lunedì 31 agosto 2009

Un chiaro NO al gheddafismo tricolore

Per impegni universitari, oggi non ho potuto prender parte alla manifestazione romana dell'UDC. Ma con il cuore e con la mente ho partecipato anch'io. Perchè rimango di centrodestra, non condivido la politica dei due forni di Casini & C., ma non posso che essere d'accordo con loro sulla questione Italia-Libia...




CREDITS: UDC & YouTube

La rivincita del Mezzogiorno parte dalla No Tax Region

Nuove vecchie idee avanzano. Certo, di buone intenzioni e di intese bipartisan arenatesi per eccesso di consenso è lastricata la via della politica italiana. E anche nel caso della proposta di trasformazione del Mezzogiorno d’Italia in una grande No Tax Region per i redditi d’impresa, è forte il rischio di fallimento. Eppure il favore di cui la misura che l’Istituto Bruno Leoni va promuovendo da un anno a questa parte sta godendo è inusuale, autorevole e sempre più diffuso: un editoriale del 17 agosto di Angelo Panebianco sul Corriere ha tirato la volata all’endorsement del candidato segretario del Pd Pierluigi Bersani, che si somma alle prese di posizioni pidielline di Benedetto Della Vedova, Gaetano Quaglieriello, Santo Versace ed Erminia Mazzoni, al Pd Laratta e all’appoggio dichiarato di molti esponenti di Confindustria Giovani e di intellettuali come Franco Debenedetti. Insomma, qualcuno inizia a crederci davvero. Di cosa si tratta? Molto semplicemente, dell’abolizione dell’Ires per dieci anni per le imprese che investono nel Mezzogiorno, dall’Abruzzo alla Sicilia, con l’eventuale previsione di un’aliquota ridotta per un periodo di ulteriori cinque anni. Il calo di gettito andrebbe finanziato con la soppressione di un uguale importo di sussidi alle imprese. Un cambio di paradigma rispetto al passato, l’abbandono di decenni di assistenzialismo e di risorse a pioggia concessi all’economia meridionale, troppo e troppo spesso intermediati dalla politica e dalla burocrazia, che ne hanno fatto un terreno di consolidamento del loro potere, in favore di una misura trasparente ed impersonale: chi investe al Sud, non paga tasse sui propri utili. Semplice.

Circa nove anni fa, la proposta di una detassazione degli investimenti nelle regioni meridionali – da attuare attraverso la riduzione dei sussidi statali e comunitari – aveva fatto capolino nel dibattito politico. In particolare, era stato l’allora presidente di Confindustria, il campano Antonio D’Amato, ad avanzare l’idea, supportato, seppure con qualche timidezza, dal premier Giuliano Amato. Proprio la poca convinzione del Dottor Sottile e, forse, l’imminenza delle elezioni politiche italiane del 2001 contribuirono a far invece prevalere la contrarietà all’iniziativa dell’allora commissario europeo alla concorrenza, Mario Monti.

Non stupisca il fatto quel dibattito si sia svolto prevalentemente in sede comunitaria. Una detassazione dell’imposta sul reddito per le imprese meridionali ha più di un profilo di incompatibilità con le norme comunitarie in materia di aiuti di stato, tanto che l’eventuale placet di Bruxelles sarebbe dovuto avvenire (e ora dovrebbe avvenire) soprattutto per ragioni eminentemente politiche. Non è questa la sede per indagare la rispondenza della No Tax Region con i dettami comunitari. Le opinioni sono diverse e contrastanti ed è meglio, come si diceva, intavolare il dibattito sul fronte politico, chiedendo che l’Europa accetti la “eccezione italiana”, come fece anni or sono con l’eccezione britannica della signora Thatcher: sulla base della specialità di Albione, fu concesso a Londra di contribuire meno al bilancio comunitario rispetto a quanto le regole di finanza avrebbero previsto. Per l’Italia, l’eccezione si chiama Mezzogiorno, l’eccezione delle eccezioni: la situazione socio-economica di un pezzo così grande del Paese non giustifica forse interventi straordinari? Il Governo Berlusconi, nel dossier relativo al Protocollo di Kyoto, ha già dimostrato di saper fare la voce grossa a Bruxelles.

D’altro canto, si può davvero considerare aiuto di Stato una riforma che elimina per un certo lasso di tempo la tassazione del reddito d’impresa in un’area abitata da circa diciassette milioni di abitanti? Conti alla mano, il Mezzogiorno d’Italia sarebbe l’ottavo paese dell’Unione Europea. E non è azzardato considerarlo un paese quanto meno “per differenza”, rispetto al Centro Nord Italia: non c’è una statistica di natura socio-economica che sia una, in cui non si evidenzi la frattura profonda tra le due macroregioni della nazione, il carattere drammaticamente duale del paese. Se è arduo individuare le ragioni dell’arretratezza meridionale, è facile spiegare il fallimento delle politiche adottate negli ultimi sessanta anni: l’uso indiscriminato dei sussidi pubblici per finanziare improbabili e anti-economiche attività imprenditoriali, la cui unica ragion d’essere era spesso l’incentivo stesso. Al contrario, l’abbattimento della pressione fiscale è una leva per l’attrazione degli investimenti privati, ma è soprattutto un messaggio chiaro di “astensione” della politica e della burocrazia dalle dinamiche economiche.

Convinto fin da quando sedeva tra i banchi del Parlamento Europeo della bontà della proposta, Benedetto Della Vedova non ha mai smesso di coltivare l’idea della No Tax Region, proponendola come misura choc per il rilancio del Sud e ponendola più volte sul tavolo di discussione del Pdl, il partito di cui oggi è deputato nazionale. La collaborazione e la comunanza di idee che lega il sottoscritto a Della Vedova hanno fatto sì che l’idea finisse – elaborata nei suoi dettagli – nel Manuale delle Riforme dell’Istituto Bruno Leoni, un breviario di piccole rivoluzioni possibili per la legislatura in corso. Grazie alla capacità divulgativa del think tank liberale, la proposta ha raccolto un consenso insperato e crescente. Gli incontri e le tavole rotonde sul tema si sono susseguite nei mesi, anche grazie all’interessamento degli esponenti meridionali di Confindustria Giovani, ed il cammino è culminato a luglio con la firma, a Napoli, di un pledge – un impegno politico in stile anglosassone – da parte dei già citati esponenti del Pdl. Tra questi, il vicecapogruppo vicario dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello. Pur evidenziando i non pochi problemi di attuazione, nell’incontro organizzato dall’associazione partenopea Napoli Liberal, Quagliariello ha certamente riconosciuto la portata storica per il Sud e per l’intero paese dell’eventuale istituzione della No Tax Region: un Mezzogiorno che abbandonasse la via dell’assistenzialismo e che scegliesse con convinzione di competere con le regioni del Centro-Nord e con gli altri partner europei, si candiderebbe a diventare una delle aree più dinamiche e attraenti dell’area euro-mediterranea. Una motivazione di efficienza pratica corrobora poi la misura, secondo Quagliariello: “accettata l’idea che le politiche di sostegno allo sviluppo debbano essere intermediate dalla pubblica amministrazione – ha sottolineato il senatore nell’incontro di Napoli – ne consegue un’inevitabile crescita esponenziale dei costi amministrativi a carico del sistema delle imprese”. Anche volendo tralasciare le situazioni di malcostume e corruttela, è evidente che tali costi di transazione spesso riducono se non annullano gli eventuali benefici delle politiche di sviluppo.

L’appoggio di Pierluigi Bersani (che segue, per la verità, un’apertura di Massimo D’Alema di qualche mese fa) è una notizia molto positiva: se questa diventasse la posizione del Pd – al di là della vittoria o meno alle primarie dell’ex ministro dell’Industria – ci troveremmo di fronte ad un’inversione di rotta estremamente positiva per la politica italiana. Se il Pd abbandonesse l’impostazione vetero-keynesiana nei confronti del Meridione (quella che voleva più spesa pubblica, ergo più intermediazione; una via di cui il centrosinistra locale ha sovente beneficiato, Bassolino docet) e accettasse la sfida della competizione fiscale e del merito (è questo, in soldoni, il succo della No Tax Region), sarebbe più facile per l’attuale maggioranza di governo adottare la detassazione Ires e farla “digerire” alla recalcitrante Commissione Europea.

Ora, dalle parole ai fatti. Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, ha annunciato per settembre la costituzione di un tavolo tecnico-politico. Può essere un appuntamento importante, un vero laboratorio di policy con il quale “confezionare” alla virgola il testo normativo del provvedimento e per bussare alla porta del Governo. Per convinzioni e cultura politica, Giulio Tremonti non dovrebbe essere insensibile all’idea, che è anzi molto tremontiana. Tra strillanti partiti del Nord e fantomatici partiti del Sud, Pdl e Pd hanno un’occasione per dimostrare di saper superare le beghe quotidiane per l’interesse di tutti.

I pregiudizi così diffusi nei confronti del Sud potrebbero essere molto indeboliti se gli investitori internazionali – come ama sottolineare Della Vedova – leggessero sulle pagine dell’Economist: “Southern Italy: No Corporate Tax”. Dopo decenni di miliardi di euro bruciati nei mille rivoli del clientelismo e, troppo spesso, del malaffare, il Sud si troverebbe finalmente di fronte alla sfida della responsabilità.





Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo.





CREDITS: Libertiamo & L'Occidentale

Elezioni nei Lander, scenario confuso: messaggio ai sostenitori del sistema tedesco

Sassonia, Turingia e Saar. Tre Länder, due ad Est uno ad Ovest, uniti fino a ieri dal colore politico dei propri presidenti, il nero della CDU. I cristianodemocratici Stanislaw Tillich e Dieter Althaus dovevano così difendere con le unghie e con i denti un primato che nelle due regioni dell’ex DDR i conservatori detenevano sin dalla riunificazione. Sfida ancor più ardua per Peter Müller, il cui straordinario risultato ottenuto nel 2004 si dovette più che altro all’impopolarità dell’allora gabinetto rosso-verde. Sin dall’inizio, insomma, l’impresa di mantenersi da soli al comando era ostica, se non impossibile. In più, a mettersi di traverso si sono aggiunti di recente anche fattori contingenti e personali, che nulla hanno a che fare, come gran parte della stampa italiana ha invece dato ad intendere, con la popolarità della signora Merkel.In Turingia il governatore Althaus era reduce da una tragica vicenda, che lo ha visto coinvolto nel dicembre dello scorso anno, quando, nel corso di una sciata in una celebre località austriaca, ebbe una grave collisione con una turista slovacca, morta sul colpo. Il politico democristiano rimase per giorni in coma, risvegliatosi dal quale fu costretto a rispondere di omicidio colposo e a pagare di lì a qualche mese una multa di appena 33.000 euro. La commossa partecipazione con cui la sua terra visse quei momenti si è presto tramutata in rabbia ed indignazione, non appena Althaus ha comunicato di volersi ricandidare alla carica di presidente e ha palesemente impostato parte della sua campagna elettorale su tale spiacevole questione personale. L’esito uscito dalle urne, nonostante l’appoggio di circostanza di Frau Merkel, è stato a dir poco disastroso: la CDU ha perso circa 12 punti percentuali (dal 43 al 31%), non potendo così nemmeno giovarsi dell’apporto prezioso dei liberali (passati dal 3,9% al 7,6%). L’SPD ne ha invece approfittato, balzando in avanti di ben quattro punti (18,5%), ma pur sempre approdando a quasi dieci lunghezze di distanza dal vero secondo partito popolare della regione, Die Linke (27,4%). Ora la discussione ruota tutta intorno alla possibilità che sia o meno il candidato dell’estrema sinistra, Bodo Ramelow, a dar vita ad un gabinetto con socialdemocratici e verdi. Questi ultimi, così come anche l’SPD, hanno da subito messo nero su bianco di non avere intenzione di votare Ramelow come presidente. E’ possibile allora che si trovi un compromesso (presidente all’SPD, maggior numero di ministri a Die Linke) o che si individui un’altra personalità in grado di spianare la strada per un governo regionale rosso-rosso-verde.

Della medesima opzione si discute anche nel piccolo staterello della Saar, riunitosi alla Germania federale solo nel 1957. Qui il trionfo dell’ex padre della patria Oskar Lafontaine ha sorpreso tutti: un votante su cinque lo ha preferito agli altri Spitzenkandidaten; il che, trattandosi di una regione della ex-Germania federale, non può che lasciare attoniti: Die Linke ha chiuso con più del 20% dei suffragi. L’SPD, dal canto suo, nonostante il buon nome di cui sembrava godere tra gli elettori il proprio candidato Heiko Maas, è letteralmente sprofondata, peggiorando il già pessimo risultato del 2004 (da 30,8% a 24,5%). I Verdi tornano a fare capolino nel Landtag, pur avendo condotto una campagna elettorale in solitaria, lottando contro due “opposti conservatorismi”- così si è espresso il candidato capolista Hubert Ulrich-, ossia quello del governatore democristiano in carica e quello di Oskar il rosso. Non sarà insomma facile riuscire a formare una coalizione rosso-rosso-verde, si tratterebbe della prima volta al governo dell’estrema sinistra in un Land dell’ex-Germania Ovest. Il fallimento di questo schema in Assia appena una decina di mesi fa induce a credere che le trattative saranno assai accidentate. E per non spaventare l’elettorato a poche settimane dalla cruciale sfida Merkel-Steinmeier, CDU ed SPD potrebbero accordarsi per una Große Koalition.

In Sassonia, invece, la piattaforma politica risulta ancor più variopinta. L’attesa mista a preoccupazione ha infatti accompagnato lo scrutinio nella regione di Dresda, nella quale l’NPD- il partito dalle chiare tendenze neonaziste- è riuscito nell’ardua impresa di mantenere una propria rappresentanza nel Landtag. Nel 2004 l’elezione di ben 12 deputati (pari al 9,2% dei consensi) aveva destato scalpore e indignazione in tutta Europa. Questa volta l’NPD trova una riconferma, anche se molto più modesta (5,6%). Per la CDU, che governa la regione sin dal 1990, si è trattato di un importante e netto consolidamento (40,5%) in un Land sempre più locomotiva economica ad Est. Grazie all’egregio risultato dei liberali (10%), è probabile che il governatore Tillich decida di chiudere l’esperienza rosso-nera con i socialdemocratici e apra le porte all’FDP. Un chiaro segnale anche per la federazione.

Se dovessimo trarre un bilancio da questa tornata elettorale estiva, una cosa non potremmo affatto tralasciare: in quasi tutte le regioni della Bundesrepublik il sistema politico è ormai stabilmente pentapartitico. Ciò comporta un più ampio tasso di volatilità nella formazione delle coalizioni. Gli appuntamenti con le urne diventano delle lotterie. Nessuno sa con chi governerà. Tutto è demandato alle segreterie di partito dopo la chiusura dei seggi. Le soluzioni di emergenza o del tutto improvvisate incominciano ad abbandonare lo status di eccezione e a diventare la regola. E ciò va a palese detrimento della chiarezza dei programmi (volutamente vaghi) e della capacità dei governi di affrontare con nettezza i problemi principali della cittadinanza. Il sistema tedesco è anche questo. Un motivo in più per non importarlo.



Giovanni Boggero - Ha 22 anni ed è studente alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino. Al momento è iscritto all’Università di Gottinga per un periodo di studio nella Repubblica federale tedesca. Si è occupato di Germania per le testate Il Riformista e Il Foglio. Scrive regolarmente per il quotidiano online L’Occidentale e per il sito diretto da Oscar Giannino e prodotto dall’Istituto Bruno Leoni “Chicago-Blog”.





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Fini: Voglio un PdL laico e liberale - VIDEO




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sabato 29 agosto 2009

Agli amici di Libertiamo, una riflessione da repubblicano

- La crisi della politica – di cui tanto si è parlato in quest’ultimo anno – è più che altro decadenza dell’individualismo politico. Sembrerebbe che l’apice dell’individualismo fosse oggi la regola, ma invece mi pare di scorgere segni di scadimento.



Dall’entrata in scena di Berlusconi in poi, la maggior parte dei partiti di opposizione e maggioranza ha utilizzato strategie di comunicazione politica incentrate principalmente sulla figura carismatica del leader di partito. Lo hanno fatto a tal punto, che soggetti come PD, UDC e IDV copiando Berlusconi, hanno provveduto ad inserire il nome del proprio leader nel simbolo del partito. Una personalizzazione ingiustificabile se si pensa alla funzione di indirizzo che dovrebbe svolgere la politica. Non è un caso che la sfiducia dei giorni nostri sia per lo più indirizzata alle persone più che ai partiti. La leadership che si è affermata ai giorni nostri sembra fondarsi principalmente sulla capacità di risolvere i problemi nell’immediato, sul possesso di competenze o di uno staff di persone altamente competenti a comunicare e gestire le emergenze, più che a condurre le istituzioni del paese. Lo stesso risultato di Berlusconi del ’94 fu il frutto di una comunicazione fondata sulle competenze dell’uomo, sulla sua capacità e pragmaticità imprenditoriale.



E’ proprio in questo clima che la tradizione politica e la struttura ideologica del Partito Repubblicano può acquisire nuovo vigore. Un’ideologia “plastica”, in grado di adattarsi alle diverse situazioni congiunturali e al tempo stesso capace di proporre una visione di società a cui tendere.



Ogni giorno passato dal 1948 ad oggi ci ha permesso di prendere consapevolezza del fatto che la democrazia non è stato il punto di arrivo della nostra società ma quello di partenza. Le lotte democratiche per i diritti civili sono guerre quotidiane che vanno combattute con tutta la voce in corpo e tutto l’intelletto di cui disponiamo. Le conquiste democratiche sono da intendersi come rinvigorimento e non come degenerazioni para-anarchiche. E’ necessario avere una visione “religiosa” del progetto politico di cui siamo portatori. In che senso? Nel senso di un progetto in cui la rivelazione – intesa come raggiungimento di un macro/micro obiettivo politico – sia da intendersi come ri-velazione ovvero come madre di un rinnovamento ideologico a cui tendere. In assenza di questa plasticità della religiosità ideologica è difficile che un progetto politico come il nostro possa prosperare.



Qual è allora l’Italia per cui questo PRI deve battersi?



E’ un’Italia in cui il riconoscimento dei diritti civili sia il più ampio possibile. In cui le coppie di fatto siano riconosciute come realtà di fatto e di diritto. In cui la diversità sia valorizzata a tal punto da non farci sentire diversi. Un’Italia in cui chi fa politica sia di esempio ai cittadini. In cui la class action non sia solo oggetto di studio nelle università ma anche istituto da attuare nei tribunali. In cui la burocrazia non permetta allo Stato di avere sempre il coltello dalla parte del manico. In cui la tecnologia e la ricerca ci permettano di contribuire al benessere globale. In cui nessun gruppo economico possa fare cartello a svantaggio dei cittadini. In cui la consapevolezza dell’identità permetta al cittadino di aprirsi positivamente ad altre culture. In cui più che togliere i crocifissi dalle scuole si possano aggiungere mezzelune, stelle di Davide o immagini del Buddha. In cui si possa credere in Dio e in uno Stato laico. In cui gli autobus non siano dei carri bestiame ma delle valide alternative alla propria autovettura. In cui i sindacati, più che tutelare gli interessi dei propri iscritti, pensino anche a quelli delle generazioni future. In cui la pena venga scontata dal primo all’ultimo giorno. In cui il carcere abbia una funzione rieducativa e non esclusivamente punitiva. In cui la politica sia una cosa di tutti e non di pochi. In cui il consenso si fondi sulla consapevolezza del cittadino e non sulla sua presunta ignoranza.



Retorica? Sono consapevole di quanto questa visione ideale sia difficile da realizzare, ma sono altrettanto consapevole della necessità di avere un’idea di società a cui tendere, una metà senza la quale il nostro cammino politico equivarrebbe esclusivamente ad un vagabondaggio.

Gianfranco isolato? Nemmeno Berlusconi lo crede.

- Intervista a Benedetto Della Vedova, da L’Unità di sabato 29 agosto 2009 - Plaude al Cav che rinuncia alla cena con Bertone, si fa una risata sul presunto isolamento di Fini, ma invita a lasciar perdere “giochini di scambio” con la Chiesa sul biotestamento. Sul tema, nonostante l’andazzo, il neofiniano Benedetto Della Vedova è ottimista.

Perchè?

“Con la sua scelta saggia, Berlusconi dimostra che ciascuno deve fare il suo mestiere. La Chiesa ha una storia millenaria, non ha senso inseguirla come spesso si fa nel Pdl”.

Cosa dovrebbe fare invece?

“Mantenere la stessa autonomia che difende quando si tratta di immigrazione. La cosa paradossale è che su temi etici non lo faccia”.
Le difficoltà col Vaticano avranno effetti sul ddl Calabrò?

“Avremmo solo da perderci. Perchè noi dobbiamo rispondere alla società e agli elettori: l’idea di cucirgli addosso una camicia di forza sui temi etici è sciagurata. Non li rappresenta”.

Ma seguire la Chiesa sul fine vita rafforza il governo, o no?

“Ipotizzare che in Vaticano ci siamo persone disposte a questi scambi vuol dire pensare a una Chiesa temporale cui nessuno pensa… o no?”

Ritiene che Fini sia isolato?

“Chi lo dice mi ricorda quegli inglesi che, in passato, quando la Manica era in burrasca dicevano: il continente è isolato”.

La vedo ottimista.

“Lo sono. Non penso che Berlusconi si risolverà a uno scontro. Perchè deve continuare a guardare il Paese, in particolare quello che lo vota. E che la pensa come Fini”.

E se invece dovesse farlo?

“Porterà a casa un testo che verrà smontato dalla Consulta. Non granchè come risultato”.

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Pdl: Della Vedova, Fini rilancia rottura liberale e riformatrice berlusconiana

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl:

“La straordinaria rottura del conformismo politico operata in Italia da Silvio Berlusconi è consistita prima di tutto nell’aver portato nel campo del centrodestra la frontiera dell’innovazione politica, economica ed istituzionale. A partire da questo Berlusconi ha costruito uno straordinario consenso trasversale.Il profilo del Pdl che Gianfranco Fini ha delineato – da ultimo nello scambio di mail con il direttore de Il Mulino, Piero Ignazi, che L’Espresso pubblicherà nel prossimo numero – si muove in piena continuità e, anzi, rilancia il progetto berlusconiano di libertà individuale e di modernizzazione sociale ed economica, ancorandolo per il futuro alle politiche dei grandi partiti del PPE e dei suoi leader Sarkozy, Merkel e Rajoy e del conservatore Cameron.
Ovunque in Europa, infatti, il centrodestra conquista ampi consensi non con la retorica artificiosa e passatista del “Dio, patria e famiglia”, ma con un’apertura liberale sulle questioni sociali, in presa diretta con l’evoluzione della società. Un’applicazione pragmatica e tutt’altro che ideologica del concetto di laicità ha consentito ai partiti moderati di strappare alla sinistra europea il monopolio della modernizzazione, consentendo di coniugare libertà economica e responsabilità individuale sulle questioni della biopolitica”.


CREDITS: Libertiamo

giovedì 20 agosto 2009

Prigioni private, un’opzione pragmatica contro il sovraffollamento delle carceri

- L’iniziativa organizzata dai Radicali, la visita ferragostana di diversi parlamentari nelle carceri italiane, ha il merito di sollevare (ancora una volta) il dibattito sulle condizioni delle prigioni italiane – sovraffollate, inadeguate e spesso fatiscenti: è di pochi giorni fa la notizia della condanna dello Stato italiano a risarcire un detenuto bosniaco a causa dell’eccessiva “densità abitativa” delle nostre prigioni (per poco più di 43mila posti vi sono 62mila detenuti circa, che sarebbero stati 80mila senza l’indulto). In più, al sovraffollamento si aggiunge la scarsa qualità delle politiche di assistenza e rieducazione dei detenuti. Il problema del sovraffollamento va affrontato, prima di tutto, sul piano della previsione di pene alternative alla detenzione, quando questo sia ragionevole e di depenalizzazione di alcuni reati. Ma stante la situazione attuale, la questione di nuovi e più adeguati istituti di pena si pone in modo ineludibile. Appena qualche mese fa, abbiamo letto della proposta del ministro Alfano di dotare il nostro Paese di prigioni galleggianti, piattaforme ormeggiate nei porti italiani il cui scopo sarebbe quello di ampliare in modo relativamente rapido ed economico i posti a disposizione. Carceri di questo tipo esistono in altri paesi, sottolineano i sostenitori della proposta, e funzionano bene. L’idea, a suo modo suggestiva e innovativa, è rimasta per ora lettera morta.
Semplificando (ma neanche tanto, in realtà), le inefficienze del sistema carcerario italiano sono abbastanza “tipiche” del settore pubblico: ad una domanda crescente, si contrappongono vincoli di bilancio sempre più stringenti ed un’assenza di veri stimoli al miglioramento della qualità dei servizi erogati.
Per affrontare con tempi e costi compatibili con le necessità il tema della “offerta” di servizi penitenziari, la nostra proposta è quella di puntare sull’ingresso di operatori privati, per garantire una maggiore efficienza nell’uso delle risorse, senza che questo comporti alcuna “abdicazione” dello Stato dalle sue funzioni fondamentali. Il che consentirebbe di mobilitare da subito investimenti consistenti da parte di finanziatori privati laddove gli stringenti vincoli di bilancio pubblico rendono difficile il reperimento delle risorse per costruire nuovi istituti di detenzione.

In molti stati degli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, Australia o Sud Africa per restare alle realtà più grandi, prigioni private s’integrano da molti anni a quelle pubbliche, con tempi di realizzazione più bassi, maggiore qualità offerta e costi di gestione più contenuti. Lo Stato, grazie all’esistenza dei penitenziari privati, può ridurre i propri oneri di gestione diretta, per dedicarsi alla funzione di controllo della qualità, alla formazione delle guardie carcerarie e, soprattutto, alla tutela dei diritti e delle condizioni dei detenuti. Le prigioni private, a loro volta, sono indotte ad una ricerca costante di efficienza economica e di qualità dei servizi erogati: il mantenimento di una elevata reputazione presso l’opinione pubblica, i manager dei penitenziari privati lo sanno bene, è una condizione essenziale per sperare in futuri contratti con il settore pubblico. Lo scrutinio, anche severo, delle carceri da parte delle organizzazioni di tutela dei diritti umani nel sistema penale è fisiologico e, peraltro, auspicabile: siamo convinti che associazioni come Antigone, per citarne una tra le più note, non mancherebbero di fare della certificazione della qualità delle prigioni private una loro attività istituzionale. I risultati di questa pressione reputazionale sono evidenti: come ci informa la Reason Foundation, think tank americano molto attivo sul tema, mentre solo il 10 per cento circa delle prigioni pubbliche è stata accreditata dall’American Corrections Association (un’organizzazione indipendente che si occupa di certificare la qualità delle carceri), ben il 44 per cento dei penitenziari privati ha ricevuto tale riconoscimento. Un altro studio, realizzato dal Vanderbilt Institute for Public Policy Studies nel 2008, evidenzia come tutti gli stati americani che – nel periodo tra il 1999 ed il 2004 – abbiano affiancato penitenziari privati a quelli pubblici, siano stati in grado di beneficiare di risparmi nei loro budget. E queste risorse, è bene sottolinearlo, possono essere molto utili nell’aumento quantitativo e qualitativo dell’offerta di posti nelle carceri.
Grazie a contratti precisi tra governi e compagnie private, insieme ad una precisa e severa azione di monitoraggio pubblico ed un elevato livello competitivo tra gli istituti, negli Stati Uniti le prigioni private hanno raggiunto nel 2006 – a poco più di venti anni dai primi casi moderni di penitenziari non pubblici – il 7,2 per cento del totale. Risultati simili si verificano ormai anche negli altri paesi che hanno aperto le porte dei loro sistemi carcerari al privato: in Gran Bretagna, circa il 10,5 per cento dei detenuti è ormai ospitato in penitenziari privati, cifra che arriva al 17 per cento per l’Australia. Si tratta di un anello sempre più indispensabile nei sistemi penitenziari di questi paesi, grazie al quale si realizza un uso più efficiente delle risorse e si garantisce ai detenuti una maggiore tutela dei loro diritti. E dovunque s’implementano prigioni private, si determina una virtuosa pressione sul sistema pubblico, spinto ad “inseguire” sul fronte della qualità.
Ci auguriamo che le forze politiche sensibili ai guasti e alle tensioni del sistema carcerario italiano considerino questa come un’opzione concreta e pragmatica per contribuire ad affrontare il problema del cronico sovraffollamento delle carceri italiane.

di Benedetto Della Vedova & Piercamillo Falasca

CREDITS: Libertiamo.it

lunedì 10 agosto 2009

Ognuno si faccia la propria opinione...

Lettera ai nuovi arrivati. Chi sono io, perché andai con Berlusconi nel 1999 e accettai una candidatura nel 2001, perché poi l’ho lasciato: lo considero un traditore di tutti coloro che speravano di costruire un’Italia liberale, per non dire del suo tradimento putiniano della Commissione del Parlamento della Repubblica. Sono sicuro che lui non capisca l’enormità di quel che fa e che dice, e questo aspetto disarmante me lo rende umano. Ma occorre chiudere la pagina del berlusconismo e fare la rivoluzione liberale partendo da zero. Faccio notare ai miei detrattori che io sono uno dei rari italiani saltati DAL carro del vincitore e non SUL. Ieri questo blog è stato citato anche su tutti i giornali e media russi.

7 Agosto 2009

Specialmente per tutti i nuovi amici (e meno amici) di Rivoluzione Italiana, due parole su di me, così da non ripetere sempre le stesse cose. Io lasciai il mio posto, molto ben remunerato, alla Stampa, per soccorrere Berlusconi nel 1999 - quando era al suo punto più basso - e andai al Giornale con l’ottimo Maurizio Belpietro con la carica del tutto onorifica di vicedirettore editorialista. Dal 2006 sono pensionato e con il Giornale ho un rapporto di collaborazione esterna.

Io, come molti giornalisti e intellettuali di area socialista e liberale o ex comunista, pensai che si potesse aiutare l’imprenditore Berlusconi a varare quella rivoluzione liberale che l’Italia non ha mai avuto (e che meno che mai ha adesso) e di cui ha estremo bisogno: libertà, cultura, ricerca scientifica, televisione intelligente, scuola di altissimo livello, premio delle eccellenze, giornalismo libero e Stato laico nel rispetto di tutte le religioni, distruzione a mano armata dell’anti-Stato mafioso che occupa il territorio della Repubblica, decentramento amministrativo federale ma con un rilancio forte delle prerogative dello Stato centrale sul modello americano, creazione di una società con la massima attenzione per i bambini, i giovani e le donne e per queste ultime una particolare attenzione nella ricostruzione del rispetto loro dovuto.

Nel 2000 scoperchiai il verminaio dello scandalo Mitrokhin come giornalista e provocai la decisione del governo D’Alema di istituire una Commissione Mitrokhin che fu poi abbandonata dopo aver coperto quasi tutto l’iter parlamentare. Nel 1996 Berlusconi mi aveva già offerto un seggio alla Camera - è sui giornali - lo avevo ringraziato dicendogli di no: “Sono un giornalista, non un politico, la mia prima linea è la verità e servirla ai miei concittadini”, gli dissi e scrissi. Ringraziai e declinai anche un invito di Mario Segni per il suo Patto.

Nel 2001 Berlusconi mi propose un posto in lista al Senato con l’intesa di far parte di una eventuale futura Commissione Mitrokhin. Accettai per poter continuare in Parlamento la battaglia che avevo condotto sulle colonne del giornale. La legge per l’istituzione della Commissione fu discussa fra Camera e Senato per un anno e diventò legge nel 2002. Io ne fui eletto Presidente. Tutta la storia di questo immane lavoro che svela la verità su gran parte dei cosiddetti “Misteri d’Italia” è nel mio libro “Il mio agente Sasha” che è uscito da poco e che sta andando, senza aver avuto alcuna recensione, molto bene: 4.000 copie vendute nelle librerie durante il mese di luglio e malgrado la crisi. Considero questo libro il mio testamento spirituale e il rendiconto della più grande e mostruosa operazione di depistaggio che l’Italia abbia subìto, con un tappeto dei morti, l’ultimo dei quali fu “il mio agente Sasha” Litvinenko, assassinato proprio perché era il mio informatore segreto.

Visto che Berlusconi era amico di Putin, pensavo- io cretino - che ciò avrebbe costituito un vantaggio: “il nostro grande amico Vladinir” ci avrebbe aperto tutte le porte. In realtà Putin ce le chiuse tutte e con lui fece altrettanto Silvio Berlusconi, diventato ormai suo fratello, il fratello di uno dei più impuniti banditi del nostro secolo, esaltato con applausi che considero vergognosi.

Berlusconi e Putin, insieme e in combutta, hanno determinato - il primo passivamente e il secondo attivamente - il massacro della Commissione che Berlusconi all’inizio aveva voluto, sperando di trovare un po’ di nomi “di sinistra” da sputtanare a scopo elettorale.

Berlusconi si è comportato, con la sua collusione con il capo del KGB, di fatto come un traditore del Parlamento della Repubblica. Tutto ciò io a Berlusconi l’ho scritto e detto a bruttissimo muso, e glie l’ho ripetuto poche settimane fa quando mi ha chiamato per sapere come mai ce l’avessi tanto con lui.

Dal punto di vista personale, che è il meno importante, io sono stato da lui pugnalato alle spalle. Come ho già detto, i dettagli della vicenda sono tutti in “il mio agente Sasha” e non li ripeterò qui, benché su questo blog ci sia tutta la storia, per chiunque abbia la pazienza e la voglia di cercare e leggere.

Quando il brigante internazionale Putin ha provocato dopo lunga e accurata preparazione, con provocazioni di frontiera identiche a quelle che Hitler inscenò nel 1939 alla frontiera polacca, l’invasione della Georgia con la scusa che la Georgia tentava di riprendere il controllo della sua regione Ossezia, io corsi a Roma dagli Stati Uniti, era la fine di agosto dello scorso anno e le Camere erano chiuse, per partecipare alla sessione straordinaria delle Commissioni Esteri riunite a causa dell’invasione.

Io e Casini fummo gli unici a insorgere contro l’aggressione russa e la ignobile posizione italiana di sostanziale appoggio all’invasione. Due ore dopo mi fu comunicata la fine del servizio di protezione che mi aveva fatto vivere fra due angeli custodi armati per quattro anni, fra minacce di ogni sorta, italiane e straniere.

Prima ancora c’era stato l’ignobile tentativo della signorina Maria Rosaria Carfagna, detta Mara, di servirsi del mio nome per usarlo nel suo conflitto con la signora Sabina Guzzanti, di 45 anni, “comedian” di fama internazionale, la quale è certamente anche mia figlia, ma che tutto è fuorché la pupetta del suo papi.

La questione femminile dei berlusconismo mi aveva sempre colpito: il signor SB era ed è uno che non lesina commenti espliciti fino alla brutalità sulle donne ed è un uomo che incarna la sconfitta non dico del femminismo, ma di quel po’ di politica di dignità della donna come persona che gli anni Settanta e Ottanta avevano portato, e che oggi appare morta e sepolta.

Infine, la morte del Parlamento, malsopportato come un impaccio, e la distruzione di quasiasi forma di checks and balances. Già verso la fine del primo lungo mandato di SB, fra il 2001 e il 2006 (mentre io ero impegnato nella mia lotta all’ultimo sangue per la Commissione Mitrokhin) era chiaro che costui non aveva la più pallida idea di che cosa fosse una politica di riforme liberali e che puntava piuttosto verso una autocrazia personalistica, di tipo aziendale condita con le tecniche dello show televisivo.

Il suo applauso spudorato all’invasione della Georgia, la mignottocrazia, il tradimento della Commissione del Parlamento della repubblica italiana, mi hanno convinto che non c’era spazio, possibilità, margine di manovra per influire in alcun modo su SB, ebbro delle adunate oceaniche in cui una platea di persone di mezza età delirava per lui. Nasceva così il berlusconismo di massa, popolare, per nulla simile ad una forma di democrazia liberale, ma piuttosto ad un culto, una setta, una rabbia collettiva espressa da persone frustrate che vedono in SB il vendicatore della loro frustrazione.

Questo blog nacque nel settembre del 2006 dopo una serie di miei articoli sul Giornale, intellgentemente promossi dal direttore Belpietro, in cui io scudisciavo dall’interno Forza Italia, dimostrandone l’inconsistenza liberale e l’incapacità ad affrontare con strumenti culturali moderni l’egemonia, fallimentare e sterile, della sinistra. Quegli articoli provocarono uno tsunami di lettere di lettori del centro destra delusi da FI e da SB che inondarono per settimane il Giornale. Feci un data base, fondai questo blog e invitai tutti coloro che avevano scritto a partecipare. Fu così che nacque Rivoluzione Italiana, sulle ceneri di una mailing list che si chiamava Rivoluzione dei Nuovi Liberali, che avevo gestito dal 2001 al 2006.

Nel novembre di quell’anno il mio agente Sasha veniva avvelenato ed eliminato, Mario Scaramella attirato sulla scena del delitto affinché apparisse l’assassino e su quell’ondata emotiva mondiale la Commissione Mitrokhin, oscurata dalle televisioni di Berlusconi e della Rai per quattro anni sicché nessuno in Italia ne sapeva nulla, venne massacrata e resa infame: “la vergogna della Mitrokhin”, “la bufala della Mitrokhin”, Scaramella ridotto al rango di pagliaccio, io distrutto fisicamente e moralmente e precipitato in una depressione terrificante da cui sono uscito grazie a mia moglie e a bravi medici, fino alla ricostruzione di tutta la trappola, allo smascheramento di tutte le false interviste di Repubblica, e alla mia interrogazione parlamentare al ministro degli Interni Amato, che si risolse nel silenzio più assordante nella mia inutile e postuma vittoria, di cui nessuno seppe nulla.

Berlusconi taceva, parteggiava per Putin che abbracciava ad ogni pie’ sospinto e che rappresentava il nemico contro cui mi ero battuto da solo con le unghie e con i denti, insieme ai valorosi della commissione.

Io non ho nulla da rimpiangere.

Ho fatto il mio dovere, avrò compiuto molti errori di ingenuità e se tornassi da capo, ripeterei il mio cammino. Io non ho “creduto IN Berlusconi”.

Io ho creduto CHE Berlusconi fosse l’uomo che avesse chiesto l’aiuto mio e di tante altre intelligenze per costruire un’Italia moderna, liberale, democratica, libera, aperta, intelligente rispettosa dell’individuo e delle regole.

Ha fatto il contrario: ha costruito il suo cesarismo ed ora siamo alla tratta delle bianche, alle sgualdrine con il registratore che ricattano il Capo del Governo della MIA Repubblica e che lo sputtanano davanti al mondo perché lui non ha fatto il piacere che la sgualdrina si aspettava. E’ intollerabile e devo dire che era imprevedibile un tale degrado, lasciando stare Noemi, il racconto del suo fidanzato e tutto il resto, registrazioni fantasma comprese.

Il governo di SB lo trovo senza infamia e senza lode, ma la politica estera è disastrosa, amici del pirata Gheddafi cui regaliamo una flotta e del satrapo del KGB da cui dipendiamo per l’energia, ma che ha un suo letto a Palazzo Grazioli.

L’Italia intanto ha perso la bussola della democrazia liberale, non sa più neanche che cosa sia. Gli italiani sono stati violentemente rimbecilliti dalle televisioni omologate MediaRaiset, a mazzate di grandi fratelli e isole dei famosi, veline e meteorine, mignatte e mignotte, fanciulle corrotte dal berlusconismo che in piena innocenza non sanno decidersi tra essere una show girl o un parlamentare europeo, ma se hai culo magari farai il ministro.

La FORMA della democrazia è devastata e la sua sostanza appare ridotta all’osso. Per questo ho accettato l’invito a resuscitare il Partito Liberale Italiano e farne la zattera su cui racogliere gli italiani profughi dai due partitoni che hanno spaccato e spappolato l’Italia senza costruire nulla e uccidendo la dignità di una nazione.

All’estero parlano di noi tutti.

Da noi non si parla di noi.

Ieri in compenso siamo stati, noi del blog, su tutti i giornali russi.

Ultima nota: molti mi accusano di nutrire o mostrare una particolare violenta animosità nei confronti di SB. Errore: personalmente, conoscendolo bene, mi è simpatico. Lui non capisce assolutamente la gravità di quel che fa e dice. Ed è questo l’aspetto più terribile, ma anche quello più disarmante.

Però la sua rivoluzione liberale è stata una controrivoluzione liberticida. La sua apertura di spazi di libertà, si è trasformata in un unico ghetto televisivo in cui sui si procede per “book” di ragazzette carrieriste misurate col metro e i centimetri di vita tette e culo.

Sul piano internazionale siamo derisi e commiserati. E gli americani non perdonano as SB l’idiozia maggiore: quella di credere di essere il mediatore fra Usa e Russia. Tutto ciò ha precipitato l’immagine dell’Italia indietro, molto indietro.

Dunque la nostra Rivoluzione Italiana che era nata per dare al nostro Paese il liberalismo che non ha mai avuto, è più viva che mai. Più necessaria che mai. E io non intendo affatto mollare.

Non essendo più giovane, non nascondo subdole ambizioni.

Inoltre, lo faccio notare a chi mi insulta, sono l’unico italiano che sia saltato DAL carro del vincitore, anziché SUL carro del vincitore.

Il mio carro è quello della democrazia dei Paesi liberi, occidentali, figli delle grandi rivoluzioni inglese, americana e francese (prima parte). E questa, penso, è tutta la storia della mia vicenda che può interessare chi si affaccia oggi per la prima volta su questo blog.


CREDITS: Paolo Guzzanti/Rivoluzione Italiana

Il grande Facci sulla "questione RU486"

PILLOLA ABORTIVA/1 Qui sento puzza di manovra contro la 194

Nell'insieme, è pazzesco. La pillola Ru486 è stata inventata in Francia (dove è in uso da quasi 22 anni) e nel frattempo è entrata in uso in tutta l'Unione Europea (tranne in Polonia e Lituania, nostre evidenti nazioni di riferimento) e da una decina d'anni è in uso anche negli Stati Uniti. Il farmaco è stato oggetto di infinite sperimentazioni, tanto che anche l'Organizzazione mondiale della sanità, nel 2003, ne ha stabilito alcune linee guida. Dati e statistiche dicono questo: a dispetto di quanti temevano che il farmaco potesse comportare una sottovalutazione dell'aborto, e incrementarne perciò massicciamente il ricorso, gli aborti non sono aumentati e la pillola è stata adottata da una minoranza; l'unico dato significativo riguarda una tendenza a ricorrere all'interruzione di gravidanza in una fase gestazionale più precoce, con minori rischi di complicanze: l'Ru486 infatti può essere presa nelle prime settimane di gravidanza, mentre l'aborto per aspirazione è possibile solo dalla sesta settimana.

Poi c'è l’Italia, che per qualche ragione deve fare sempre storia a parte. Nel 2002, già in ritardo su tutti, una prima sperimentazione fu bloccata dal ministro della Salute Girolamo Sirchia. Nel 2005 una seconda sperimentazione a Torino sfociò in un'ispezione dal ministro Francesco Storace. Poi, siccome siamo capaci di bipolarizzare ogni cosa, la sperimentazione partì autonomamente ma solo in alcune regioni governate dal centrosinistra. E poi, perché quella non manca mai, la magistratura avviò indagini a Torino e a Milano per presunta violazione della Legge 194: ne seguì la sospensione della sperimentazione nel primo caso e un'archiviazione nel secondo. Sempre nel 2005 partì la prevedibile e legittima offensiva del Vaticano: il Papa disse che «la Ru486 nasconde la gravità dell'aborto» e il cardinale Ruini spiegò che «tende a non far percepire la natura reale dell'aborto». Il che fu recepito e trasformato nell’unico obiettivo che importa ai neo avversatori della pillola, distribuiti in maggioranza nel centrodestra: ossia che l’aborto resti una pratica il più possibile pubblica, ospedaliera e traumatica culturalmente e fisicamente. Nel giugno 2007, poi, l'uso della pillola veniva approvato e regolato pur tardivamente anche dall'Emea - l'agenzia europea per i medicinali -, il che non spingeva il governo italiano a registrare e utilizzare finalmente il farmaco ma, nel novembre 2007, a bloccare ulteriormente la procedura a cura del ministro Livia Turco: la quale richiese un parere del Consiglio superiore di sanità al fine di riscontrare il «pieno rispetto della legge 194». Ma non bastava ancora. Si procedeva infine ad autorizzare un'ulteriore sperimentazione a cura dell'Aifa, l'agenzia italiana del farmaco, che è l’organismo che ha tutti i requisiti tecnico-scientifici per valutare sicurezza e idoneità appunto dei medicinali. Il 30 luglio scorso, dopo anni di sperimentazione - dalla quale è risultato, paradossalmente, che l'aborto chirurgico è più rischioso di quello con la Ru486 - l'Aifa ha deliberato l'idoneità del farmaco purché sia utilizzato con ricovero ospedaliero.

Finita? No: si attendono per il prossimo autunno le «linee guida» del governo che farà di tutto, potete giurarci, per rendere difficile o punitivo l'utilizzo della pillola: se negli altri Paesi l'uso è privato e domiciliare, infatti, da noi prevederà come minimo un ricovero di tre giorni. Finita? Neppure: perché in questo quadro eccoti un incredibile Maurizio Gasparri che ha il coraggio - perché ce ne vuole - di proporre un'ulteriore inchiesta parlamentare: perché i tecnici dell'Aifa - ha detto - sono «privi di legittimazione democratica». Il che resta, lo dico con dispiacere sincero, la sciocchezza più incommentabile tra quelle pronunciate da anni sull'argomento: solo una discussione parlamentare sulle vicende di letto di Silvio Berlusconi avrebbe potuto far peggio.

Ora: avessero il coraggio di dire quello che pensano una volta per tutte, cioè che vogliono ridiscutere la Legge 194, abrogarla, limitarla, appunto sabotarla. E invece no. Fanno una cosa per ottenerne un’altra, ma la verità è trasparente come solo i numeri sanno essere: in Italia è in corso un'offensiva che mira a ridimensionare la legge 194 e a confondere le acque raccontando anche sonore bugie; abbiamo una legge che anno dopo anno sgretola il ricorso all'aborto (nel 1982 furono 233mila, oggi sono 120mila e in costante diminuzione) e che lo sgretolerebbe anche di più, se questa offensiva non impedisse che le categorie che abortiscono in maggioranza - le ignoranti e le immigrate - fossero raggiunte da un campagna sulla contraccezione come se ne fanno in tutti i Paesi del mondo dove non c'è il Vaticano. Questa campagna non mira a cancellare la legge 194 - perché non ci riuscirebbe - ma a ridimensionarla sollevando continui polveroni, invitando alla moltiplicazione di quei truffatori dello Stato che sono in stragrande maggioranza gli obiettori di coscienza, ipotizzando la presenza di militanti religiosi nei consultori, raccontandovi che siano in corso complotti ideologici per smontare la stessa 194: quando gli ideologici sono solo loro, e a voler smontare la 194 sono solo loro. Questa offensiva è condotta da una casta numericamente modestissima che frequenta gli snodi dell’informazione, è una lobby che auspica ipocriti «miglioramenti» a una legge che vorrebbero solo abbattere, vi raccontano e racconteranno un sacco di balle. I nomi sono noti. Non credete a quello che dicono. Pensate con la vostra testa e con una coscienza che è solamente vostra, non ha bisogno di ambasciatori in folgorazione pre-senile.

Filippo Facci


CREDITS: il Giornale

giovedì 6 agosto 2009

Perché, se aborto è omicidio, l’RU486 va vietata e la 194 “attuata”?

La "questione aborto" ciclicamente torna al centro del dibattito socio-politico. Non poteva certo fare eccezione l'arrivo della cosiddetta "pillola abortiva"...

Personalmente, partendo dal presupposto che cmq l'aborto è SEMPRE un trauma, sopratttutto emotivo, se c'è un modo per dare almeno meno sofferenza fisica a chi opti LIBERAMENTE per tale difficile scelta, ben venga. Chiaro: dev'essere certo ke la RU486 abbia questa funzione rispetto al "metodo tradizionale", e che il suo utilizzo sia ESCLUSIVAMENTE adibito all'ambito ospedaliero.

Ci manca solo qualche ragazzina velineggiante che, dopo essersela spassata, si accorga di aver fatto un "guaio" e abbia l'opportunità di "far da sè"...


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In merito alla decisione dell’Agenzia Italiana per i Farmaci di approvare l’immissione in commercio della RU486, monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Academia pro Vita ha affermato che dal punto di vista canonico l’assunzione di tale farmaco “è come un aborto chirurgico”.
Anche se la frase del religioso ha una chiara vocazione anti-abortista, per certi versi essa involontariamente fa segnare un punto, sulla questione del farmaco abortivo, proprio alla sponda “pro-choice”.
Se l’aborto farmacologico “è come un aborto chirurgico”, allora come si spiegano le polemiche aggiuntive e specifiche che sono state fatte in questi giorni sull’argomento da parte dei “pro-lifers”?

Evidentemente la vera questione morale è il diritto soggettivo all’interruzione della gravidanza, cioè se l’aborto debba essere considerato un omicidio – pertanto da rigettare da un punto di vista liberale – oppure se rappresenta una legittima scelta personale fondata sul diritto individuale alla proprietà del proprio corpo.
Nel momento in cui prevale – come nella legislazione del nostro paese – questa seconda opzione, le modalità con cui l’aborto viene implementato possono essere un legittimo argomento di dibattito medico, ma sono evidentemente irrilevanti dal punto di vista etico.

E tuttavia oggi i “pro-lifers” entrano in campo sulla questione dell’introduzione della RU486 senza nemmeno accorgersi che si stanno avventurando su un percorso per molti versi per loro sdrucciolevole.
Inevitabilmente, infatti, entrare nel merito dei metodi abortivi o addirittura della loro sicurezza dal punto di vista della madre sposta l’attenzione dalla questione del diritto all’aborto in quanto tale.

In realtà la ragione per cui il campo confessionale entra nel dibattito su una questione che teoricamente non dovrebbe interessarlo è che probabilmente è consapevole che affrontare il cuore della questione aborto sarebbe una strategia perdente.
Di conseguenza gli anti-abortisti compiono la scelta intellettualmente meno trasparente di combattere piccole battaglie secondarie, anche a costo di incorrere in non poche contraddizioni.

La questione etica, del resto, è chiara. L’omicidio è omicidio. E le parole hanno conseguenze. Se l’aborto è omicidio, le donne che abortiscono sono delle assassine. Devono essere arrestate e punite con il massimo della pena. Nessuna scusante è possibile. L’essere più o meno depresse non autorizza, infatti, ad uccidere il proprio bambino.
L’aborto andrebbe vietato sempre, anche nei casi di stupro, di incesto o nei casi in cui sia in pericolo la vita della madre. Se è omicidio, chiaramente, è omicidio sempre.
D’altronde se l’Italia non punisce, bensì avalla l’aborto al punto persino di effettuarlo nelle strutture pubbliche, allora è – come la Germania nazista – uno stato genocida, avendo soppresso dal 1978 ad oggi oltre cinque milioni di bambini.
Evidentemente si tratterebbe di un qualcosa di orrendamente grave e la posizione dei cattolici non potrebbe certo limitarsi ad un gioco di fioretto parlamentare, come se la posta in gioco fosse una qualsiasi delle questioni minori oggetto di dibattito politico.
Per un anti-abortista coerente nessun tipo di complicità sarebbe possibile con un simile paese criminale e non vi sarebbero reali alternative all’esilio a Dublino o alla clandestinità e alla lotta di liberazione.

E’ palese che la coerenza antiabortista avrebbe esiti talmente inaccettabili e inattuabili che relegherebbe i pro-lifers ad una posizione di totale marginalità ed ostracismo culturale, paragonabile a quella di qualche estremista rosso o nero.

Se la strategia “pro-life” non è esattamente questa, ma al contrario quella ben più soft di politici come Eugenia Roccella o Paola Binetti, le ragioni sono sostanzialmente due.
La prima è che verosimilmente i pro-lifers non sono affatto intimamente convinti che l’aborto sia omicidio – e quindi che negli ospedali italiani siano volontariamente sterminati ogni anno 150 mila bambini – ma più pragmaticamente derubricano essi stessi l’aborto ad una questione di minore rilevanza, una di quelle su cui si fanno ogni giorno battaglie politiche e parlamentari senza che sul loro esito si perda necessariamente il sonno.
La seconda è che a tutto aspirano i pro-lifers italiani meno che a interpretare una dissidenza di idealisti rivoluzionari in contrapposizione totale al sistema. Tanto è vero che pur definendo l’aborto un “omicidio”, difendono la legge 194 che lo ha giuridicamente “legalizzato”, anzi, chiedono addirittura di attuarla e di rispettarla, in particolare nelle disposizioni che, a loro dire, impedirebbero nel nostro paese l’utilizzo dell’RU486.
Insomma, i pro-lifers italiani non vogliono fare la rivoluzione, ma puntano più concretamente a far parte di una coalizione politico-culturale di successo e possibilmente di governo, pazientemente costruita raccogliendo tutti gli appoggi utili al caso, inclusi naturalmente quelli vaticani.
E’ chiaro che per questo scopo la battaglia contro l’aborto non occorre che sia vinta. E’ sufficiente che sia combattuta. Quello che serve è semplicemente dare alla CEI ed ad una porzione dell’elettorato il segnale di “essere sul pezzo”.
E’ il modo per presidiare un’area di consenso, per accreditarsi come referenti politici della Chiesa cattolica ottenendo da essa anche un’implicita legittimazione per la propria parte politica che potrà essere spesa anche in un’ottica più ampia.

I sostenitori della posizione “pro-choice” dovrebbero approfittare della sostanziale incoerenza della posizione anti-abortista per acquisire un vantaggio decisivo nel dibattito culturale sull’argomento.
Le discussioni sollecitate dai cattolici sull’opportunità o meno di utilizzare la RU486, sui suoi rischi per la salute della donna, sulle modalità di assistenza in vista dell’”espulsione” sono infatti perfettamente lecite, ma esse devono rappresentare l’implicito riconoscimento che l’aborto non è un omicidio e che solo per questa ragione è possibile un dibattito trasparente sugli strumenti
per attuarlo.
Se ci si pensa, persino politiche – sovente sostenute da parte cattolica – di aiuto economico alle donne che vorrebbero abortire sono possibili solamente a partire da una visione pragmatica del problema dell’aborto. Simili scelte hanno senso ad esempio qualora il focus sia la salute psicologica della donna oppure il sostegno al tasso di natalità, ma non sarebbero mai e poi mai
giustificabili sul piano filosofico se si partisse dal presupposto che l’aborto è omicidio.
Infatti in tal caso aiutare economicamente una donna che minacci di abortire equivarrebbe moralmente a dare soldi a chi punti la pistola ad un ostaggio minacciando di premere il grilletto.

E’ chiaro che solo il superamento delle ipocrisie concettuali che purtroppo pesano su questo delicato argomento potrà consentire lo sviluppo di una dialettica sana sugli aspetti medici, sociali e psicologici dell’interruzione della gravidanza che abbia l’obiettivo di definire – sulla base di principi di buon senso – le forme in cui essa può essere praticata nel nostro paese. In questo senso il contributo liberale al dibattito dovrà essere attento alla difesa della privacy e alla libera scelta nell’assunzione delle responsabilità parentali.

Auguriamoci che tali condizioni di agibilità si rivelino possibili, anche nell’attuale maggioranza di governo, oggi purtroppo schierata (almeno formalmente) “perinde ac cadaver” sulle posizioni confessionali.


Marco Faraci - Nato a Pisa, 34 anni, ingegnere elettronico, executive master in business administration. Professionista nel campo delle telecomunicazioni. Saggista ed opinionista liberista, ha collaborato con giornali e riviste e curato libri sul pensiero politico liberale


CREDITS: Libertiamo

martedì 4 agosto 2009

LE RADICI DEL LIBERALISMO - 1: LA NASCITA DEL LAISSEZ FAIRE.

Facciamoci tutti una cultura...liberale...

Diversamente da quanto accadeva all’infelice dottor Faust di Goethe nel cui petto albergavano “due anime in conflitto fra loro e che vogliono separarsi”, il liberalismo economico ha origine da due anime che si attraggono e tendono a congiungersi. Si tratta del movimento filosofico fondato sull’affermazione della libertà dell’individuo (o dell’individualismo tout court) che ha fatto seguito al tramonto dell’ideologia assolutistica in materia politica e religiosa avvenuto verso la fine del Seicento, e dalla nascita di poco successiva della dottrina economica che sottolineava i benefici della libertà di commercio (laissez faire o free trade), sostituendo progressivamente la dottrina del monopolio statale dei commerci, ovvero il “mercantilismo” o “Colbertismo” , dal nome del ministro delle finanze francese di Luigi XIV Jean-Baptiste Colbert (1619-1683) che ne fu il più famoso sostenitore.

Alla fine del diciassettesimo secolo la monarchia assoluta in Inghilterra venne rovesciata dal Parlamento (the Glorious Revolution) che dichiarò decaduto il Re Cattolico Giacomo II Stuart e offrì il trono alla figlia di religione protestante Maria e al marito, il principe William III d’Orange. Assieme alla fine dell’assolutismo politico, l’interpretazione altrettanto assolutistica del principio “cuius regio eius religio (ciascuno Stato è tenuto a praticare la religione del proprio sovrano)” cedette il passo al principio della tolleranza religiosa. Il principale ispiratore di queste trasformazioni epocali del pensiero filosofico e politico fu John Locke (1632-1704) le cui opere “Two Treaties on Government ” e “A Letter Concerning Toleration”, entrambi pubblicate nel 1689, possono essere considerate gli atti fondativi del liberalismo moderno. Tale rivoluzione proseguì con il venire meno della dottrina che vedeva nella volontà Divina l’origine delle norme della condotta morale, sostituita dall’utilitarismo e dalla dottrina della felicità individuale.

Gli orientamenti della nuova dottrina dell’individualismo del filosofo illuminista scozzese David Hume con le opere “An Enquiry Concerning the Human Understanding” e “An Enquiry Concerning the Principles of Morals” trovarono un terreno particolarmente fertile in Francia nell’eredità razionalista dell’epoca dei Lumi, al punto che lo stesso Hume fu considerato una guida persino dai celeberrimi Philosophes (Voltaire, Rousseau, Diderot); ma soprattutto lo trovarono nella borghesia mercantile che si andava affermando in tutto il Nord Europa, perché offrivano un fondamento etico e intellettuale ai diritti di proprietà e al valore della libertà individuale, ovvero ad almeno due principi fondativi dell’evoluzione sociale che si compirà nel corso del diciottesimo secolo. Il contributo filosofico di Hume fu dunque di primissimo piano per la crescita e la diffusione del laissez faire, come si vedrà in seguito, anche se una rilettura odierna delle sue opere, astratta dal contesto storico culturale in cui essi vennero concepite, porterebbe a considerare eccessiva la dottrina dell’edonismo individualistico, e forse persino a considerarla anticipatrice degli eccessi di avidità di cui si è macchiato il capitalismo finanziario del grande crash della finanza globale dei nostri giorni.

Tuttavia il liberalismo contemporaneo non è fatto soltanto di individualismo, perché esso include anche l’ampia rivalutazione degli aspetti sociali che fu condotta sul terreno religioso-teologico da William Paley (1743-1805) con l’opera “Natural Theology” del 1802, e soprattutto da Jeremy Bentham (1748-1832), il filosofo del diritto e padre dell’utilitarismo, autore dell’opera “Principles of Moral and Legislation(1789)”. Questo autore, nella storia dell’evoluzione del pensiero filosofico e politico anglo-sassone, ha un rilievo di primo piano perché rappresenta il compimento dell’elaborazione intellettuale del liberalismo moderno e contemporaneo, ma rappresenta anche il punto di avvio del socialismo non marxista tramite John Stuart Mill e in seguito Robert Owen (1771-1856) e la Fabian Society.

Si tratta comunque di ricordi che resterebbero confinati ai testi di Storia del pensiero filosofico e politico se l’evoluzione di questa corrente del pensiero occidentale non si fossa trovata a convergere con quella del pensiero economico. Il concetto di un’armonia naturale (o divina) fra l’interesse individuale e il bene pubblico era già evidente in Paley, ma fu il pensiero economico che ne fornì una base scientifica.

Fu infatti il principio che oggi qualifichiamo come laissez faire o free trade a stabilire la coerenza fra l’individualismo e il benessere sociale, e ciò prese forma compiuta nell’indimenticabile passaggio scritto nella “Ricchezza delle nazioni” dove si legge:

“…. and by directing that industry in such a manner as its produce may be of the greatest value, he intends only his own gain, and he (the economic agent NdR) is in this, as in many other cases, led by an invisible hand to promote an end which is no part of his intention” (Adam Smith, WN, Book IV, chap. 2).

In questo modo il principio della mano invisibile rendeva armonico l’individualismo di Hume con il concetto di bene comune, promettendo la realizzazione dell’ideale del “massimo beneficio per il massimo numero di individui” proposto dai filosofi illuministi come Helvétius, Galiani, Beccaria, Bentham, fino a Henry Sidgwick (1838-1900). Sul piano della dottrina politica ciò stava a significare che i filosofi e sacerdoti avrebbero dovuto cedere il passo agli uomini d’affari nella conduzione del governo e dello Stato, cioè alla nascente borghesia, perché dalle loro attività traeva origine la realizzazione del disegno del Bene comune. Tuttavia è non è il caso trascurare che lo straordinario successo delle idee professate dal liberalismo economico fu in grande misura reso possibile dalla corruzione e dall’inefficienza dei governi del Settecento, in Francia come in Inghilterra, come testimoniano le satire di Voltaire (Candide) e di Swift (Gulliver). Anche il suo recente ritorno alla fioritura è stato simmetrico al fallimento del comunismo sovietico, e all’inefficienza burocratica dell’apparato pubblico nelle economie miste, altrimenti definite “capitalismo bastardo (mongrel capitalism)” dai seguaci più estremi della “Chicago School” e di Milton Friedman.

Un sostegno determinante alla corrente filosofica del liberalismo delle origini venne anche dallo straordinario progresso materiale che si realizzò attraverso la (prima) rivoluzione industriale che ebbe inizio dalla metà del Settecento, proseguendo fino alla prima metà dell’Ottocento, che fu principalmente basato sull’iniziativa individuale e influenzato soltanto in misura minima dagli apparati governativi.

L’ultimo – in ordine di tempo – ingrediente del successo del singolare cocktail di idee rappresentato dal laissez faire è derivato dalla affermazione della teoria Darwiniana sull’evoluzione delle specie naturali. Essa, soprattutto nei Paesi di cultura anglo-sassone, rappresentò in un certo senso la prova scientifica delle teorie sulle virtù dell’evoluzione spontanea, e il definitivo affossamento delle concezioni arcaiche a sostegno dell’interventismo autoritario o del dirigismo. La dottrina scientifica che portava a vedere nei lineamenti stessi della figura umana non l’intervento della creazione Divina, ma soltanto il risultato di un processo casuale di cambiamento, adattamento e selezione, ebbe formidabili effetti di trascinamento anche sulla concezione filosofica dell’evoluzione sociale, che si vedeva orami sospinta principalmente dal meccanismo della concorrenza e della sopravvivenza, un processo di selezione e adattamento nei cui confronti l’intervento dello Stato avrebbe provocato soltanto ostacoli e deviazioni.

L’origine del modo di dire “laissez faire” è tradizionalmente associata al nome del mercante francese Le Gendre (1680 c.a.), che in risposta alla domanda che gli veniva rivolta dal ministro Colbert su che cosa si sarebbe potuto fare per essere d’aiuto alla sua attività, avrebbe risposto: “Laissez nous faire”. Tuttavia sul piano documentale questa frase risulta utilizzata con il significato moderno per la prima volta dal marchese d’Argenson (1694-1757)(1), un politico e uomo di Stato francese, amico di Rousseau e Voltaire, autore anche dalla massima: “pour gouverner mieux, il faudrait gouverner moin”; che ne fa a pieno diritto il capostipite della scuola di pensiero dello “Small Government”. Le ripetute invocazioni al “laisser faire” documentate nei manoscritti di d’Argenson ebbero una vasta eco nella Parigi del Secolo dei Lumi; in particolare Vincent de Gournay (1712-1759), economista della scuola fisiocratica francese con Du Pont de Nemour, Mirabeau (padre), Quesnay e Turgot, era entusiasta dell’aneddoto di Le Gendre e decise di arricchirlo, visto che ricopriva la carica di intendente generale di commercio, con un altro bon mot: “ laissez passer”.

Il termine, nella dizione in lingua francese, fece la sua comparsa in Gran Bretagna nel 1808 per opera del mercante londinese Charles Bosanquet , mentre la sua traduzione in “free trade” era già entrata a far parte della lingua e della cultura anglo-americane con George Whatley e Benjamin Franklin, co-autori del libro “Principles of trade (1774)”, un’ opera di notevole influenza nella formazione e nella diffusione del liberalismo economico.

Malgrado le abitudini di frequentazione fra l’americano “Padre della Patria” Benjamin Franklin che trascorse lunghi periodi in Gran Bretagna e Adam Smith (1723-1790), ovvero il primo e il più citato fra gli economisti moderni, l’espressione laissez faire o free trade non fu ripresa nell’opera “ Un’ Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776)” unanimemente giudicata la “bibbia” del liberalismo economico.

Smith fu amico ed estimatore di David Hume, e dal suo grande conterraneo scozzese trasse il concetto di individualismo come principale motivazione delle azioni umane, da cui la celebre frase contenuta nella “Ricchezza delle nazioni”:

“ Non è dalla benevolenza del fornaio, del birraio o del macellaio che ci aspettiamo di vedere risolto il problema della nostra cena…. (WN, Book I, Chap. 2)”.

(1) René de Voyer Marquis d’Argenson, Journal Oeconomique, 1751. In: Mémoires et Journal Inédit. Bibliothèque Elzévirienne, Paris 1857-8.

Tuttavia nel sistema Smithiano tale incontestabile impulso deve essere temperato dalla virtù morale (self control, benevolenza, giustizia, beneficienza) che è illustrata come “morale della simpatia” nell’altra opera maggiore di Smith: “Teoria dei Sentimenti morali (1759 e 1790)”.

In Smith – come si è detto - l’istinto naturale del comportamento egoistico è riconciliato con l’interesse comune dall’azione della mano invisibile, cioè dal meccanismo della concorrenza nel mercato, secondo un concetto di ordine naturale spontaneo, che in origine Smith potrebbe avere derivato dalle lezioni del suo maestro Francis Hutcheson (1648-1746), uno dei padri fondatori dello Scottish Enlightenment.

In quale scarsa considerazione Smith tenesse invece la “mano visibile” costituita dall’ interferenza del governo nelle attività economiche dei privati, il seguente passo della “Ricchezza delle nazioni” dà un’evidenza lampante:

“ dirigendo la propria attività (….) ciascuno nella propria specifica prospettiva può giudicare da sé molto meglio di quanto qualsiasi governante o legislatore possa fare al suo posto (….) Il governante che cercasse di indirizzare i privati sul modo in cui impiegare i propri capitali non soltanto si addosserebbe un compito non necessario, ma eserciterebbe un potere che non potrebbe essere mai tanto pericoloso come in quanto affidato nelle mani di un uomo talmente folle e presuntuoso da ritenersi capace di esercitarlo” (WN, Book IV, Chap.2”).”

Smith tuttavia traeva le sue conclusioni dalla osservazione empirica dei fatti e non dalla speculazione teorica. Per questo motivo giudicava l’interferenza della “mano pubblica” e in particolare i regolamenti del commercio “common pieces of dupery (volgari imbrogli)” perpetrati ai danni dei consumatori e a favore di qualche gruppo di produttori in grado di “catturare” la benevolenza del governo o dei funzionari. Tuttavia Smith per nessuna ragione può essere considerato un estremista del laissez faire – un free marketeer(2) come si direbbe oggi. I suoi commenti circa l’opportunità del Navigation Act o della regolamentazione del mercato del lavoro a sostegno dei lavoratori più deboli costituiscono esempi eloquenti del pragmatismo Smithiano.

Dedicando ampio spazio alla descrizione delle disparità contrattuali nella formazione dei salari, Smith coglieva esattamente il punto debole del laissez faire; ovvero la tendenza ad accentuare le diseguaglianze, lasciando indifesa la parte

(2) L’uso di questo termine viene dall’inglese “black marketeer” che significa operatore del mercato nero, ovvero illegale, clandestino; e ha pertanto un significato spezzante, simile all’italiano: “magliaro”.

contrattualmente più debole. Questa circostanza, assieme a quella di avere definito il lavoro – e soltanto il lavoro – come fonte originaria della produzione della ricchezza, gli valsero nientemeno che il sospetto di essere un sovversivo, sospetto che, solo dopo la sua morte (1790), la saggia ricostruzione rievocativa dell’opera di Smith effettuata dall’allievo Dugald Stuart nel gennaio 1793 riuscì a dissolvere anche agli occhi degli ambienti britannici più conservatori. Comunque in tutta l’opera di Smith, che viene così spesso considerato il “padre” del laissez faire, questa particolare espressione non compare neppure una volta soltanto.

L’opera del grande economista-filosofo deve quindi più propriamente essere ricordata come la prima descrizione scientifico-conoscitiva dei meccanismi dell’economia di mercato, e, sul piano propositivo, come la prima – e forse tutt’ora la più brillante – perorazione a sostegno di un modello di organizzazione economica decentrata, in contrapposizione all’organizzazione centralizzata o “di comando”.

Ai fini della ricostruzione delle origini del laissez faire è di notevole importanza il sottolineare che esso non coincide esattamente con il sistema di economia decentrata – sottoposto alla disciplina efficientistica esercitata dalla selezione del mercato – descritto e teorizzato da Smith. Il sistema Smithiano dell’economia di mercato è il modello che consente di massimizzare l’uso efficiente di risorse scarse; ma non è di per sé un modello virtuoso, nel senso che i requisiti morali non sono prodotti dall’organizzazione economica, sebbene la loro presenza rappresenti un requisito necessario per la funzionalità del mercato. La qualità del pane, della birra o della carne, prodotta rispettivamente dal fornaio dal birraio e dal macellaio non è affidata soltanto al calcolo egoistico del loro interesse (self-love), ma anche a qualche considerazione etica su ciò che deve essere offerto al pubblico mercato. Una considerazione che deve essere sfuggita a Bernard Madoff.

Tenere a mente questa distinzione è indispensabile per comprendere i successivi sviluppi del laissez faire come ideologia.

Infatti a partire dall’inizio dell’Ottocento nei Paesi di lingua e di cultura anglo-sassone il cocktail del laissez faire ha assunto connotazioni valoriali, ovvero etiche, che sono rimaste in larga misura sconosciute nei Paesi dell’ Europa continentale, per non dire delle altre civilizzazioni. Tale radicamento profondo, come si è visto, non è opera di Smith o degli altri grandi economisti classici (Malthus, Ricardo, Stuart Mill), ma piuttosto di filosofi come Bentham o di politici come Richard Cobden (1804-1865) sotto il profilo strettamente culturale, mentre una menzione speciale meritano i libri di Jane Marcet (3), una amabile signora londinese di origine svizzera.

Si tratta di una collana di libri di divulgazione scientifica su vari argomenti (Chimica, Filosofia naturale, Economia politica, etc.) pubblicati nei primi decenni dell’Ottocento e rivolti agli educatori - insegnanti, genitori - che ebbero una straordinaria diffusione e successo, tale da forgiare il modo comune di pensare di diverse generazioni. Nelle “Conversazioni sull’Economia Politica”, che si basano sui testi di Smith, Say, Malthus e Ricardo (che l’autrice conosceva personalmente), il laissez faire è presentato come una filosofia edificante in grado di realizzare “sentimenti di universale benevolenza reciproca” e dove l’intervento del governo è in grado “di fare più male che bene”. La miscela fra questa pedagogia e l’individualismo tipico della cultura anglo-sassone avrebbe trasformato una semplice prescrizione di politica economica in un articolo di fede che porta a condannare qualunque interferenza dello Stato nella vita dei privati cittadini, con l’eccezione di quanto è necessario ad assicurare la legge e l’ordine. Di qui il concetto di laissez faire come fenomeno etico-politico, nel quale la “virtù” è endogena al sistema e non più esogena come era concepito da Smith.

Queste concezioni dell’etica e dell’economia ebbero nel francese Frédéric Bastiat (1801-1850) un promulgatore di grande originalità al punto da essere considerato un caposcuola da parte di due fra i maggiori sostenitori del laissez faire filosofico ed economico del Novecento: Karl Popper (1902-1994) e Friedrich von Hayek ( 1899-1992); e nell’italiano Antonio Rosmini (1797- 1855) un caposcuola del cattolicesimo liberale.

L’apice delle fortune del laissez faire fu raggiunto in occasione delle veementi polemiche che accompagnarono l’introduzione in Gran Bretagna di norme protezionistiche sul commercio delle granaglie fra il 1815 e il 1846. Si trattò di uno scontro epocale che coinvolse quasi tutti gli aspetti della società britannica: dalla scontro fra l’aristocrazia terriera con il ceto degli industriali, alla questione irlandese; la destra protezionista contro la sinistra libero-scambista; Conservatori e Tory contro Whig e Liberali; e via di questo passo; il tutto con un effetto polemico paragonabile solo alle divisioni prodotte in Francia dall’affaire Dreyfus; emozioni di cui forse oggi

(3) Jane Marcet, Conversations on Political Economy (in which the Elements of this Science are familiary explained). Longman & Others, London 1817.


il ricordo è svanito, ma che ci hanno lasciato in eredità il settimanale “The Economist” fondato nel 1843, e da allora alfiere indiscusso del liberalismo economico.

Oltre a James Wilson, fondatore di “The Economist” e suocero dello storico direttore Walter Bagehot, la polemica sul prezzo del grano portò in evidenza l’economista David Ricardo (1772-1823). La sua tesi era che i dazi doganali su un bene di prima necessità avrebbero mantenuto artificiosamente alti i salari, restringendo parallelamente i profitti sul capitale e conseguentemente lo sviluppo industriale (4); mentre la tesi contraria sosteneva che in assenza di tariffe protezionistiche l’ agricoltura britannica non sarebbe stata competitiva, e ciò – oltre a ridurre le rendite dei proprietari - avrebbe condotto allo spopolamento delle campagne.

Queste lontane polemiche sono alla base di una singolare asimmetria che si è manifestata per un lungo periodo – almeno fino alla metà del Novecento - fra gli orientamenti nei confronti del laissez faire della Destra e della Sinistra nei Paesi anglo-sassoni rispetto alle tradizionali convenzioni conservatrici e riformiste nei Paesi dell’ Europa continentale. Mentre nei Paesi anglo-sassoni la Sinistra è stata tradizionalmente favorevole al free trade (Liberali e Laburisti in gran Bretagna; Democratici in America) in considerazione degli effetti positivi che ne deriverebbero dal punto di vista del potere d’acquisto dei salari delle classi lavoratrici, e la Destra (Tories in Gran Bretagna, Repubblicani in America) tradizionalmente favorevole al protezionismo in ragione dei benefici che ne deriverebbero per coloro che traggono il loro sostentamento da rendite, negli schemi ideologici dell’Europa continentale questa distinzione è stata molto meno netta, e l’ordine delle preferenze è risultato casomai il contrario, perché nel protezionismo si scorgeva uno strumento di tutela per l’occupazione e il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti, e nel laissez faire una condizione favorevole al profitto del capitale.

Comunque, riprendendo il filo della ricostruzione delle vicende che portarono all’affermazione del laissez faire, è opportuno rammentare che l’industrializzazione dei Paesi del Nord Europa rappresentò indubbiamente un successo clamoroso di


(4) Il saggio che diede notorietà a David Ricardo è del 1815, e il titolo completo è: “Essay on the Influence of a Low Price of Corn on the Profit of the Stock”.


questa dottrina, perché lo sviluppo industriale si realizzò in presenza di sistemi la cui stabilità era assicurata dall’utilizzo dell’oro (o dell’argento) come strumento monetario, nella piena libertà dei commerci – limitata soltanto dai costi e dalle difficoltà dei trasporti - e dalla non interferenza dell’autorità politica dei governi con le forze “spontanee” dell’economia.

Malgrado le profonde radici nella filosofia politica e morale, e malgrado il fascino esercitato dalla loro semplicità e naturalezza, l’individualismo e il laissez faire non avrebbero potuto esercitare una così duratura influenza sui sistemi politici, sociali ed economici dell’Occidente se non si fossero trovati in perfetta sintonia con un forte elemento dinamico, ovvero con le esigenze e i desideri dello spirito imprenditoriale che ha rappresentato la più decisiva componente innovativa del capitalismo. La “teoria dell’imprenditorialità” di Joseph Schumpeter (1883-1950) offre una convincente razionalizzazione della simbiosi fra lo spirito pionieristico degli imprenditori e il sistema del laissez faire.

Nel caso degli Stati Uniti, infine, nello sviluppo del laissez faire è dato cogliere un aspetto molto peculiare che afferisce la manifestazione della sensibilità religiosa. Osservava infatti già verso il 1830 il più acuto osservatore delle specificità della cultura americana Alexis deToqueville: “In Francia ho quasi sempre visto lo spirito religioso e lo spirito della libertà marciare in direzioni opposte; ma in America ho osservato che essi sono intimamente uniti, e regnano in armonia sopra il medesimo Paese (5)”.


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Nel lungo arco di tempo durato centosessanta anni (1776-1936) che è trascorso fra colui che è considerato – in modo non del tutto giustificato, come si è visto - il primo teorico del laissez faire, ovvero Adam Smith, e colui che è stato il padre della concezione riformatrice del sistema capitalistico, ovvero J.Maynard Keynes, il laissez faire ha rappresentato un modello prevalentemente empirico e non una teoria. Infatti per la corrente di pensiero economico in voga nella prima metà dell’Ottocento che oggi definiamo “economia classica”, e che coincide con l’espressione del pensiero

(5)Alexis de Tocqueville, citato in John Micklethwait, Adrian Wooldridge “ God is back”. Penguin Press, New York 2009, p.71.


franco-britannico del primo secolo dell’industrializzazione (cioè fino al 1860 circa), il laissez faire non esprimeva una teoria dell’economia in senso compiuto, ma soltanto un insieme di regole empiriche corredato da alcuni modelli parziali, ovvero una semplificazione utilizzabile per fornire i primi rudimenti della scienza economica (Marcet docet), o per interagire con altri campi disciplinari.

Il tentativo di trasformare la visione semplificatrice del laissez faire in una formulazione teorica compiuta è invece dovuto ai teorici del Centro-Nord Europa (prevalentemente sudditi dell’ Impero austro-ungarico) che – a partire da Carl Menger (1840-1921), Eugene Böhm-Bawerk (1851-1914) e dallo svedese Knut Wicksell (1851- 1926) - si sforzarono di costruire, partendo dall’esperienza sensoriale del marginalismo, modelli teorici coerenti delle leggi economiche ricorrendo a formulazioni matematiche sempre più sofisticate, in parallelo alla cosiddetta “scuola neo-classica” di Léon Walras e Vilfredo Pareto.

Il risultato deludente di tanti sforzi era già ben rappresentato in corso d’opera (cioè nel 1936) da John Maynard Keynes nella sua introduzione alla “Teoria Generale”:

“Sosterrò che i postulati della teoria (neo)classica sono applicabili soltanto a un caso particolare e non alla generalità, e che le condizioni di equilibrio che vi sono descritte rappresentano un caso limite; il quale non ha nulla a che fare con le caratteristiche economiche della società in cui viviamo (“The General Theory of Employment, Interest and Money”. Book I, Chap. 1, p.3).”

Quando Keynes scrisse queste parole si era nel bel mezzo della Grande Depressione, e la questione non poteva essere liquidata solo come una querelle fra scuole economiche opposte; come oggi – nel bel mezzo del grande crash della finanza globale – la questione del fallimento della teoria e della politica neo-conservatrice ( o friedmanite) non può essere liquidata attribuendone le colpe soltanto agli yuppies e agli avidi banchieri di Wall Street.

La crisi del laissez faire a partire dagli anni Trenta del secolo scorso non fu dovuta a carenze di tipo logico-matematico della teoria, né al fallimento – che oggi possiamo definire clamoroso alla luce dei disastri prodotti dalla dottrina della autoregolamentazione dei mercati – del tentativo di “catturare” con modelli matematici sempre più sofisticati l’imprevedibilità dei processi di evoluzione spontanea di per sé imprevedibili, come è imprevedibile la nascita di un cigno nero.

L’eclisse del laissez faire fu piuttosto dovuta alla inadeguatezza della dottrina a risolvere tre ordini di problemi che andavano aggravandosi mano a mano che lo sviluppo capitalistico progrediva, ovvero: a) la crescente proletarizzazione delle masse urbane; b) l’esigenza di grandi lavori pubblici per infrastrutture; c) la caratteristica instabilità del sistema capitalistico.

In assenza di una profonda riforma nella sua concezione il laissez faire della prima metà del Novecento non avrebbe potuto reggere la concorrenza con filosofie sociali, politiche ed economiche alternative: il nazionalismo autoritario a sfondo protezionista, da un lato; la pianificazione centralizzata di modello sovietico, dall’altro.

La risposta venne dal New Deal di Roosevelt e dal liberalismo sociale di Keynes e Beveridge. Ma questo fa parte di un altro capitolo della storia del laissez faire.

Carlo Scognamiglio Pasini

Credits: PLI Official Website