Facciamoci tutti una cultura...liberale...Diversamente da quanto accadeva all’infelice dottor Faust di Goethe nel cui petto albergavano “due anime in conflitto fra loro e che vogliono separarsi”, il liberalismo economico ha origine da due anime che si attraggono e tendono a congiungersi. Si tratta del movimento filosofico fondato sull’affermazione della libertà dell’individuo (o dell’individualismo tout court) che ha fatto seguito al tramonto dell’ideologia assolutistica in materia politica e religiosa avvenuto verso la fine del Seicento, e dalla nascita di poco successiva della dottrina economica che sottolineava i benefici della libertà di commercio (laissez faire o free trade), sostituendo progressivamente la dottrina del monopolio statale dei commerci, ovvero il “mercantilismo” o “Colbertismo” , dal nome del ministro delle finanze francese di Luigi XIV Jean-Baptiste Colbert (1619-1683) che ne fu il più famoso sostenitore.
Alla fine del diciassettesimo secolo la monarchia assoluta in Inghilterra venne rovesciata dal Parlamento (the Glorious Revolution) che dichiarò decaduto il Re Cattolico Giacomo II Stuart e offrì il trono alla figlia di religione protestante Maria e al marito, il principe William III d’Orange. Assieme alla fine dell’assolutismo politico, l’interpretazione altrettanto assolutistica del principio “cuius regio eius religio (ciascuno Stato è tenuto a praticare la religione del proprio sovrano)” cedette il passo al principio della tolleranza religiosa. Il principale ispiratore di queste trasformazioni epocali del pensiero filosofico e politico fu John Locke (1632-1704) le cui opere “Two Treaties on Government ” e “A Letter Concerning Toleration”, entrambi pubblicate nel 1689, possono essere considerate gli atti fondativi del liberalismo moderno. Tale rivoluzione proseguì con il venire meno della dottrina che vedeva nella volontà Divina l’origine delle norme della condotta morale, sostituita dall’utilitarismo e dalla dottrina della felicità individuale.
Gli orientamenti della nuova dottrina dell’individualismo del filosofo illuminista scozzese David Hume con le opere “An Enquiry Concerning the Human Understanding” e “An Enquiry Concerning the Principles of Morals” trovarono un terreno particolarmente fertile in Francia nell’eredità razionalista dell’epoca dei Lumi, al punto che lo stesso Hume fu considerato una guida persino dai celeberrimi Philosophes (Voltaire, Rousseau, Diderot); ma soprattutto lo trovarono nella borghesia mercantile che si andava affermando in tutto il Nord Europa, perché offrivano un fondamento etico e intellettuale ai diritti di proprietà e al valore della libertà individuale, ovvero ad almeno due principi fondativi dell’evoluzione sociale che si compirà nel corso del diciottesimo secolo. Il contributo filosofico di Hume fu dunque di primissimo piano per la crescita e la diffusione del laissez faire, come si vedrà in seguito, anche se una rilettura odierna delle sue opere, astratta dal contesto storico culturale in cui essi vennero concepite, porterebbe a considerare eccessiva la dottrina dell’edonismo individualistico, e forse persino a considerarla anticipatrice degli eccessi di avidità di cui si è macchiato il capitalismo finanziario del grande crash della finanza globale dei nostri giorni.
Tuttavia il liberalismo contemporaneo non è fatto soltanto di individualismo, perché esso include anche l’ampia rivalutazione degli aspetti sociali che fu condotta sul terreno religioso-teologico da William Paley (1743-1805) con l’opera “Natural Theology” del 1802, e soprattutto da Jeremy Bentham (1748-1832), il filosofo del diritto e padre dell’utilitarismo, autore dell’opera “Principles of Moral and Legislation(1789)”. Questo autore, nella storia dell’evoluzione del pensiero filosofico e politico anglo-sassone, ha un rilievo di primo piano perché rappresenta il compimento dell’elaborazione intellettuale del liberalismo moderno e contemporaneo, ma rappresenta anche il punto di avvio del socialismo non marxista tramite John Stuart Mill e in seguito Robert Owen (1771-1856) e la Fabian Society.
Si tratta comunque di ricordi che resterebbero confinati ai testi di Storia del pensiero filosofico e politico se l’evoluzione di questa corrente del pensiero occidentale non si fossa trovata a convergere con quella del pensiero economico. Il concetto di un’armonia naturale (o divina) fra l’interesse individuale e il bene pubblico era già evidente in Paley, ma fu il pensiero economico che ne fornì una base scientifica.
Fu infatti il principio che oggi qualifichiamo come laissez faire o free trade a stabilire la coerenza fra l’individualismo e il benessere sociale, e ciò prese forma compiuta nell’indimenticabile passaggio scritto nella “Ricchezza delle nazioni” dove si legge:
“…. and by directing that industry in such a manner as its produce may be of the greatest value, he intends only his own gain, and he (the economic agent NdR) is in this, as in many other cases, led by an invisible hand to promote an end which is no part of his intention” (Adam Smith, WN, Book IV, chap. 2).
In questo modo il principio della mano invisibile rendeva armonico l’individualismo di Hume con il concetto di bene comune, promettendo la realizzazione dell’ideale del “massimo beneficio per il massimo numero di individui” proposto dai filosofi illuministi come Helvétius, Galiani, Beccaria, Bentham, fino a Henry Sidgwick (1838-1900). Sul piano della dottrina politica ciò stava a significare che i filosofi e sacerdoti avrebbero dovuto cedere il passo agli uomini d’affari nella conduzione del governo e dello Stato, cioè alla nascente borghesia, perché dalle loro attività traeva origine la realizzazione del disegno del Bene comune. Tuttavia è non è il caso trascurare che lo straordinario successo delle idee professate dal liberalismo economico fu in grande misura reso possibile dalla corruzione e dall’inefficienza dei governi del Settecento, in Francia come in Inghilterra, come testimoniano le satire di Voltaire (Candide) e di Swift (Gulliver). Anche il suo recente ritorno alla fioritura è stato simmetrico al fallimento del comunismo sovietico, e all’inefficienza burocratica dell’apparato pubblico nelle economie miste, altrimenti definite “capitalismo bastardo (mongrel capitalism)” dai seguaci più estremi della “Chicago School” e di Milton Friedman.
Un sostegno determinante alla corrente filosofica del liberalismo delle origini venne anche dallo straordinario progresso materiale che si realizzò attraverso la (prima) rivoluzione industriale che ebbe inizio dalla metà del Settecento, proseguendo fino alla prima metà dell’Ottocento, che fu principalmente basato sull’iniziativa individuale e influenzato soltanto in misura minima dagli apparati governativi.
L’ultimo – in ordine di tempo – ingrediente del successo del singolare cocktail di idee rappresentato dal laissez faire è derivato dalla affermazione della teoria Darwiniana sull’evoluzione delle specie naturali. Essa, soprattutto nei Paesi di cultura anglo-sassone, rappresentò in un certo senso la prova scientifica delle teorie sulle virtù dell’evoluzione spontanea, e il definitivo affossamento delle concezioni arcaiche a sostegno dell’interventismo autoritario o del dirigismo. La dottrina scientifica che portava a vedere nei lineamenti stessi della figura umana non l’intervento della creazione Divina, ma soltanto il risultato di un processo casuale di cambiamento, adattamento e selezione, ebbe formidabili effetti di trascinamento anche sulla concezione filosofica dell’evoluzione sociale, che si vedeva orami sospinta principalmente dal meccanismo della concorrenza e della sopravvivenza, un processo di selezione e adattamento nei cui confronti l’intervento dello Stato avrebbe provocato soltanto ostacoli e deviazioni.
L’origine del modo di dire “laissez faire” è tradizionalmente associata al nome del mercante francese Le Gendre (1680 c.a.), che in risposta alla domanda che gli veniva rivolta dal ministro Colbert su che cosa si sarebbe potuto fare per essere d’aiuto alla sua attività, avrebbe risposto: “Laissez nous faire”. Tuttavia sul piano documentale questa frase risulta utilizzata con il significato moderno per la prima volta dal marchese d’Argenson (1694-1757)(1), un politico e uomo di Stato francese, amico di Rousseau e Voltaire, autore anche dalla massima: “pour gouverner mieux, il faudrait gouverner moin”; che ne fa a pieno diritto il capostipite della scuola di pensiero dello “Small Government”. Le ripetute invocazioni al “laisser faire” documentate nei manoscritti di d’Argenson ebbero una vasta eco nella Parigi del Secolo dei Lumi; in particolare Vincent de Gournay (1712-1759), economista della scuola fisiocratica francese con Du Pont de Nemour, Mirabeau (padre), Quesnay e Turgot, era entusiasta dell’aneddoto di Le Gendre e decise di arricchirlo, visto che ricopriva la carica di intendente generale di commercio, con un altro bon mot: “ laissez passer”.
Il termine, nella dizione in lingua francese, fece la sua comparsa in Gran Bretagna nel 1808 per opera del mercante londinese Charles Bosanquet , mentre la sua traduzione in “free trade” era già entrata a far parte della lingua e della cultura anglo-americane con George Whatley e Benjamin Franklin, co-autori del libro “Principles of trade (1774)”, un’ opera di notevole influenza nella formazione e nella diffusione del liberalismo economico.
Malgrado le abitudini di frequentazione fra l’americano “Padre della Patria” Benjamin Franklin che trascorse lunghi periodi in Gran Bretagna e Adam Smith (1723-1790), ovvero il primo e il più citato fra gli economisti moderni, l’espressione laissez faire o free trade non fu ripresa nell’opera “ Un’ Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776)” unanimemente giudicata la “bibbia” del liberalismo economico.
Smith fu amico ed estimatore di David Hume, e dal suo grande conterraneo scozzese trasse il concetto di individualismo come principale motivazione delle azioni umane, da cui la celebre frase contenuta nella “Ricchezza delle nazioni”:
“ Non è dalla benevolenza del fornaio, del birraio o del macellaio che ci aspettiamo di vedere risolto il problema della nostra cena…. (WN, Book I, Chap. 2)”.
(1) René de Voyer Marquis d’Argenson, Journal Oeconomique, 1751. In: Mémoires et Journal Inédit. Bibliothèque Elzévirienne, Paris 1857-8.
Tuttavia nel sistema Smithiano tale incontestabile impulso deve essere temperato dalla virtù morale (self control, benevolenza, giustizia, beneficienza) che è illustrata come “morale della simpatia” nell’altra opera maggiore di Smith: “Teoria dei Sentimenti morali (1759 e 1790)”.
In Smith – come si è detto - l’istinto naturale del comportamento egoistico è riconciliato con l’interesse comune dall’azione della mano invisibile, cioè dal meccanismo della concorrenza nel mercato, secondo un concetto di ordine naturale spontaneo, che in origine Smith potrebbe avere derivato dalle lezioni del suo maestro Francis Hutcheson (1648-1746), uno dei padri fondatori dello Scottish Enlightenment.
In quale scarsa considerazione Smith tenesse invece la “mano visibile” costituita dall’ interferenza del governo nelle attività economiche dei privati, il seguente passo della “Ricchezza delle nazioni” dà un’evidenza lampante:
“ dirigendo la propria attività (….) ciascuno nella propria specifica prospettiva può giudicare da sé molto meglio di quanto qualsiasi governante o legislatore possa fare al suo posto (….) Il governante che cercasse di indirizzare i privati sul modo in cui impiegare i propri capitali non soltanto si addosserebbe un compito non necessario, ma eserciterebbe un potere che non potrebbe essere mai tanto pericoloso come in quanto affidato nelle mani di un uomo talmente folle e presuntuoso da ritenersi capace di esercitarlo” (WN, Book IV, Chap.2”).”
Smith tuttavia traeva le sue conclusioni dalla osservazione empirica dei fatti e non dalla speculazione teorica. Per questo motivo giudicava l’interferenza della “mano pubblica” e in particolare i regolamenti del commercio “common pieces of dupery (volgari imbrogli)” perpetrati ai danni dei consumatori e a favore di qualche gruppo di produttori in grado di “catturare” la benevolenza del governo o dei funzionari. Tuttavia Smith per nessuna ragione può essere considerato un estremista del laissez faire – un free marketeer(2) come si direbbe oggi. I suoi commenti circa l’opportunità del Navigation Act o della regolamentazione del mercato del lavoro a sostegno dei lavoratori più deboli costituiscono esempi eloquenti del pragmatismo Smithiano.
Dedicando ampio spazio alla descrizione delle disparità contrattuali nella formazione dei salari, Smith coglieva esattamente il punto debole del laissez faire; ovvero la tendenza ad accentuare le diseguaglianze, lasciando indifesa la parte
(2) L’uso di questo termine viene dall’inglese “black marketeer” che significa operatore del mercato nero, ovvero illegale, clandestino; e ha pertanto un significato spezzante, simile all’italiano: “magliaro”.
contrattualmente più debole. Questa circostanza, assieme a quella di avere definito il lavoro – e soltanto il lavoro – come fonte originaria della produzione della ricchezza, gli valsero nientemeno che il sospetto di essere un sovversivo, sospetto che, solo dopo la sua morte (1790), la saggia ricostruzione rievocativa dell’opera di Smith effettuata dall’allievo Dugald Stuart nel gennaio 1793 riuscì a dissolvere anche agli occhi degli ambienti britannici più conservatori. Comunque in tutta l’opera di Smith, che viene così spesso considerato il “padre” del laissez faire, questa particolare espressione non compare neppure una volta soltanto.
L’opera del grande economista-filosofo deve quindi più propriamente essere ricordata come la prima descrizione scientifico-conoscitiva dei meccanismi dell’economia di mercato, e, sul piano propositivo, come la prima – e forse tutt’ora la più brillante – perorazione a sostegno di un modello di organizzazione economica decentrata, in contrapposizione all’organizzazione centralizzata o “di comando”.
Ai fini della ricostruzione delle origini del laissez faire è di notevole importanza il sottolineare che esso non coincide esattamente con il sistema di economia decentrata – sottoposto alla disciplina efficientistica esercitata dalla selezione del mercato – descritto e teorizzato da Smith. Il sistema Smithiano dell’economia di mercato è il modello che consente di massimizzare l’uso efficiente di risorse scarse; ma non è di per sé un modello virtuoso, nel senso che i requisiti morali non sono prodotti dall’organizzazione economica, sebbene la loro presenza rappresenti un requisito necessario per la funzionalità del mercato. La qualità del pane, della birra o della carne, prodotta rispettivamente dal fornaio dal birraio e dal macellaio non è affidata soltanto al calcolo egoistico del loro interesse (self-love), ma anche a qualche considerazione etica su ciò che deve essere offerto al pubblico mercato. Una considerazione che deve essere sfuggita a Bernard Madoff.
Tenere a mente questa distinzione è indispensabile per comprendere i successivi sviluppi del laissez faire come ideologia.
Infatti a partire dall’inizio dell’Ottocento nei Paesi di lingua e di cultura anglo-sassone il cocktail del laissez faire ha assunto connotazioni valoriali, ovvero etiche, che sono rimaste in larga misura sconosciute nei Paesi dell’ Europa continentale, per non dire delle altre civilizzazioni. Tale radicamento profondo, come si è visto, non è opera di Smith o degli altri grandi economisti classici (Malthus, Ricardo, Stuart Mill), ma piuttosto di filosofi come Bentham o di politici come Richard Cobden (1804-1865) sotto il profilo strettamente culturale, mentre una menzione speciale meritano i libri di Jane Marcet (3), una amabile signora londinese di origine svizzera.
Si tratta di una collana di libri di divulgazione scientifica su vari argomenti (Chimica, Filosofia naturale, Economia politica, etc.) pubblicati nei primi decenni dell’Ottocento e rivolti agli educatori - insegnanti, genitori - che ebbero una straordinaria diffusione e successo, tale da forgiare il modo comune di pensare di diverse generazioni. Nelle “Conversazioni sull’Economia Politica”, che si basano sui testi di Smith, Say, Malthus e Ricardo (che l’autrice conosceva personalmente), il laissez faire è presentato come una filosofia edificante in grado di realizzare “sentimenti di universale benevolenza reciproca” e dove l’intervento del governo è in grado “di fare più male che bene”. La miscela fra questa pedagogia e l’individualismo tipico della cultura anglo-sassone avrebbe trasformato una semplice prescrizione di politica economica in un articolo di fede che porta a condannare qualunque interferenza dello Stato nella vita dei privati cittadini, con l’eccezione di quanto è necessario ad assicurare la legge e l’ordine. Di qui il concetto di laissez faire come fenomeno etico-politico, nel quale la “virtù” è endogena al sistema e non più esogena come era concepito da Smith.
Queste concezioni dell’etica e dell’economia ebbero nel francese Frédéric Bastiat (1801-1850) un promulgatore di grande originalità al punto da essere considerato un caposcuola da parte di due fra i maggiori sostenitori del laissez faire filosofico ed economico del Novecento: Karl Popper (1902-1994) e Friedrich von Hayek ( 1899-1992); e nell’italiano Antonio Rosmini (1797- 1855) un caposcuola del cattolicesimo liberale.
L’apice delle fortune del laissez faire fu raggiunto in occasione delle veementi polemiche che accompagnarono l’introduzione in Gran Bretagna di norme protezionistiche sul commercio delle granaglie fra il 1815 e il 1846. Si trattò di uno scontro epocale che coinvolse quasi tutti gli aspetti della società britannica: dalla scontro fra l’aristocrazia terriera con il ceto degli industriali, alla questione irlandese; la destra protezionista contro la sinistra libero-scambista; Conservatori e Tory contro Whig e Liberali; e via di questo passo; il tutto con un effetto polemico paragonabile solo alle divisioni prodotte in Francia dall’affaire Dreyfus; emozioni di cui forse oggi
(3) Jane Marcet, Conversations on Political Economy (in which the Elements of this Science are familiary explained). Longman & Others, London 1817.
il ricordo è svanito, ma che ci hanno lasciato in eredità il settimanale “The Economist” fondato nel 1843, e da allora alfiere indiscusso del liberalismo economico.
Oltre a James Wilson, fondatore di “The Economist” e suocero dello storico direttore Walter Bagehot, la polemica sul prezzo del grano portò in evidenza l’economista David Ricardo (1772-1823). La sua tesi era che i dazi doganali su un bene di prima necessità avrebbero mantenuto artificiosamente alti i salari, restringendo parallelamente i profitti sul capitale e conseguentemente lo sviluppo industriale (4); mentre la tesi contraria sosteneva che in assenza di tariffe protezionistiche l’ agricoltura britannica non sarebbe stata competitiva, e ciò – oltre a ridurre le rendite dei proprietari - avrebbe condotto allo spopolamento delle campagne.
Queste lontane polemiche sono alla base di una singolare asimmetria che si è manifestata per un lungo periodo – almeno fino alla metà del Novecento - fra gli orientamenti nei confronti del laissez faire della Destra e della Sinistra nei Paesi anglo-sassoni rispetto alle tradizionali convenzioni conservatrici e riformiste nei Paesi dell’ Europa continentale. Mentre nei Paesi anglo-sassoni la Sinistra è stata tradizionalmente favorevole al free trade (Liberali e Laburisti in gran Bretagna; Democratici in America) in considerazione degli effetti positivi che ne deriverebbero dal punto di vista del potere d’acquisto dei salari delle classi lavoratrici, e la Destra (Tories in Gran Bretagna, Repubblicani in America) tradizionalmente favorevole al protezionismo in ragione dei benefici che ne deriverebbero per coloro che traggono il loro sostentamento da rendite, negli schemi ideologici dell’Europa continentale questa distinzione è stata molto meno netta, e l’ordine delle preferenze è risultato casomai il contrario, perché nel protezionismo si scorgeva uno strumento di tutela per l’occupazione e il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti, e nel laissez faire una condizione favorevole al profitto del capitale.
Comunque, riprendendo il filo della ricostruzione delle vicende che portarono all’affermazione del laissez faire, è opportuno rammentare che l’industrializzazione dei Paesi del Nord Europa rappresentò indubbiamente un successo clamoroso di
(4) Il saggio che diede notorietà a David Ricardo è del 1815, e il titolo completo è: “Essay on the Influence of a Low Price of Corn on the Profit of the Stock”.
questa dottrina, perché lo sviluppo industriale si realizzò in presenza di sistemi la cui stabilità era assicurata dall’utilizzo dell’oro (o dell’argento) come strumento monetario, nella piena libertà dei commerci – limitata soltanto dai costi e dalle difficoltà dei trasporti - e dalla non interferenza dell’autorità politica dei governi con le forze “spontanee” dell’economia.
Malgrado le profonde radici nella filosofia politica e morale, e malgrado il fascino esercitato dalla loro semplicità e naturalezza, l’individualismo e il laissez faire non avrebbero potuto esercitare una così duratura influenza sui sistemi politici, sociali ed economici dell’Occidente se non si fossero trovati in perfetta sintonia con un forte elemento dinamico, ovvero con le esigenze e i desideri dello spirito imprenditoriale che ha rappresentato la più decisiva componente innovativa del capitalismo. La “teoria dell’imprenditorialità” di Joseph Schumpeter (1883-1950) offre una convincente razionalizzazione della simbiosi fra lo spirito pionieristico degli imprenditori e il sistema del laissez faire.
Nel caso degli Stati Uniti, infine, nello sviluppo del laissez faire è dato cogliere un aspetto molto peculiare che afferisce la manifestazione della sensibilità religiosa. Osservava infatti già verso il 1830 il più acuto osservatore delle specificità della cultura americana Alexis deToqueville: “In Francia ho quasi sempre visto lo spirito religioso e lo spirito della libertà marciare in direzioni opposte; ma in America ho osservato che essi sono intimamente uniti, e regnano in armonia sopra il medesimo Paese (5)”.
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Nel lungo arco di tempo durato centosessanta anni (1776-1936) che è trascorso fra colui che è considerato – in modo non del tutto giustificato, come si è visto - il primo teorico del laissez faire, ovvero Adam Smith, e colui che è stato il padre della concezione riformatrice del sistema capitalistico, ovvero J.Maynard Keynes, il laissez faire ha rappresentato un modello prevalentemente empirico e non una teoria. Infatti per la corrente di pensiero economico in voga nella prima metà dell’Ottocento che oggi definiamo “economia classica”, e che coincide con l’espressione del pensiero
(5)Alexis de Tocqueville, citato in John Micklethwait, Adrian Wooldridge “ God is back”. Penguin Press, New York 2009, p.71.
franco-britannico del primo secolo dell’industrializzazione (cioè fino al 1860 circa), il laissez faire non esprimeva una teoria dell’economia in senso compiuto, ma soltanto un insieme di regole empiriche corredato da alcuni modelli parziali, ovvero una semplificazione utilizzabile per fornire i primi rudimenti della scienza economica (Marcet docet), o per interagire con altri campi disciplinari.
Il tentativo di trasformare la visione semplificatrice del laissez faire in una formulazione teorica compiuta è invece dovuto ai teorici del Centro-Nord Europa (prevalentemente sudditi dell’ Impero austro-ungarico) che – a partire da Carl Menger (1840-1921), Eugene Böhm-Bawerk (1851-1914) e dallo svedese Knut Wicksell (1851- 1926) - si sforzarono di costruire, partendo dall’esperienza sensoriale del marginalismo, modelli teorici coerenti delle leggi economiche ricorrendo a formulazioni matematiche sempre più sofisticate, in parallelo alla cosiddetta “scuola neo-classica” di Léon Walras e Vilfredo Pareto.
Il risultato deludente di tanti sforzi era già ben rappresentato in corso d’opera (cioè nel 1936) da John Maynard Keynes nella sua introduzione alla “Teoria Generale”:
“Sosterrò che i postulati della teoria (neo)classica sono applicabili soltanto a un caso particolare e non alla generalità, e che le condizioni di equilibrio che vi sono descritte rappresentano un caso limite; il quale non ha nulla a che fare con le caratteristiche economiche della società in cui viviamo (“The General Theory of Employment, Interest and Money”. Book I, Chap. 1, p.3).”
Quando Keynes scrisse queste parole si era nel bel mezzo della Grande Depressione, e la questione non poteva essere liquidata solo come una querelle fra scuole economiche opposte; come oggi – nel bel mezzo del grande crash della finanza globale – la questione del fallimento della teoria e della politica neo-conservatrice ( o friedmanite) non può essere liquidata attribuendone le colpe soltanto agli yuppies e agli avidi banchieri di Wall Street.
La crisi del laissez faire a partire dagli anni Trenta del secolo scorso non fu dovuta a carenze di tipo logico-matematico della teoria, né al fallimento – che oggi possiamo definire clamoroso alla luce dei disastri prodotti dalla dottrina della autoregolamentazione dei mercati – del tentativo di “catturare” con modelli matematici sempre più sofisticati l’imprevedibilità dei processi di evoluzione spontanea di per sé imprevedibili, come è imprevedibile la nascita di un cigno nero.
L’eclisse del laissez faire fu piuttosto dovuta alla inadeguatezza della dottrina a risolvere tre ordini di problemi che andavano aggravandosi mano a mano che lo sviluppo capitalistico progrediva, ovvero: a) la crescente proletarizzazione delle masse urbane; b) l’esigenza di grandi lavori pubblici per infrastrutture; c) la caratteristica instabilità del sistema capitalistico.
In assenza di una profonda riforma nella sua concezione il laissez faire della prima metà del Novecento non avrebbe potuto reggere la concorrenza con filosofie sociali, politiche ed economiche alternative: il nazionalismo autoritario a sfondo protezionista, da un lato; la pianificazione centralizzata di modello sovietico, dall’altro.
La risposta venne dal New Deal di Roosevelt e dal liberalismo sociale di Keynes e Beveridge. Ma questo fa parte di un altro capitolo della storia del laissez faire.
Carlo Scognamiglio Pasini
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