venerdì 19 febbraio 2010

La legge elettorale da sola non può bastare a tutelare la democrazia

Il partito non è una sigla

incollata su un'ambizione

di Sergio Talamo



La legge elettorale, si dice, non è un fine ma un mezzo; una tecnica che, da sola, non garantisce né onestà personale né qualità della politica. Giusto. Ma questa non è una buona ragione per tenerci una legge elettorale che, alla prova dei fatti, ha sepolto ogni fremito partecipativo consegnando la politica a un'oligarchia che non risponde a nessuno.



Il problema della legge attuale basata sulle liste bloccate, non sono le liste bloccate in sé. Qualunque sistema porta in sé il rischio di arbìtri e di abusi. Non a caso, nella Prima Repubblica il meccanismo delle preferenze era tra i principali imputati dei costi esorbitanti delle campagne elettorali. Il problema è che in Italia le liste bloccate si sono associate alla sostanziale scomparsa dei partiti. Quindi, eliminata la selezione naturale e formativa della vita di partito, si è finito che a nominare i parlamentari sono poche persone chiuse in una stanza. Questo è l'esito finale della "rivoluzione" dei primi anni '90. Del resto, nella storia non è la prima volta che le rivoluzioni in nome del popolo producono esiti sovietici.



Solo un partito democratico, partecipato e sano, può produrre candidature all'altezza dei compiti pubblici cui sono destinate. Ma per costruire un partito vero e democratico, ci vuole una passione civile e una pazienza che i nostri politici non hanno dimostrato di avere. Nel corso della Seconda Repubblica i partiti hanno cambiato nome e composizione decine e decine di volte, come in un caleidoscopio impazzito. L'obiettivo era appiccicare una sigla sopra un'ambizione, quasi sempre di corto respiro o personalistico.



Allo stato attuale, sono in campo una decina di formazioni che si fanno chiamare "partiti" ma che in realtà hanno un'impronta monarchica e comunque ancora provvisoria. Il partito diventa così espressione di uno stato d'animo oppure emanazione di un leader. L'unica forza politica che prova a far diversamente è il Pd con le sue primarie. Ma non per caso, al suo interno si suol dire che «si chiamano primarie perché si sa prima chi vince».



È in queste condizioni che le liste bloccate diventano il colpo di scure finale alla democrazia partecipativa; cioè a quel senso di inclusione che la vecchia politica, pur avendo in corso i suoi processi degenerativi, in qualche modo garantiva. Ogni cittadino sentiva di essere una parte, anche minuscola, di qualcosa di più grande e di solido. La sua voce in qualche modo si poteva esprimere: c'erano luoghi e spazi dove far risuonare le proprie opinioni e i propri problemi. L'idea di un sistema "chiuso" non era neppure concepibile. Tra i paradossi della vita italiana c'è anche questo: la vera "casta" è nata proprio dal ceto politico che era stato incaricato di farla dimenticare.



Oggi, Gianfranco Fini auspica il ritorno al sistema dei collegi uninominali. Nel breve periodo in cui la Seconda Repubblica ha adottato questo sistema, si diceva che «uno di Trento era eletto a Reggio Calabria» e viceversa. Ma di certo, quel signore di Trento doveva comunque sostenere una battaglia, farsi giudicare dagli elettori. Non come adesso, dove è eletto prima ancora di essere votato; dove si guadagna il posto con l'inevitabile servilismo verso i pochi che decidono.



La questione è delicatissima e non merita dogmi. Ad esempio, c'è chi predilige le preferenze, e va ascoltato. L'importante è decidere, e non ripetere l'errore di pensare che una legge elettorale possa bastare da sola. L'anima della democrazia sono i partiti, che hanno bisogno di tempo, pazienza, amore. Almeno per quelli, la logica dell'emergenza non funziona.



17 febbraio 2010

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