Tornando sulla Destra che vorrei...
Qualcosa ”di destra” sui migranti
- da Il Secolo d’Italia del 23 dicembre 2009 -
Per anni, la politica italiana ha lucrato sull’illusione che “lavorare meno” avrebbe significato “lavorare tutti” e che i prepensionamenti dei padri avrebbero favorito le assunzioni dei figli. Il “socialismo a spese degli altri”, che ha costruito sotto i nostri piedi una voragine di debito pubblico e ha aggravato lo sbilancio generazionale di un paese in rapidissimo invecchiamento, riecheggia oggi, oltre che nell’enfasi egualitaria del sindacalismo di lotta, nella retorica anti-immigratoria del leghismo di governo, secondo cui i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri agli italiani minacciano la coesione sociale e esigono il ritorno ad un’immigrazione a “saldo zero”.
Le dinamiche dell’immigrazione, alla pari di quelle del mercato del lavoro, a cui sono indissolubilmente intrecciate, consentono di mettere al voto “verità” che contrastano con la realtà dei fatti. Per anni, mentre il mercato del lavoro continuava ad essere caratterizzato da bassa occupazione, bassa produttività e bassi salari, era divenuto politicamente “vero” che al suo interno vi fosse troppa precarietà – e ve n’era, nel senso dei contratti a termine, meno che negli altri paesi europei. Allo stesso modo, oggi pare diventato “vero” che in Italia ci siano troppi immigrati e all’immagine realistica di un’immigrazione che, molto relativamente, rimedia alle fragilità demografiche e socio-occupazionali di un paese invecchiato, è sovrapposta la percezione distorta di un Paese assediato da una manovalanza “predona” del lavoro “italiano”.
Un giudizio generalizzato sull’immigrazione impedisce per altro di discernere e di distinguere i diversi aspetti di un fenomeno complesso, che non può essere interpretato secondo una chiave unitaria. Si pensi come, ad esempio, nell’ultimo decennio dall’immigrazione sia venuta, attraverso meccanismi di mercato, l’unica forma concretamente accessibile di welfare familiare, e insieme la più pericolosa sfida al modello familiare paritario. Quello imposto in Italia, non più tardi di 35 anni fa, con il nuovo diritto di famiglia. Sia le badanti, che hanno consentito una riorganizzazione efficiente della vita familiare, sia il maschilismo islamista sono “immigrazione”, ma hanno evidentemente un segno diverso. La stessa differenza tra “regolari” e “clandestini” comporta una lettura più storica e meno burocratica, perché “clandestini” sono stati anche il milione e trecentomila irregolari progressivamente sanati dal 1990 ad oggi, in quanto stabilmente impiegati nelle famiglie e nel tessuto produttivo del Paese.
Per questa ragione, sui temi dell’immigrazione è forse disagevole, ma assolutamente necessario dare prova di moralità politica e preservare un rapporto corretto tra le parole e le cose, tra la realtà dell’esperienza e la rappresentazione che è possibile darne, per aderirvi con una misura, se non perfettamente realistica, almeno intellettualmente onesta. A maggior titolo, questa capacità è richiesta quando il discorso sull’immigrazione incrocia quello sulla cittadinanza degli immigrati. Infatti, su questo tema vengono al pettine i nodi più intricati e allo scoperto i nervi più sensibili: come direbbe un leghista “di lotta”, diventando cittadino l’invasore si fa usurpatore della sovranità politica.
Nel discutere della riforma delle norme che regolano il riconoscimento della cittadinanza, ragioniamo però più di “noi” che degli immigrati. Ragioniamo delle paure che formano il materiale incandescente della lotta politica, della fragilità di un ideale civile, arrangiato con l’improvvisato copia-e-incolla di “pezzi” di tradizione culturale e religiosa, della debolezza sociale di un Paese che ha disimparato a vivere la competizione (anche all’interno del mercato del lavoro) come un fattore di dinamismo e di crescita.
Fare un discorso “di destra” su questa materia significa parlare in termini di libertà e di responsabilità, di merito e di intraprendenza, di moralità e di dignità civile. Significa parlare in spirito di verità, non contrapponendo ad un terzomondismo anti-capitalista un “nativismo” prepotente e altrettanto vittimistico. Per anni abbiamo sentito descrivere l’immigrazione straniera come una punizione che la storia (e la geografia) avrebbe inflitto ai paesi sviluppati, per le loro colpe vetero e neo-coloniali. Oggi bisogna guardarsi dalla menzogna uguale e contraria, secondo cui l’immigrazione sarebbe parte di un disegno “globalista” interessato a disarmare le resistenze culturali e religiose delle patrie europee.
Fare un “discorso di destra” significa valorizzare il fatto che l’Italia dispone complessivamente di una buona immigrazione – visto che il tasso di attività è di 11 punti superiore a quello dei nativi (fonte: Ministero dell’Interno 2009)- e ammettere che l’immigrazione regolare e irregolare è stata comunque trainata dalla fragilità demografica e dalla scarsa intraprendenza occupazionale degli italiani, poiché le regolarizzazioni dirette e indirette (attraverso le assunzioni di stranieri, in teoria residenti all’estero, autorizzate all’interno dei cosiddetti decreti-flussi) hanno solo in parte bonificato la situazione, che vede la clandestinità annidata più nell’economia illegale che nell’attività criminale.
Fare un “discorso di destra” significa imporre il principio per cui, in una società aperta, la cittadinanza non può costituire una rendita, né un vantaggio competitivo spettante per “diritto acquisito”, ma un potere guadagnato meritatamente, anche sul piano morale, attraverso il concorso fattivo alla vita e alla prosperità del Paese. E soprattutto, fare un “discorso di destra” significa ripartire dal “no taxation without representation”, dal fatto che a decidere delle tasse prodotte siano i rappresentanti di quanti hanno contribuito a produrle e che non possono essere, in misura eccessiva, non cittadini.
Fare un “discorso di destra”, infine, significa reagire con intransigenza alla sfida islamista, comprendendo che, anche per arginare una deriva pericolosamente multiculturalista, quando non separatista, è opportuno riconoscere agli stranieri la possibilità di far valere istanze e interessi che, nella normale dialettica civile, passano attraverso la rappresentanza politica, i suoi giochi democratici e i suoi inevitabili compromessi.
Non è credibile che per milioni di persone l’Italia rimanga semplicemente un “posto di lavoro” o una “terra di soggiorno”; che un paese tra i più dipendenti dall’immigrazione fissi termini per il riconoscimento della cittadinanza doppi rispetto a quelli statunitensi, francesi e inglesi, trattando gli stranieri da vera e propria “controparte politica”; che per i prossimi decenni gli italiani siano una cosa, e l’Italia un’altra, con i cittadini a rappresentare solo un pezzo della fotografia del Paese. Tutto questo non è neppure “di destra”. E’ semplicemente sbagliato.
Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.
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Non si potrà sfuggire a lungo al principio dello ius soli
La discussione sulla cittadinanza, in corso alla Camera dei Deputati, è un’occasione da non sprecare per il futuro del Paese. La sostanziale conferma dello status quo (il testo a prima firma Bertolini, sul quale si sviluppa per il momento il lavoro parlamentare) rischia purtroppo di rimandare sine die la soluzione di un problema che avrà dimensioni sempre più grandi negli anni a venire. L’Italia avrebbe invece bisogno di un vero e proprio Quattordicesimo Emendamento.
“Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono”( “All persons born or naturalized in the United States, and subject to the jurisdiction thereof, are citizens of the United States and of the State wherein they reside”). Così recita il primo comma del Quattordicesimo emendamento grazie al quale venne introdotta nella Costituzione americana una concezione ampia e universale di citizenship. Ma non è stato sempre così.
Fino al 1868, l’anno dell’approvazione dei cosiddetti Reconstruction Amendments (le modifiche costituzionali di “pacificazione”, dopo la guerra civile), il riconoscimento della cittadinanza aveva un connotato anzitutto razziale, basato sull’astrusa classificazione giuridica della “bianchezza” (whiteness), che per decenni costrinse le corti statunitensi a tentativi goffi di tracciare confini oggettivi tra razza bianca e razza nera, o tra razza bianca e nativi.
Il riconoscimento della cittadinanza ai maschi neri (per le donne si dovette aspettare ancora, ma questo è un altro argomento) e ai naturalizzati rappresentò un profondo punto di rottura nella storia americana: da diritto di proprietà ereditabile ma inevitabilmente non acquistabile, la cittadinanza diveniva un traguardo raggiungibile, una scelta individuale, un futuro per i proprio figli. La patria americana smetteva di essere una mera questione di sangue: il figlio dell’ultimo degli schiavi di colore o del disperato giunto sulle coste dell’America per trovare lavoro, se nato su suolo americano, sarebbe stato cittadino. Come è noto, l’affermazione dello ius soli non pose immediatamente fine alle politiche razziali di alcuni Stati e non esaurì in un colpo solo i problemi della cittadinanza. Ma la sua costituzionalizzazione rappresentò un “germe” che avrebbe poi inesorabilmente e positivamente contaminato il futuro della società americana: l’emendamento fu la leva grazie alla quale, a metà del ventesimo secolo, la Corte Suprema smantellò la segregazione razziale (famoso il caso Brown v. Board of Education, del 1954); e ancora prima, era stato l’appiglio costituzionale grazie al quale nel 1898 vennero riconosciuti come cittadini i bambini nati sul suolo americano, ma figli di cittadini di altri paesi, (questi ultimi, infatti, a differenza dei discendenti degli schiavi neri, erano soggetti ad altra giurisdizione e fino alla sentenza di fine secolo questo elemento era stato ritenuto ostativo). Ancora oggi, è il Quattordicesimo Emendamento il terreno dello scontro su cui Democratici e Repubblicani dibattono sul riconoscimento della cittadinanza ai figli dei clandestini nati sul territorio USA.
E allora: cosa vorrebbe dire dotare l’Italia di un suo Quattordicesimo Emendamento? Significherebbe stabilire un tracciato, o se vogliamo porre le fondamenta solide su cui costruire, anno dopo anno, decennio dopo decennio, il concetto di cittadinanza nel nostro Paese. Un concetto che presumibilmente continuerà a cambiare significato con ogni generazione, in parte a svuotarsi di contenuti, in pare a caricarsi di altri. Ma qualunque sia il senso che lo status di cittadino avrà negli anni, difficilmente si sfuggirà alla “potenza” dello ius soli. Un criterio non discrezionale, e quindi liberale. Una traduzione del principio di uguaglianza delle opportunità.
Insomma, possiamo discutere a lungo su quanti anni di residenza siano necessari affinché un immigrato possa chiedere ed ottenere la cittadinanza, o quali prove debba superare il candidato cittadino, ma difficilmente potremo sfuggire alla domanda par excellence: vogliamo o no che nell’Italia di domani sia cittadino italiano chi, figlio di persone che hanno scelto il nostro paese per costruire il proprio benessere, nasce in Italia? Ecco che la questione si pone in tutta la sua ruvida concretezza: se non vogliamo che la cittadinanza sia il movente di una profonda e duratura guerra civile della quotidianità, non potremo sfuggire a lungo al principio dello ius soli.
Rosita Romano - Nata nel 1984, si laurea con lode in Giurisprudenza alla LUISS Guido Carli di Roma. Dal 2007 al 2009 è stata rappresentante degli studenti presso il Consiglio di Facoltà e presso la Commissione per il Diritto allo Studio (contribuendo attivamente alla riforma dell'ordinamento dell’università). E' stata membro della Commissione Paritetica per la Didattica e fondatrice di un magazine universitario. Stagiaire a Bruxelles presso il Segretariato Generale della Commissione Industria, Ricerca ed Energia del Parlamento Europeo, ha collaborato con l’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione al Ministero per lo sviluppo Economico ed ha lavorato presso gli Affari Istituzionali di UniCredit Group. Praticante avvocato ed ideatrice di “Rompiamo il Muro”, l’anti-lobby della Generazione F.
CREDITS: Libertiamo

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