martedì 1 dicembre 2009

Se l'onda diventa tsunami...

Dagli amici di Libertiamo, due interessanti interventi sui problemi riguardanti il PdL. Problemi che vanno affrontati, non nascosti o bollati come deliri di qualche "cane sciolto"...

La chiamano riforma, ma è un attacco allo spirito del Popolo della Libertà

E la chiamano riforma. Ma il nuovo ordinamento forense in discussione presso la Commissione Giustizia del Senato è definibile come tale? La Treccani definisce il termine riforma come “modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento, ecc., rispondente a varie necessità ma soprattutto a esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi(…)”. Non ho dubbi che l’impianto legislativo dell’ex ddl Mugnai (ma si scrive Mugnai e si legge Cnf) intercetti la prima parte della definizione. Esso è una modificazione sostanziale (per quanto in peius), attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, di un’istituzione, un ordinamento. Qualche perplessità maggiore la nutro sulla sua aderenza alla seconda parte della definizione: “rispondente a varie necessità, ma soprattutto a esigenze di rinnovamento e adeguamento ai tempi”. Bene. Qui c’è da mettersi d’accordo sull’interpretazione della “natura dei tempi” che stiamo vivendo e su cosa voglia dire adeguarvisi. E, quindi, se sia opportuno, da un punto di vista politico, dal punto di vista politico del PdL, adeguarvisi nel modo in cui vi si sta adeguando nel caso di specie degli avvocati. Qual è dunque la natura dei tempi che stiamo attraversando? Sono tempi di crisi, e crisi, dal greco, vuol dire cambiamento. Qual è la risposta dell’ordine forense (diventata indirizzo politico del PdL) agli interrogativi posti dalla crisi? L’arroccamento, il controllo delle nascite (di nuovi professionisti), la creazione di un mercato dei servizi legali amministrato dalla corporazione (cui lo Stato presta il beneficio della protezione legale), in un’ottica squisitamente provinciale, da strapaese. Ad esempio, il divieto di costituire società tra professionisti con soci di mero capitale produrrà due conseguenze: fermo restando che il tasso di interconnessione globale delle economie, dei servizi, degli scambi commerciali e di quelli di informazioni non si arresteranno solo perché Tremonti ha deciso che il mercatismo low cost è il nuovo comunismo e che il mercato è sano se va piano e neanche troppo lontano, ci ritroveremo colonizzati dalle grandi law firm di provenienza anglosassone, che risponderanno alla domanda italiana di servizi legali su scala internazionale. In più i nostri giuristi perderanno progressivamente grip sul mercato nazionale e su quelli internazionali, perché privi di strumenti organizzativi e scientifici per rispondere alle issues emergenti dall’economia mondiale. Lo scontro, niente affatto indolore per l’Italia, è tra due diverse visioni del futuro del nostro Paese. Secondo la prima, l’Italia deve mettersi in testa che soltanto correndo col resto del mondo e aprendosi ad esso potrà pensare di garantire benessere e ricchezza anche alle future generazioni, magari accettando qualche piccolo/grande sacrificio nell’immediato; secondo l’altra, il Paese vive bene sotto i campanili e non c’è bisogno del pepe della competizione quanto, piuttosto, della tranquillità della protezione, riassumibile nel trittico Dio, posto fisso e famiglia. Per queste ragioni sull’ordinamento forense si gioca oggi una partita culturale di ampio respiro dalla quale emergerà la linea del centro destra sulla propria idea di sviluppo per il Paese. Nelle dichiarazioni programmatiche del governo è scritto quanto segue:

per crescere dobbiamo (…) colpire i corporativismi e le chiusure difensive che in passato hanno tutelato soltanto i bisogni castali di un sistema assistenziale e dirigista che non ha fiducia nella libertà e nell’autonomia della società (fonte governo.it).
Lo scarto tra questa dichiarazione di principio e il contenuto della proposta sull’ordinamento forense è evidente. Perciò, cui prodest? Siamo sicuri che al PdL convenga portare a casa una legge che piace alla corporazione forense (e neanche unanimemente) ma distrugge le premesse ideali e riformiste del berlusconismo classico, quello che ha allevato una generazione di autonomi e partite Iva, baldanzosi in doppio petto e con quella sicumera individualista che tanto fa incazzare i pii sacerdoti dell’ortodossia sociale di sinistra e tanto bene fa, invece, al dinamismo e al Pil italiano? La constituency pidiellina è un materiale composito, stratificato, il cui trait d’union è, però, la richiesta di opportunità, di libertà e di spazi di autonomia individuale, nel lavoro come nella vita privata, passando dalla concezione del rapporto tra il singolo e la società. E se alcuni tratti di quest’anarchia dell’io sociale berlusconiano possono essere anche oggetto di un aggiustamento in chiave costituzionale, l’anelito marcatamente libertario che ne ispira la richiesta di opportunità resta ancora l’elemento più dirompente del panorama politico italiano. Per questa ragione oggi pomeriggio Libertiamo parteciperà alla manifestazione di protesta organizzata dall’Unione dei Giovani Avvocati Italiani contro la contro – riforma della professione forense in discussione al Senato. “La manifestazione di oggi – spiega Gaetano Romano, presidente di UGAI – servirà a dar voce ai cittadini ed alla base della classe forense chiedendo unanimemente il ritiro in toto della controriforma forense. Non c’è spazio di discussione su un testo inaccettabile e contenutisticamente, a nostro parere, di ispirazione quasi fascista. La base dell’avvocatura, colpita dalla riforma, deciderà oggi anche eventuali ulteriori clamorose iniziative di protesta democratica”. PdL, cui prodest?

Lucio Scudiero - 23 anni, salernitano, è laureando in Giurisprudenza presso l'Università Federico II di Napoli. Si occupa di diritto della privacy presso l'Istituto Italiano Privacy. Tra i fondatori dell'osservatorio economico SalernoeCapitale, laboratorio di proposte e soluzioni liberali per Salerno e la sua provincia.

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Il PdL e il fantasma del PCI. L’irresistibile leggerezza dell’ortodossia

Vedremo presto se la scelta di ricorrere ai principi dell’organizzazione leninista porterà bene al PDL e a quanti pensano di risolvere le inevitabili contraddizioni di un partito del 40% facendo funzionare la “macchinetta” delle votazioni a maggioranza come una democratica ghigliottina.
I due partiti di massa della Prima Repubblica funzionavano in modo rovesciato. La DC ha rinunciato molto presto ad essere un partito vero e proprio, divenendo piuttosto una coalizione di interessi divergenti, legati da una filosofia interclassista e da una pratica compromissoria. Il PCI non ha mai rinunciato (fino al momento in cui ha dovuto rinunciare alla propria ragione sociale) a coltivare e consolidare una “linea”, in cui condensava il meglio – si fa per dire - della sua visione e il peggio del suo opportunismo politico.

A quindici anni e ad una Repubblica di distanza, un grande partito dovrebbe forse darsi un modello diverso. Perché sono cambiati i tempi e le regole del gioco politico. E anche perché i mezzi prefigurano i fini e li giustificano e due modelli come quelli della DC e del PCI non sembrano coerenti con i fini di questa “creatura” nata berlusconiana e, almeno in teoria, proiettata nella storia post-berlusconiana del Paese. Anche per questo, non è un buon segno che una parte della classe dirigente del PdL riscopra le virtù del centralismo democratico, sia pure ripulito e corretto, visto che ai dissidenti è richiesto il silenzio e non la pubblica abiura.

Non c’è dubbio che oggi il PDL è costretto a scontare anche un “errore di giovinezza”: quello di avere pensato di articolare la discussione interna, come se questa potesse riguardare solo il futuro e non anche il presente, solo il profilo ideale del partito e non anche le concrete scelte di governo. Un partito che inizia a discutere, invece, discute inevitabilmente di tutto: anche della genialità tremontiana, a cui tutti ci inchiniamo, ma che ad alcuni inizia a non sembrare del tutto diversa da quella di un rispettabile tecnocrate del centro-sinistra. Anche della legge finanziaria, che ha confermato che il “programma può attendere”. Anche delle questioni istituzionali, in cui un partito che ha regalato alla Lega la testa del referendum Guzzetta oggi rischia l’accerchiamento, la confusione e l’afasia. Anche dei problemi bio-politici, su cui un partito ancora impreparato ha scelto di avventurarsi con un “bignamino” bio-etico desolante, per “vendicare” la morte di Eluana. Anche della giustizia, in cui il processo breve e il lodo costituzionale non sono una riforma, ma semmai una premessa della riforma, che è altrettanto urgente e irrinunciabile.

E’ vero che l’indispensabile legame tra discussione politica e funzione di governo impone ad un partito, su cui grava il peso dell’esecutivo, di trovare un’unità di azione e di indirizzo e di non procedere in ordine sparso. Ma è una responsabilità che pesa sia sulle maggioranze, sia sulle minoranze e più sulle prime che sulle seconde. Questa unità – se non vuole essere la burocratica richiesta di un “voto conforme” – comporta la capacità di trovare una sintesi efficiente tra posizioni diverse e ugualmente “rappresentative” della realtà sociale, culturale e ideale del PDL.

Prendiamo il tema di governo meno suscettibile di interpretazioni anti-berlusconiane, cioè il rapporto tra tassazione e spesa pubblica. Come si risponde alle obiezioni del Professor Baldassarri, lungo le quali si articolerà parte della discussione della finanziaria anche alla Camera? Chiedendo all’Ufficio di Presidenza del partito di decidere se il Professore ha ragione o ha torto? Oppure cercando un modo ragionevole per tenere insieme (perché “devono” stare insieme, in un partito del 40%) le proposte di chi intende innanzitutto garantire la tenuta dei conti pubblici e quelle di chi ritiene che, per ragioni di efficienza e di equità, i livelli di spesa pubblica e imposizione fiscale non possano più considerarsi “variabili indipendenti”?

La risposta alle tensioni interne dovrebbe essere quella di accelerare la costruzione di un partito capace di elaborare, e non solo di supportare, le necessarie sintesi richieste dall’azione di governo. Questa è la scommessa del PdL. Che non c’entra niente con il “contiamoci” minacciosamente pronunciato da chi pensa che ogni differenza segni una ragione e un torto e valga un regolamento di conti. In un partito che vuole governare, e non esercitare l’egemonia sulle masse, una rigida ortodossia è sempre prova di colpevole leggerezza.

Carmelo Palma - 40 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it


CREDITS: Libertiamo

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