venerdì 25 settembre 2009

Ancora sull'Afghanistan

In Afghanistan, McChrystal rispolvera i manuali di counter-insurgency

Lunedì scorso il Washington Post ha pubblicato amplissimi stralci del rapporto preparato dal Comandante delle missioni ISAF (International Security Assistance Force) e USFOR-A (US Forces Afghanistan), Generale Stanley McChrystal, il primo da quando si è insediato nel paese il 15 giugno scorso. Il rapporto, datato 30 agosto, ha suscitato un ampio dibattito negli Stati Uniti e sarà ovviamente uno dei documenti chiave alla base della futura strategia degli USA e della NATO in Afghanistan. E’ importante sottolineare come la pubblicazione del rapporto sia tutt’altro che fortuita, come sempre accade in casi simili: le raccomandazioni di McChrystal – soprattutto in materia di aumento delle truppe USA sul campo – sono politicamente controverse per l’amministrazione Obama e per i Democratici nel Congresso. Dunque il fatto che il documento sia stato fatto trapelare appare un chiaro tentativo di forzare la mano del Presidente e del suo staff, al fine di accelerare un processo decisionale che finora è rimasto sostanzialmente fermo (come ricordato, il rapporto è stato trasmesso ai vertici politici americani quasi un mese fa).
Fonti riportate dal sito ForeignPolicy.com suggeriscono che il leak sia stato orchestrato dallo staff dello stesso McChrystal, il quale non avrebbe nascosto la sua frustrazione di fronte alle cautele di Obama e di una delle figure sempre più centrali della politica di difesa USA: il sottosegretario alla difesa Michèle Flournoy. Proprio la Flournoy ha rilasciato un’intervista martedì scorso, in cui ha tentato di ridimensionare la rilevanza del rapporto McChrystal, affermando che si tratta di “un input, un input molto importante, in una discussione più ampia che il presidente sta avendo su cosa fare in Afghanistan”. Secondo il sottosegretario, una decisione finale sull’incremento di risorse (cioè di truppe) non è imminente, e i media non dovrebbero enfatizzare eccessivamente il ruolo di McChrystal. In serata, il segretario di Stato Hillary Clinton ha sostanzialmente ripetuto le parole della Flournoy, aggiungendo stizzita che “ci sono altri assessment di analisti militari molto esperti che si sono occupati di counter-insurgency che dicono l’esatto opposto” di McChrystal. Infine, il Vice Presidente Biden e diversi Democratici nel Congresso suggeriscono un radicale ripensamento della strategia USA in Afghanistan, che punti tutto su operazioni di contro-terrorismo limitate ad al Qaeda e che non richiedano alcun surge. Apparentemente, l’amministrazione vuole evitare ciò che accadde per l’Iraq con il generale David Petraeus nel 2007, quando la strategia da lui elaborata fu appoggiata da molti nel Congresso e portò ad un anomalo superamento delle rilevanti perplessità esistenti tra i vertici militari USA. Il fatto che Petraeus abbia ottenuto risultati positivi in Iraq non rende meno preoccupante, dal punto di vista dei rapporti tra civili e militari, lo scavalcamento delle gerarchie che avvenne a suo tempo.

In breve, la pubblicazione del rapporto McChrystal ha sollevato un polverone politico che ha ben poco a che fare con le necessità della strategia militare sul campo, e molto con le oggettive difficoltà dell’amministrazione Obama, stretta tra le proteste contro la riforma sanitaria e un consenso popolare nei confronti dell’impegno afgano che si è ridotto notevolmente negli ultimi mesi. Tanto più che fino a gennaio non ci sarebbero truppe impiegabili per un surge afgano. Per ora, è probabilmente più utile analizzare in dettaglio le idee avanzate da McChrystal nel suo assessment, e cercare di comprenderne le implicazioni sul piano operativo.

Nel suo insieme, il rapporto rappresenta una totale revisione della strategia attuata finora dagli USA e dalla NATO. Tre i punti iniziali: la situazione sul terreno è andata deteriorandosi molto seriamente negli ultimi mesi; la strategia esistente va corretta ripartendo dai principi base; nonostante ciò, il successo è ancora possibile in Afghanistan, ma non sarà raggiunto semplicemente raddoppiando gli sforzi attuali. Sebbene l’interesse dei media sia comprensibilmente concentrato su un aumento delle truppe (i numeri non compaiono mai nel rapporto, ma diverse fonti indicano una cifra tra i 20.000 e i 40.000 uomini), McChrystal è esplicito nel dire che “l’attenzione alle risorse e agli uomini necessari manca interamente la questione.” Il punto centrale è piuttosto quello di realizzare “un significativo cambiamento della nostra strategia e del modo in cui pensiamo e operiamo”.

McChrystal e il suo staff vogliono innanzitutto un “back to basics”, un ripensamento dell’intera operazione in tutti i suoi aspetti: dagli obiettivi da raggiungere, ai mezzi da impiegare, allo stesso modo di pensare dei soldati sul terreno. In questo il rapporto evidenzia la necessità di riprendere in mano i manuali di counter-insurgency (COIN), fondati sui principi proposti in primis (perlomeno in età contemporanea) dal colonnello francese David Galula durante la guerra d’Algeria. Nelle operazioni COIN, l’obiettivo non può essere il controllo del territorio, né l’annientamento degli insorti: l’obiettivo deve essere la popolazione, e più precisamente si tratta di convincere gli afgani che gli insorti non prevarranno. Questo obiettivo va perseguito in modo coerente e con forte sinergia da tutte le componenti in gioco (governo locale, forze armate afgane e della coalizione).

Per McChrystal, la guerra in Afghanistan è certamente una “guerra d’idee”, ma a tale considerazione va aggiunta la consapevolezza che la percezione della popolazione (e degli insorti) è sensibile alle reali azioni sul campo degli eserciti alleati e di quello afgano. Semplificando: per convincere la popolazione a credere nella sconfitta talebana e a supportare attivamente gli sforzi del governo e di ISAF, quelle stesse truppe devono mostrarsi “sicure” del loro successo. Come fare? Qualche esempio: i soldati non devono restare chiusi nelle loro basi, non devono muoversi con il dito sul grilletto, non devono indossare giubbotti antiproiettile quando non ve ne sia reale bisogno. L’idea di fondo è che se le forze della coalizione in primis mostrano di avere paura, non si può pretendere che la popolazione sia più coraggiosa di loro e sfidi apertamente i Talebani. A questo cambiamento di atteggiamento verso la popolazione va corrisposta anche una continuità operativa che finora è mancata. I Talebani non sono in guerra solo 5 mesi all’anno, quando le condizioni meteorologiche permettono loro di scendere nelle vallate e attaccare le forze ISAF e la popolazione civile. Anche quando il numero di attentati cala, nei mesi invernali, la capacità di imporre un governo locale, di amministrare la giustizia e perfino di riscuotere tasse rappresenta per gli afgani il segno più evidente della forza degli insorti. E’ proprio questa percezione che va modificata con un impegno costante della coalizione, a cui va affiancato un significativo aumento del numero di militari afgani, dai circa 100.000 attuali a 134.000 entro ottobre 2010.

Il rapporto McChrystal dimostra come non solo il generale, ma tutto il suo staff abbiano una forte consapevolezza delle complessità dell’Afghanistan. Tale consapevolezza è certamente mancata finora, anche riguardo alle importanti differenze (e quindi potenziali rivalità) tra i gruppi di insorti. Su questo particolare aspetto, il rapporto afferma che “insurrezioni di questa natura si concludono tipicamente attraverso la combinazione di operazioni militari e sforzi politici che conducano a un certo grado di riconciliazione con alcuni degli insorti”. Esiste tuttavia una differenza qualitativa tra riconciliazione con una parte della guerriglia (che dev’essere decisa e condotta dal governo afghano, a cui ISAF può solo offrire collaborazione in tal senso) e reintegro degli elementi di secondo piano che ne fanno parte. Nel secondo caso, l’obiettivo è quello di offrire alla “truppa” talebana una terza alternativa – il reintegro – oltre a quelle di combattere o fuggire. Per ottenere risultati concreti è però necessario dare maggiore autonomia decisionale ai comandanti sul campo, in modo che possano offrire incentivi (sia economici che di protezione) ai potenziali disertori della guerriglia.
E’ significativo il fatto che il rapporto dedichi non molto spazio agli Stati confinanti (Iran e Pakistan), sottolineando come soprattutto il ruolo iraniano sia stato finora ambiguo: se è vero che Teheran coopera col governo afgano, al tempo stesso supporta attivamente alcuni elementi della guerriglia talebana. Inoltre, il crescente peso dell’Iran nelle vicende afghane non è visto di buon occhio in Pakistan, la cui reazione destabilizza ulteriormente gli equilibri afghani. La stabilità dello stesso Pakistan è ovviamente essenziale per un successo in Afghanistan. Il supporto diretto dei talebani pakistani a quelli afghani è naturalmente il problema principale, a cui si aggiunge l’appoggio di elementi dell’ISI (i servizi segreti di Islamabad). Ciononostante, l’insurrezione in Afghanistan è principalmente di natura interna, e l’implementazione di una strategia COIN centrata sulla popolazione è il miglior modo per ridurre l’efficacia delle interferenze esterne. Un rapido cenno viene fatto anche nei riguardi della Russia e dell’India. Nel primo caso, si nota come la dipendenza logistica di ISAF nei confronti dei paesi ex-URSS, e quindi della Russia, offre a quest’ultima una preoccupante capacità di influire in positivo o in negativo sulle possibilità di successo della missione. Il caso dell’India (che meriterebbe uno specifico approfondimento) è altrettanto controverso: se gli aiuti allo sviluppo offerti da Nuova Delhi vanno a tutto vantaggio della popolazione afghana, la percezione che il governo di Kabul sia pro-indiano dà ulteriori motivi al Pakistan di mantenere buoni rapporti con i Talebani.

In conclusione, il cambiamento di strategia proposto da McChrystal è un segnale di forte discontinuità rispetto al passato. In retrospettiva, c’è da chiedersi perché in otto anni di guerra non sia stato possibile implementare un’operazione di counter-insurgency come quella proposta oggi dall’attuale Comandante dell’ISAF. In ogni caso, le forze armate USA sembrano aver re-imparato la lezione che avevano a caro prezzo appreso in passato (si pensi al Vietnam), efficacemente riassunta all’epoca (era il 1969) dalla frase di Kissinger “la guerriglia vince se non perde, l’esercito convenzionale perde se non vince”. Tuttavia, per tentare di ottenere un successo in Afghanistan è indispensabile la risolutezza della leadership politica USA, la quale appare oggi meno scontata di quanto si pensasse solo poche settimane fa, allorché Obama definì quella afghana una “war of necessity”. D’altra parte, Obama ha sicuramente una ottima ragione per essere cauto: le recenti elezioni in Afghanistan sono state, com’era prevedibile, tutt’altro che “free and fair”. Il rischio concreto per il Presidente è quello di esporsi appoggiando Karzai – un leader già profondamente delegittimato – senza spingere per un qualche compromesso con i candidati sconfitti, in particolare l’ex Ministro degli Esteri Abdullah Abdullah. Se ottenere l’appoggio della popolazione dev’essere l’obiettivo della coalizione, è cruciale in questo momento evitare di compromettere ulteriormente la credibilità del processo politico in atto nel paese con una scelta sbagliata.

ISRIA is an information analysis and global intelligence company and network whose website www.isria.com is a world leading provider of geopolitical and diplomatic information. Analysts, diplomats and policymakers subscribe to its online service for their daily global and strategic monitoring.

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Carlo Alberto Cuoco - Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche presso la Facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli” di Forlì (Università di Bologna) con una tesi sulla Rivoluzione negli Affari Militari. E’ intern presso ISRIA (www.isria.com), compagnia di information analysis e global intelligence leader nel settore della consulenza ad analisti di intelligence, diplomatici e policy-makers.

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Lasciare l’Afghanistan significa importare la guerra e militarizzare l’Occidente. Altro che pace


In questi giorni le cronache americane ed italiane ci rivelano che in entrambi i Paesi si è riacceso il dibattito riguardo alla guerra “giusta” in Afghanistan, arenata in un pericoloso stallo che favorisce i talebani, più attrezzati per un lungo conflitto.
Ma cosa accadrebbe negli USA se si lasciasse l’Afghanistan, come vuole il fior fiore dell’intellettualismo liberal-pacifista e qualche isolato repubblicano memore della tradizione isolazionista del partito? Quali sarebbero le conseguenze di una ritirata in stile Vietnam?

Innanzitutto, va detto che, prima che sull’Afghanistan, questo refrain, con una forza mille volte più grande – alla Casa Bianca c’era ancora “il cattivo” Bush – ha costituito la posizione con cui il partito democratico, compreso Obama, ha votato contro i rifinanziamenti per la guerra in Iraq, prima e durante il surge. Prima che il Generale Petraeus dimostrasse loro che si sbagliavano, in molti pensavano che in Iraq non si potesse trovare una soluzione vincente. Il leader democratico in Senato Harry Reid lo disse chiaramente, la guerra in Iraq era persa: ma si sbagliava. Il nostro parere è che oggi gli stessi che vogliono il ritiro delle truppe non siano pronti ad affrontare ed accettare ciò che succederebbe in seguito, e non sarebbe la prima volta.

Se il Vietnam è il paragone col quale confrontarsi, allora è bene ricordare cosa avvenne lì dopo che gli americani se ne andarono. Se il fronte pacifista smise di organizzare sit-in di fronte alle ambasciate, se la parola Vietnam sparì dai titoli dei media felici di aver contribuito ad umiliare gli Stati Uniti, ai vietnamiti del sud capitò di finire nel peggiore incubo possibile. La stessa cosa succederebbe agli afgani. A lungo il pacifismo da battaglia ha mugolato che gli americani si sono meritati l’11 settembre per aver abbandonato l’Afghanistan dopo averlo armato contro i russi: ma questo è esattamente quello che vuole oggi il fronte del ritiro, gli stessi che (dimenticando che c’era una risoluzione ONU da rispettare) criticarono Bush padre di aver fatto l’errore per non essere arrivati fino a Baghdad, dopo aver liberato il Kuwait. Ai cittadini afgani che sono andati a votare mostrando orgogliosi la testimonianza marchiata con l’inchiostro sulle loro dita, alle donne che si stanno ribellando alle sevizie talebane, ai ragazzi che hanno scommesso a costo della loro vita sulla pur lenta rinascita del loro Paese, che messaggio darebbe un’America che di colpo li lasciasse nelle mani dei loro aguzzini? Quanti oggi piangono la morte dei civili innocenti, farebbero lo stesso dopo, con statistiche dieci volte maggiori? Noi siamo certi di no, il Vietnam insegna.

Negli Stati Uniti si correrebbe seriamente il rischio di un ritorno ad avvenimenti bui che gli americani si sono lasciati alle spalle: i campi di detenzione dove furono rinchiusi i cittadini americani di origine giapponese dopo Pearl Harbor; il trattamento da “aliens” per i nostri connazionali colpevoli di venire dal paese di Mussolini, nonostante in quel momento Fiorello La Guardia fosse sindaco di New York. Una volta ritirate le truppe, i talebani riprenderebbero il potere massacrando chi si è schierato contro di loro e penserebbero ad una sola cosa: come farla pagare agli americani. Il clima del “ci colpiranno a casa nostra, non sappiamo solo quando e dove” influenzerebbe nuovamente la vita di tutti i giorni negli Stati Uniti. Le Ambasciate ed i compound con le truppe statunitensi nel mondo dovrebbero triplicare le misure di sicurezza, con scorno dei cittadini del posto che riprenderebbero ad odiare la bandiera a stelle e strisce. I luoghi dove gli americani vanno in vacanza si svuoterebbero. Le frontiere soffrirebbero nuove restrizioni, gli scambi delle merci si farebbero più ardui, i rapporti diplomatici si raffredderebbero. Se è vivo, Bin laden riapparirebbe in video e riaprirebbe ferite oggi chiuse nel cuore di tutti gli americani. Il Pakistan e la sua bomba atomica sarebbe nel mirino di questa gente, con convinzione e mezzi che oggi non hanno, perché impegnati in un’altra battaglia.

Il Presidente Obama si vedrebbe costretto a rafforzare la sicurezza contro un nemico invisibile, fra la gente tutti i giorni. Non pochi cittadini americani ricomincerebbero comprensibilmente ad osservare gli arabi ed i musulmani con sospetto; da parte di frange estremiste comincerebbero a circolare idee ed azioni razziste contro la comunità musulmana americana. La situazione rischierebbe di esplodere facilmente in seguito all’accensione di una miccia (come ad esempio l’arresto, avvenuto pochi giorni fa, di tre statunitensi di origine afgana sospettati di preparare un attentato a New York, che oggi non ha innescato alcuna reazione a catena) e per prevenire i rischi Obama si vedrebbe costretto a rafforzare decisamente il patriot act per un periodo indeterminato, perché si rafforzerebbe in alcuni la sensazione che l’unico modo per stare al sicuro è eliminare il pericolo di “cellule dormienti”, come quelle che causarono l’11 settembre. Bisognerebbe mettere mano ad un lavoro lungo, oscuro e difficile, in cui ci si sporca le mani e i primi a criticare tutto ciò sarebbero proprio quelli che oggi vogliono il ritiro delle truppe. I democratici si spaccherebbero tra liberal e pragmatici, ma anche tra i repubblicani emergerebbero differenze tra una componente più estremista ed una più moderata. L’economia rischierebbe un nuovo collasso con il petrolio alle stelle, la parte meno fondamentalista del Medio Oriente si troverebbe con un incendio alle porte, impossibilitata ad evitare che la diffusione delle fiamme all’interno dei propri confini: ciò comporterebbe una recrudescenza che lascerebbe un allarmato ma inerte Occidente a guardare le sollevazioni di chi si ispirerebbe nuovamente a Bin Laden e gli spargimenti di sangue che ne conseguirebbero, in stile Algeria fine XX secolo. In qualcuno di questi Paesi i radicali islamici potrebbero prendere il potere, e lì il paragone sarebbe con l’Iran del 1979.

Tutto ciò porterebbe ad una crisi di proporzioni simili solamente ad una guerra mondiale, per evitare la quale i governi occidentali che rispondono ai propri elettori – strategicamente svantaggiati rispetto ai tiranni che ai loro cittadini si impongono – sarebbero costretti a negoziare da una posizione debolissima. E lo farebbero obbligati più di quanto non siano già ora a corteggiare altri Paesi al margine di questo conflitto come Cina e Russia, che si farebbero pagare carissima una vicinanza che l’Occidente dovrebbe costantemente rinegoziare, dimenticando i propri principi e rimettendoci ogni volta di più.

Non sono solo gli Stati Uniti a dover sperare che in Afghanistan si rimanga e si vinca. E’ importante in primis a livello strategico che Obama mantenga la linea del suo predecessore. Se venisse a mancare il ruolo che gli USA hanno avuto nel corso del secolo scorso, se ai nemici della democrazia e dell’Occidente si mandasse il messaggio che l’unico approccio americano sarà d’ora in poi l’appeasement ad oltranza tipica dell’Europa imbelle, i primi a pagarne il prezzo saremo proprio noi europei: un conto è giocare all’allegro pacifista con l’ombrello americano che ti protegge, altro è farlo in campo aperto, contro avversari motivati e galvanizzati dal ritiro americano e consci dell’incapacità europea di difendersi.

Umberto Mucci - Nato a Roma nel 1969, laureato in Scienze Politiche alla Sapienza di Roma, ha un master in marketing e comunicazione. Si occupa di pubbliche relazioni in ambito di internazionalizzazione. Rappresenta in Italia l’Italian American Museum di Manhattan. Ha pubblicato per la rivista per italiani all’estero èItalia e per Romacapitale. Ha co-fondato e diretto la Fondazione Roma Europea.


CREDITS: Libertiamo

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