Se la destra passa da John Wayne a Clint Eastwood
Oltre la demagogia e la politica dei divieti
di Roberto Iacopini
Capita spesso di leggere articoli giornalistici nei quali si rievoca il motivo per il quale Gianfranco Fini divenne missino: la contestazione di un gruppo di extraparlamentari di sinistra davanti a un cinema bolognese in cui si proiettava il film I berretti verdi. Una circostanza che, soprattutto negli ultimi tempi, viene accompagnata da un tono sarcastico. Secondo la vulgata, fu infatti quel picchetto che intendeva impedire agli spettatori - tra i quali lo stesso Fini - la visione della pellicola che faceva l’apologia delle truppe speciali americane in Vietnam, a far scattare la molla dell’impegno in politica nel futuro presidente della Camera dei deputati.
Se è vera questa storia, ci piace pensare che anche la più recente evoluzione politica di Gianfranco Fini, possa essere stata ancora una volta “segnata” da una suggestione cinematografica: magari la storia raccontata da Clint Eastwood nel suo dolente film Gran Torino, una metafora esistenziale che regala straordinarie similitudini con l’odierna cronaca sociale italiana.
Il tema di Gran Torino è quello dei difficili processi d’integrazione nella provincia americana colpita dalla crisi economica. La storia è quella di un anziano operaio che alla morte della moglie è indotto a fare un bilancio della propria vita e i conti con la difficile quotidianità del quartiere in cui abita da sempre, colonizzato da minoranze etniche che, diversamente da lui, d’origine polacca, non sono del tutto integrate nel melting pot del grande sogno americano.
Kowalski, questo è il nome del protagonista, tiene in perfetto ordine il giardino di casa dove sventola la bandiera stelle e strisce. Ha un difficile rapporto con coloro che lo circondano e sono l’espressione di una società che sembra aver perso la bussola: i figli che ai valori antepongono la carriera, un prete invadente che lo vorrebbe vedere più spesso in chiesa, i vicini di casa asiatici, infine, le gang giovanili che impazzano nel quartiere degradato. È un “reazionario” che comprende poco il mondo che lo circonda e con fatica si avvia a prendere coscienza che più che della rabbia covata nei confronti del diverso da sé, conta la pazienza e, più degli ancoraggi al passato, conta la navigazione nel futuro.
Nel suo difficile dialogo con i vicini asiatici, giunge a capire che le armi da fuoco anche quando servono a difendere il confine della proprietà, quasi mai bastano a migliorare le cose. A questo scopo aiutano di più gli attrezzi da costruzione, perché gli utensili che aggiustano le cose - soprattutto in periodi di crisi - sono la migliore risposta ai consumi che non si possono sostenere. In più, proprio in quanto strumenti di lavoro, possono diventare con facilità anche gli “strumenti” dell’integrazione razziale.
Le suggestioni del film di Clint Eastwood ci riportano alla quotidianità italiana. Ogni politica dell’inclusione dovrà prescindere dalla retorica ipocrita, ostaggio del linguaggio politicamente corretto. Piuttosto, impone la necessità di una politica del fare quotidiano, capace di marcare la differenza tra le diverse tradizioni culturali e, contemporaneamente, di aiutarci a comprenderle. Detto in parole semplici: integrare non significa assimilare o, peggio ancora, essere assimilati.
A destra ciò comporta il prioritario rifiuto di una visione in bianco e nero che rende difficile osservare le infinite tonalità di grigio che ci sono nel mezzo. È attraverso questa capacità di mettersi in discussione che si può restituire nuovo vigore ai propri valori, usandoli come il carburante di un nuovo modo di agire, anche con coloro che comunemente si ritiene debbano essere i “nemici”.
Per questo riteniamo che ogni sforzo politico, volto a integrare i tanti immigrati nella società del nostro paese, anche se compiuto da destra, non preluda affatto a una cancellazione delle ragioni oggettive di questa parte politica. Tutt’altro. Proprio a partire dal proprio passato di “straniero in patria”, Gianfranco Fini e chiunque come lui abbia vissuto per molti decenni della propria vita una condizione di minorità politica, è nelle condizioni migliori per avviare la riflessione su cosa significhi oggi essere un uomo che vive in Italia in difetto di cittadinanza, uno “straniero senza patria”. Quanti fino a ieri hanno vissuto nel “ghetto” degli esclusi dall’arco costituzionale e hanno conosciuto l’emarginazione politica, dovrebbero trovare immensamente più facile di altri immedesimarsi nelle legittime richieste avanzate dagli esclusi di oggi.
Non si tratta di “rubare” un tema caro alla parte avversa, ma di prendere consapevolezza che solo una realistica politica di destra può incidere sui processi di integrazione e governarli secondo ragione. Il resto lasciamolo alla demagogia della sinistra.
Sarebbe bene che di questa azione politica di destra e da destra, divenissero consapevoli i tanti elettori che in questa parte politica si riconoscono. Sarebbe bene che tutti coloro che ne sono la rappresentanza politica cominciassero a guardare all’ineludibile tema dell’integrazione non come a un problema, ma a un’opportunità per praticare la politica del fare.
Si tratta un’azione politica importante e necessaria, anche nei termini dell’attuazione delle cosiddette politiche della sicurezza: volta a sottrarre manovalanza facile alle cosche criminali, a impedire una deriva negativa a tanti immigrati, a riconoscere diritti di cittadinanza in cambio di precisi doveri civici. Prima di dividerci su ius solis o ius sanguinis, appare utile concordare sulla necessità dello ius, punto di partenza per un percorso che dovrà cercare di evitare la politica del vietare che ha un respiro corto e semplicemente rimanda ad altri tempi la soluzione dei problemi. Una politica il cui rischio è quello di apparire come il verso destrorso della medaglia che abbiamo chiamato demagogia.
13 gennaio 2010
CREDITS: FFWebMagazine

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