persone si confrontano (sanità, scuola, trasporti, rifiuti, ambiente, casa, welfare, sicurezza), secondo i principi della libertà nella responsabilità, del mercato e della sussidiarietà, avremo un terreno comune su cui lavorare proficuamente al riparo delle dispute ideologiche ed etiche, evitando di dividerci tra la curva sud dei cattolici e quella nord dei laici. Sia chiaro: non dobbiamo rinunciare a ciò che ci divide, ma lavorare su ciò che ci unisce. Ma per fare questo, diciamo così, il disarmo deve essere bilaterale.


CREDITS: Libertiamo

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