Noi e la Lega
Cota proibisce l’RU486. Ma è un pesce d’aprile
Neppure il tempo di insediarsi e i governatori regionali troveranno ad aspettarli gli scatoloni con la kill-pill, come molti amano chiamare la RuU486. Da oggi la Nordic Pharma, su mandato dell’azienda produttrice del farmaco, la Exelgyn, aprirà gli ordini di vendita della pillola abortiva. Così, nel giro di poco tempo il farmaco approderà negli ospedali italiani. E le regioni, da chiunque siano governate, dovranno dare attuazione alle decisioni dell’Aifa, che il governo ha contestato, ma non annullato.
Il governatore piemontese Cota, per concludere la passerella post-elettorale all’insegna del “valore della vita”, ha annunciato che farà di tutto per “lasciare gli scatoloni dell’RU 486 nei magazzini”. Nella sostanza non farà nulla, prenderà tempo, eccepirà su aspetti tecnico-amministrativi relativi al prezzo e alla rimborsabilità del farmaco… Insomma, farà una sorta di resistenza passiva basata sull’auto-ostruzionismo burocratico, poi, presumibilmente, la pianterà, ben sapendo di non potere proibire in sede locale l’utilizzo di un farmaco contro cui il governo ha detto di tutto, ma non ha fatto nulla, non volendo né potendo toccare la legge 194.
Come abbiamo già scritto, sui temi della biopolitica non valgono le promesse da campagna elettorale. Non valgono perché le promesse non possono istituzionalmente essere mantenute. Se sull’aborto sta fermo il Parlamento nazionale, il Consiglio regionale del Piemonte (o della Lombardia o del Lazio) rimarrà inchiodato allo status quo. Il vero nodo che le regioni devono sciogliere è e sarà solo quello dell’efficienza. Peraltro il problema della riduzione del numero degli aborti praticati legalmente e clandestinamente è un problema di efficienza, prima che di principio, visto che servono campagne pervasive di informazione e profilassi, a partire dal bacino delle giovani (e meno giovani) straniere, non anatemi contro la cultura della morte.
La “battaglia per la vita” (che in Italia è divenuta una battaglia per l’aborto chirurgico contro quello farmacologico) è manfrina politicista, di puro posizionamento. Tutti i governatori dovranno accettare l’inserimento del farmaco nel prontuario regionale e disciplinarne l’utilizzo in base a quanto ha stabilito il Consiglio Superiore di Sanità, secondo cui l’unica modalità di somministrazione compatibile con la legge 194 è quella del ricovero ordinario. Tutto il resto è spettacolo, rappresentazione, teatrino della politica.
Simona Nazzaro - Nata a Roma nel 1980. Laureata in Scienze della Comunicazione, a La Sapienza, ha curato le campagne politiche e di comunicazione dell’Associazione Luca Coscioni. Collabora con diversi settimanali e quotidiani. La sua grande passione è il basket, e da anni concilia questa con il lavoro: conduce infatti una trasmissione radiofonica di approfondimento sportivo. Collabora da Luglio scorso con Libertiamo.
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Lega: libertaria ieri, balena verde oggi, laburista domani?
Il partito di Bossi è stato la grande speranza di chi voleva allentare la morsa delle burocrazie statali sulla libertà individuale. Mostra purtroppo segni di trasformazione in una versione regionale della DC ed in prospettiva rischia di finire come quel partito, sbarcando armi e bagagli a sinistra, degenerato nel socialismo campanilista più netto.
La Lega, negli anni ‘90, cercava di pescare in due serbatoi elettorali su cui era tagliata a pennello l’allora Forza Italia, almeno al Nord: il popolo delle partite IVA e la cosiddetta borghesia produttiva. La propaganda leghista illustrava la secessione come una soluzione ai problemi derivanti dal peso eccessivo della tassazione e della regolamentazione burocratica, che limitavano la libera scelta individuale e il rinnovamento del tessuto produttivo. Il tema più generale della libertà individuale veniva ignorato, ma le conseguenze delle politiche leghiste potevano ampliarla. La Democrazia cristiana ed il pentapartito in generale avevano invece convogliato i voti di tali ceti verso politiche collettiviste, sfruttando la minaccia comunista e millantando l’assenza di possibili alternative ad una deriva socialista.Buona parte della base leghista, dopo quindici anni, potrebbe ancora avere a cuore tali temi, come vorrebbe l’amico Mondopiccolo. La sua dirigenza, tuttavia, sembra averli abbandonati, esattamente come fece la Democrazia Cristiana: una volta scoperto quanto semplice sia comprarsi i voti con un apparato clientelare e con un’apparato propagandistico adeguato, è facile sbandare a sinistra; ai produttori non rimane che la scelta fra il male minore, ossia una Lega – ed un PdL, purtroppo – che almeno non paiono programmaticamente ostili.
Il programma di Zaia e la sua definizione della Lega come “Partito Laburista” sono per ora ambigui, ma si ricollegano alle note simpatie di sinistra di esponenti leghisti quali Maroni. La prudenza fiscale, presupposto di una riduzione delle imposte e dell’intrusione statale, è in contraddizione con un programma economico composto di sussidi per tutti i gruppi sociali favoriti, a spese del contribuente che si ritrova a pagare il conto, oltre che le spese per l’intermediazione politica di tali trasferimenti. Il tema della sicurezza serve per sviare l’attenzione generale, mentre quello federalista appare sempre più uno strumento per diminuire la fetta di estorsione fiscale spartita con il governo centrale, non un mezzo per ridurre tale estorsione. Anche se a parole i leghisti sono rivoluzionari, la Lega rischia di diventare una Balena Verde, dove l’attenzione forse involontariamente liberale all’individuo viene sostituita dall’irreggimentazione burocratica, devastante nel lungo periodo anche quando efficiente nel breve termine.
Viene aiutata, in questo, dall’insipienza di un PdL che non può o non vuole, a livello dirigenziale, mostrare che il re è nudo, ossia che la Lega rischia di danneggiare il proprio elettorato storico pur di sfondare a sinistra. L’unico modo per mantenere entrambi i partiti fedeli alle proprie promesse liberali e conservatrici sarebbe quello di una sana competizione per la parte centrale del proprio elettorato; al contrario, l’impressione è quella di un patto scellerato, dove entrambi i maggiori partiti di destra si dedicano all’elettorato del’altra sponda, privando di rappresentanza i ceti che li hanno portati alla ribalta.
Per colpa delle proprie mancanze e, forse, per inseguire le nostalgie di troppi suoi dirigenti ex-socialisti, il PdL si sta lasciando cannibalizzare dalla Lega, più abile anche in questo esercizio di schizofrenia politica. Il rischio è che quando le partite IVA comprenderanno l’errore di continuare a credere alla retorica leghista, che ormai cerca di conciliare elementi opposti, il PdL sarà screditato quanto il partito di Umberto Bossi, che nel frattempo sarà tuttavia riuscito a trasformarsi in principale partito “di sinistra” nel Nord Italia. Lasciando, di nuovo, una delle parti migliori del paese priva di rappresentanza politica adeguata; lasciando, di nuovo, l’intera nazione priva delle riforme liberali tanto disperatamente necessarie per riprendere il sentiero dello sviluppo.
Questa degenerazione non è inevitabile, soprattutto se il Popolo delle Libertà ricomincerà ad essere quello che avrebbe sempre dovuto essere: il veicolo per la riforma liberale in Italia. Grazie a Silvio Berlusconi ed al positivo risultato elettorale, è possibile affrontare il problema da un posizione privilegiata. Facciamolo, per il bene dell’Italia, del PdL – e della Lega.
John Christian Falkenberg - John Christian Falkenberg è il tenutario del blog The Mote in God's Eye; collabora con Tocque-ville.it e Giornalettismo.com . Il suo alter ego in carne ed ossa è laureato in Economia e fra poco festeggerà dieci anni di sopravvivenza in svariate sale operative, passati a districarsi fra default, titoli tossici e bolle di ogni ordine e grado.
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L’asse Berlusconi-Lega è una garanzia per il presente, non una polizza per il futuro del centro-destra
Una bruttissima campagna elettorale, dominata da faccende di liste non presentate e firme mancanti, dalle intercettazioni, dall’ingiustificata soppressione delle trasmissioni di informazione Rai, dalla chiamata a raccolta dei “buoni” contro i “cattivi” (dall’una e dall’altra parte).
Le questioni di politica pubblica, le riforme – economiche, del welfare, della giustizia, delle istituzioni, della legge elettorale – necessarie per il Paese, una seria riflessione sul “federalismo” finora realizzato e su quello da realizzare, la bancarotta del sistema sanitario in una parte del paese, la valutazione delle diverse esperienze di governo regionale, tutto ciò è rimasto sullo sfondo, anzi così sullo sfondo che nessuno lo ha visto.
Soltanto la vittoria del centrodestra in Lazio e in Piemonte ha evitato il proseguire dell’ “abbiamo vinto noi, no abbiamo vinto noi” già cominciato nelle prime ore dopo la chiusura delle urne. Ma nessuno si aspetta che si ricominci a parlare seriamente di politica e di politiche, nemmeno nelle rinate trasmissioni di informazione Rai, che probabilmente non avrebbero arricchito di grandi contenuti la campagna, ma la cui censura costituisce una brutta pagina della nostra democrazia.
Ciò detto, vale la pena di proporre alcune considerazioni sparse, per cominciare a comprendere le conseguenze di queste elezioni, che hanno confermato la presa del centrodestra – ma non necessariamente del Pdl – su buona parte del territorio italiano, fatta eccezione per il centro “rosso”.
Partiamo dall’astensione. Quasi il 36% degli italiani non è andato a votare e vi è stato un calo della partecipazione del 7,8% rispetto alle precedenti regionali. L’Udc, con Adornato, e alcuni rappresentanti dei “nanetti” hanno già parlato di una disaffezione dell’elettorato verso l’attuale sistema, di una crisi del bipolarismo. Wishful thinking, e ognuno della propria irrilevanza si consola come può, ma le cose stanno un po’ diversamente.
Innanzitutto, se è molto probabile che una parte dell’astensione sia legata ad una delusione verso la classe politica, ciò non comporta automaticamente una critica verso il bipolarismo in quanto tale. In secondo luogo, la stessa importanza del dato dell’astensione va ridimensionata: non solo esso si colloca in una più generale tendenza che coinvolge anche altre democrazie, ma in una tendenza di lungo periodo del nostro paese.
Certamente, a questa tendenza non è estranea la bipolarizzazione del sistema, che condiziona fortemente il comportamento elettorale incentivando la scelta attorno a due principali opzioni; tuttavia, anche queste elezioni mostrano che la stragrande maggioranza degli elettori si è adeguata a questo modello e che le posizioni centriste non pagano e possono sopravvivere solo grazie al permanere nel nostro sistema politico di leggi elettorali proporzionali (in Francia François Bayrou con più voti dell’Udc ha solo 4 deputati e nessun potere di coalizione).
Se il bipolarismo regge, ciò non significa che i due poli godano di ottima saluta e siano senza problemi. La sinistra e il Partito democratico non riescono chiaramente a riprendersi da una crisi di idee, progetti e strategie che priva il nostro sistema di una seria opposizione e alternativa futura. A parte la Puglia, dove ha svolto un ruolo centrale la fascinazione carismatica di Vendola, peraltro non del Pd, e la presenza di un terzo candidato molto popolare, la sinistra riesce ormai a vincere solo sulla dorsale appenninica. Ma anche a destra emerge una territorializzazione del voto.
Il successo al Nord si è infatti accompagnato con una netta avanzata della Lega, che ha anche goduto di un flusso di voti provenienti dal Pdl. L’affermazione del partito di Bossi costituisce un’ulteriore tappa di una tendenza già evidente da diversi anni. E non è irrilevante il fatto che ormai stia conquistando spazi importanti sotto al Po. In Emilia Romagna la Lega è passata dal 7, 76% delle politiche del 2008 all’11, 08% delle europee del 2009, grazie anche alla penetrazione di zone tradizionalmente bastione della sinistra, come le province di Reggio Emilia e di Modena. In queste elezioni, la Lega, a fronte di un Pdl al 24, 55%, ha conquistato il 13,67%.
E’ vero che, se il Piemonte e il Veneto saranno ora guidati da governatori leghisti, la regione più ricca d’Italia, la Lombardia, rimane saldamente nelle mani di Roberto Formigoni, ma Formigoni non è solo Pdl, è anche – e forse soprattutto – Comunione e liberazione. E il Pdl in questa occasione ha raccolto circa 300 mila voti in meno rispetto alla somma ottenuta da Forza Italia e Alleanza Nazionale nel 2005, mentre la Lega ne ha conquistati altrettanti in più.
Le cause di questo fenomeno sono molteplici. Da un lato la “forza” della Lega: la presenza sul territorio, un’organizzazione solida, una rete di buoni amministratori, la capacità di intercettare voti di “protesta” e di disaffezione verso i due maggiori partiti italiani, Pd e Pdl. Dall’altro la difficoltà del Pdl di radicarsi sul territorio e probabilmente l’indebolirsi della sua spinta riformista, della sua capacità di presentarsi come un partito capace di innovare seriamente e rispondere alle domande di un ceto produttivo in difficoltà. Questa situazione rischia di accentuare la parziale meridionalizzazione del Pdl, già evidenziata negli anni passati dagli studi di Ilvo Diamanti.
In che misura, all’interno del Pdl, ciò è avvertito come un problema? Forse più di quanto i suoi dirigenti vogliano ammettere. Tuttavia, non è scontato che sia un problema per Silvio Berlusconi. Il suo asse con Bossi gli garantisce ciò che probabilmente a lui più interessa, ovvero una maggioranza “presidenziale” o, più correttamente, “primo-ministeriale”, che gli consente di rimanere alla guida del governo.
D’altro canto, non bisogna nemmeno dimenticare che più volte il premier ha manifestato una certa insofferenza nei confronti del suo stesso partito e ha dato espressione concreta a questa insofferenza non solo con esternazioni, ma anche con la creazione di strutture parallele, come i recenti “promotori” guidati dalla fedelissima Michela Vittoria Brambilla.
Paradossalmente, dunque, il risultato più che buono della destra a queste elezioni regionali rende ancora più evidenti i problemi del Pdl, del suo consolidamento, della sua durata, della sua capacità di mantenersi come forza davvero nazionale. La leadership di Berlusconi e l’asse con la Lega garantiscono il presente. Da cosa sarà garantito, invece, il futuro?
Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.
CREDITS: Libertiamo

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