mercoledì 30 settembre 2009

Perché al Pdl fa meglio il dibattito che la rigida disciplina di partito

- da Il Foglio di mercoledì 30 settembre -

Al Direttore – Mi consenta una riflessione su quanto sta avvenendo in questi giorni attorno alle due iniziative della lettera dei venti deputati al premier Berlusconi sul disegno di legge sul “fine vita” e del progetto di legge bipartisan scritta da Fabio Granata (Pdl) e Andrea Sarubbi (Pd) sulla cittadinanza.
Nel Pdl, sono già al lavoro i “pompieri” per spegnere il fuoco del libero dibattito, del libero argomentare e ragionare, che finalmente si è acceso nel neonato partito. Ma il fuoco che si è acceso non è un incendio devastante, è una fiammella di libertà politica, e i congiurati non sono dei piromani che vogliono bruciare il Pdl. Naturalmente la discussione si è aperta con modalità inconsuete (perché quelle consuete non esistono), né è maturata nel confronto interno (le cui sedi non esistono o non sono praticabili). Il dibattito nel Pdl, anche se a dibattere sono gli interni, sembra arrivare sempre dall’esterno e da iniziative eterodosse come l’appello sul fine vita che vede come primi firmatari Della Vedova e Urso o la raccolta di firme che attraversa gli schieramenti a sostegno del testo Granata-Sarubbi. Oltre alla sostanza, importantissima, dei due temi messi sul tappeto, oggi si sta quindi giocando una partita sul modo di funzionare del Popolo delle Libertà, proprio la questione che Gianfranco Fini ha posto in queste settimane. E infatti alcune delle reazioni a quello che il suo giornale ha definito “il doppio colpo di Fini” paiono rivolte a soffocare sul nascere il tentativo di rompere lo schema della strettissima oligarchia che decide e della truppa che supinamente obbedisce, fatta salva la “liberta’ di coscienza” di pochi anticonformisti. Un sistema che forse funzionava nella monarchia anarchica di FI, ma che non può funzionare in alcun partito che voglia ragionare anche in una prospettiva post-berlusconiana (non anti-berlusconiana).
Un esempio di queste reazioni è il richiamo, a proposito del progetto sulla cittadinanza, del capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto alle esigenze di mantenere compatta la maggioranza, di rimanere aderenti al programma elettorale e di non compromettere l’alleanza con la Lega. Cicchitto individua come via preferibile un dibattito aperto e sereno all’interno degli organismi dirigenti e poi un confronto con l’opposizione. Ma vuole chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Se il Pdl, come molti vanno chiedendo da mesi, avesse affrontato seriamente il problema della democrazia interna, oggi non dovrebbe fronteggiare queste sfide lanciate da chi si è stancato del supino conformismo che regna al suo interno. Altroesempio del tentativo di “usare l’idrante” è il richiamo del sottosegretatrio Eugenia Roccella al principio di maggioranza, unico criterio, a suo dire, per arrivare alle soluzioni condivise auspicate nella lettera dei venti. A parte il fatto che prima di decidere, anche a maggioranza, in una democrazia liberale sarebbe una pratica “sana” anche discutere (è per questo che esiste la libertà di riunione, di espressione, di stampa ed è anche per questo che esiste il Parlamento), è bene ricordare che, sempre in una democrazia liberale, non si può ritenere che la maggioranza sia sovrana su ogni aspetto della vita degli individui, per questo tutelati da costituzioni “garantiste”. E che su alcuni temi (quelli moralmente sensibili), prima di invocare disinvoltamente l’esercizio della sovranità politica, sarebbe saggio riflettere sui pericoli della “tirannia della maggioranza”. Ma è chiaro che il richiamo al principio della maggioranza e al confronto maggioranza-minoranza che viene fatto ha implicazioni “pratiche”: contando sulla capacità di “persuasione” di alcuni esponenti di spicco del partito su un gruppo parlamentare formato da rappresentanti che, a causa del modo in cui sono stati eletti, hanno in numerosi casi autorevolezza e risorse politiche proprie molto scarse, si cerca di soffocare una seria articolazione del dibattito e del confronto con la disciplina di partito. Quella disciplina che consente al ministro Sacconi di affermare serenamente che già esiste un’amplissima maggioranza proprio sulla contestatissima questione della nutrizione e dell’idratazione.
Il fatto che all’interno del Pdl una consistente minoranza abbia finalmente alzato la testa consente di rimettere in discussione non solo questioni fondamentali per la nostra convivenza civile, ma apre nuovi possibili scenari per l’evoluzione del Pdl, anche se – come si è visto – la strada è in salita.

Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.


CREDITS: Libertiamo & Il Foglio

Guido il libertario, che ha vinto spiegando ai tedeschi che lavorare è un dovere

Le lezioni in Germania le hanno vinte i liberali. E le hanno vinte “da liberali”. Tenendo con prudenza, ma anche con fermezza, il punto di una necessaria rottura del paradigma sociale tedesco, e offrendo alla Merkel una sponda esterna utile per disegnare una nuova prospettiva per i cristiano-democratici, almeno in parte compromessi dall’esperienza della Grande Coalizione.
Da questo punto di vista, è sicuramente vero quanto scritto da Giovanni Boggero qualche giorno fa su Libertiamo. Alle politiche tedesche il partito liberale, la FDP, ha raggiunto il risultato record di 14,6 % anche perché votato da quei cristiano-democratici che volevano archiviare l’alleanza CDU-CSU/SPD, responsabile della stagnazione economica, politica e culturale. Questi elettori non hanno però agito solo per calcolo elettorale; hanno politicamente preferito il “mercatismo” di Westerwelle al moderatismo della Merkel.

Westerwelle ha infatti saputo trasformare la FDP, nella percezione dei tedeschi, da partito del capitale e delle corporazioni (in Germania forti quasi quanto in Italia) a partito difensore del cittadino medio dalle tasse e dall’invadenza burocratica. Da partito del freddo calcolo economico a partito del calore dell’iniziativa individuale contro l’impersonale e a tratti disumana macchina statale tedesca.
Sicuramente la Germania in questi ultimi decenni non è stata regolata da un sistema politico-economico improntato al “liberismo selvaggio”. Insieme alla più efficiente copertura sanitaria universale dei grandi paesi del mondo, il sussidio di disoccupazione Hartz IV garantisce a chiunque di vivacchiare in condizioni decenti senza dover alzare un dito. Proprio per questo uno degli slogan di Westerwelle durante la scorsa campagna elettorale (”Lavorare deve tornare ad essere conveniente”) puntava il dito verso un nuovo ceto sociale tedesco di “disoccupati di professione”, che considerano il lavoro un diritto sociale ma evidentemente non un dovere individuale.

Se è vero che per la stragrande maggioranza dei tedeschi non la libertà individuale, ma la cosiddetta giustizia sociale (Soziale Gerechtigkeit) è il sommo valore politico, molti contribuenti cominciano a paventare che il rousseauviano sfruttamento del forte sul debole si stia in Germania paradossalmente trasformando in uno sfruttamento del debole sul forte. È per questo che nella FDP alla Soziale Gerechtigkeit si è contrapposta la Leistungs-Gerechtigkeit, ovvero la giustizia basata sui risultati e sulla produttività. Non quindi “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, come raccomandava l’ideologia marxista, bensì “a ciascuno secondo la sua buona volontà”, come ci insegna la ragionevolezza.

Westerwelle ha anche saputo cambiare la propria immagine personale, mostrandosi meno ironico e salace (sul modello dei conservatori inglesi), meno esuberante e sicuro di vincere (sull’esempio dei politici americani), più severo e composto. Ha definitivamente accettato il fatto che il liberalismo all’anglo-sassone non potrà mai essere importato in Germania, neanche nei toni, visto che l’ironia viene troppo spesso confusa con lo sprezzo o interpretata come mancanza di serietà personale, e nulla conferisce più autorevolezza ad un oratore che un tono di vaga indignazione. Ma non ha per questo rinunciato a marcare un’effettiva differenza liberale sui temi economici, a partire dalla questione fiscale, su cui ha attenuato le sue proposte storiche, ma non ha affatto mollato la presa.

Non bisogna però fare l’errore di attribuire il successo di Westerwelle solamente al suo pragmatismo e alla concretezza sui temi economici e sociali, ignorando invece il suo grande slancio ideale sui temi etici e civili, che hanno permesso alla FDP di combattere alla pari con il suo naturale concorrente libertario: il partito dei verdi.
Sono infatti principalmente i liberali e i verdi tedeschi a propugnare e testimoniare con insistenza il valore più importante per un liberale nel metodo: la tolleranza. È grazie a loro se la società tedesca ha trovato proprio sui temi civili ed etici uno straordinario equilibrio normativo e culturale in un fertile dialogo tra cattolici, protestanti, musulmani (in Germania svariati milioni) agnostici e atei. È grazie a loro se i toni su questi temi rimangono sempre bassi, se non c’è paura o odio verso chi ha concezioni morali o modelli comportamentali diversi da quelli prevalenti e se non si usano i temi etici come strumento di potere per assicurarsi il consenso delle gerarchie religiose, che per altro in Germania, sia da parte cattolica che da parte protestante, non sembrano condividere l’oltranzismo della Curia romana e della Conferenza episcopale italiana.

Si tratta di un equilibrio pragmatico e di buon senso, come ho fatto notare qualche mese fa proprio su Libertiamo, parlando del disegno di legge sul fine vita dei cristiano-democratici tedeschi sottoscritta dalla cancelliera Merkel. Un equilibrio non-ideologico, non dogmatico, non oppressivo verso alcuno, frutto del dialogo, dell’empatia cristiana e del ragionamento illuminista. Guido Westerwelle in particolare, gay dichiarato, testimonia in prima persona con il suo rapporto stabile, ordinariamente “monogamo”, che gli omosessuali non sono un problema sociale né le vittime, colpevoli o incolpevoli, di un male morale irredimibile o di un conflitto interiore irrisolvibile. Anzi, per ironia della sorte, è toccato a questo gay libertario, che ama divertirsi e a cui non piace nascondersi, richiamare la Germania al dovere del lavoro, dell’impegno individuale e del rischio personale.

Ci vorrebbero più liberali come Guido Westerwelle anche in Italia, ma soprattutto più cittadini educati a ragionare con la propria testa, al senso critico. Forse è per questo che la promessa politica più importante dei liberali tedeschi è stata quella di aumentare ulteriormente i già alti investimenti nell’istruzione: solo cittadini intelligenti possono scegliere rappresentanti intelligenti.

Paolo Di Muccio - 37 anni, laureato a Heidelberg e ricercatore in logica matematica. Cristiano, individualista, libertario, pragmatico. Appassionato di epistemologia, liberalismo classico e libertarismo. Iscritto al vecchio PLI, ha scritto per l'Opinione.


CREDITS: Libertiamo

lunedì 28 settembre 2009

In Germania una vittoria di segno liberale, indicazioni utili per il Pdl

Dal punto di vista politico, la vittoria della coalizione giallo nera (CDU/CSU-FDP) è inequivoca. E malgrado un sistema elettorale assurdo, dovrebbe consegnare della coppia Merkel-Westerwelle una solida maggioranza parlamentare.

Il risultato del centro-destra tedesco dimostra che i partiti e le coalizioni liberali e moderate, anche in un continente preoccupato dagli strascichi della crisi finanziaria globale, possono vincere scegliendo una piattaforma coraggiosamente riformatrice.

La Merkel aveva detto di ritenere la Grande coalizione (condizionata dal conservatorismo sociale dell’SPD) inadeguata a questa sfida e ha proposto agli elettori l’alleanza con i liberali. Mi pare che abbia vinto la sua scommessa. D’altra parte lo straordinario successo dei liberali di Westerwelle dimostra che, anche in un paese legato alla tradizione cristiana e al modello dell’economia sociale di mercato, una componente sinceramente liberale e liberista (sui temi etici, come su quelli economici) non trova solo pieno riconoscimento culturale, ma anche piena valorizzazione politica.

Dal risultato della Merkel e di Westerwelle e dalla loro piattaforma politica di chiaro segno liberale giungono indicazioni utili anche per il Pdl.

Benedetto Della Vedova
- Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.


CREDITS: Libertiamo

venerdì 25 settembre 2009

Ancora sull'Afghanistan

In Afghanistan, McChrystal rispolvera i manuali di counter-insurgency

Lunedì scorso il Washington Post ha pubblicato amplissimi stralci del rapporto preparato dal Comandante delle missioni ISAF (International Security Assistance Force) e USFOR-A (US Forces Afghanistan), Generale Stanley McChrystal, il primo da quando si è insediato nel paese il 15 giugno scorso. Il rapporto, datato 30 agosto, ha suscitato un ampio dibattito negli Stati Uniti e sarà ovviamente uno dei documenti chiave alla base della futura strategia degli USA e della NATO in Afghanistan. E’ importante sottolineare come la pubblicazione del rapporto sia tutt’altro che fortuita, come sempre accade in casi simili: le raccomandazioni di McChrystal – soprattutto in materia di aumento delle truppe USA sul campo – sono politicamente controverse per l’amministrazione Obama e per i Democratici nel Congresso. Dunque il fatto che il documento sia stato fatto trapelare appare un chiaro tentativo di forzare la mano del Presidente e del suo staff, al fine di accelerare un processo decisionale che finora è rimasto sostanzialmente fermo (come ricordato, il rapporto è stato trasmesso ai vertici politici americani quasi un mese fa).
Fonti riportate dal sito ForeignPolicy.com suggeriscono che il leak sia stato orchestrato dallo staff dello stesso McChrystal, il quale non avrebbe nascosto la sua frustrazione di fronte alle cautele di Obama e di una delle figure sempre più centrali della politica di difesa USA: il sottosegretario alla difesa Michèle Flournoy. Proprio la Flournoy ha rilasciato un’intervista martedì scorso, in cui ha tentato di ridimensionare la rilevanza del rapporto McChrystal, affermando che si tratta di “un input, un input molto importante, in una discussione più ampia che il presidente sta avendo su cosa fare in Afghanistan”. Secondo il sottosegretario, una decisione finale sull’incremento di risorse (cioè di truppe) non è imminente, e i media non dovrebbero enfatizzare eccessivamente il ruolo di McChrystal. In serata, il segretario di Stato Hillary Clinton ha sostanzialmente ripetuto le parole della Flournoy, aggiungendo stizzita che “ci sono altri assessment di analisti militari molto esperti che si sono occupati di counter-insurgency che dicono l’esatto opposto” di McChrystal. Infine, il Vice Presidente Biden e diversi Democratici nel Congresso suggeriscono un radicale ripensamento della strategia USA in Afghanistan, che punti tutto su operazioni di contro-terrorismo limitate ad al Qaeda e che non richiedano alcun surge. Apparentemente, l’amministrazione vuole evitare ciò che accadde per l’Iraq con il generale David Petraeus nel 2007, quando la strategia da lui elaborata fu appoggiata da molti nel Congresso e portò ad un anomalo superamento delle rilevanti perplessità esistenti tra i vertici militari USA. Il fatto che Petraeus abbia ottenuto risultati positivi in Iraq non rende meno preoccupante, dal punto di vista dei rapporti tra civili e militari, lo scavalcamento delle gerarchie che avvenne a suo tempo.

In breve, la pubblicazione del rapporto McChrystal ha sollevato un polverone politico che ha ben poco a che fare con le necessità della strategia militare sul campo, e molto con le oggettive difficoltà dell’amministrazione Obama, stretta tra le proteste contro la riforma sanitaria e un consenso popolare nei confronti dell’impegno afgano che si è ridotto notevolmente negli ultimi mesi. Tanto più che fino a gennaio non ci sarebbero truppe impiegabili per un surge afgano. Per ora, è probabilmente più utile analizzare in dettaglio le idee avanzate da McChrystal nel suo assessment, e cercare di comprenderne le implicazioni sul piano operativo.

Nel suo insieme, il rapporto rappresenta una totale revisione della strategia attuata finora dagli USA e dalla NATO. Tre i punti iniziali: la situazione sul terreno è andata deteriorandosi molto seriamente negli ultimi mesi; la strategia esistente va corretta ripartendo dai principi base; nonostante ciò, il successo è ancora possibile in Afghanistan, ma non sarà raggiunto semplicemente raddoppiando gli sforzi attuali. Sebbene l’interesse dei media sia comprensibilmente concentrato su un aumento delle truppe (i numeri non compaiono mai nel rapporto, ma diverse fonti indicano una cifra tra i 20.000 e i 40.000 uomini), McChrystal è esplicito nel dire che “l’attenzione alle risorse e agli uomini necessari manca interamente la questione.” Il punto centrale è piuttosto quello di realizzare “un significativo cambiamento della nostra strategia e del modo in cui pensiamo e operiamo”.

McChrystal e il suo staff vogliono innanzitutto un “back to basics”, un ripensamento dell’intera operazione in tutti i suoi aspetti: dagli obiettivi da raggiungere, ai mezzi da impiegare, allo stesso modo di pensare dei soldati sul terreno. In questo il rapporto evidenzia la necessità di riprendere in mano i manuali di counter-insurgency (COIN), fondati sui principi proposti in primis (perlomeno in età contemporanea) dal colonnello francese David Galula durante la guerra d’Algeria. Nelle operazioni COIN, l’obiettivo non può essere il controllo del territorio, né l’annientamento degli insorti: l’obiettivo deve essere la popolazione, e più precisamente si tratta di convincere gli afgani che gli insorti non prevarranno. Questo obiettivo va perseguito in modo coerente e con forte sinergia da tutte le componenti in gioco (governo locale, forze armate afgane e della coalizione).

Per McChrystal, la guerra in Afghanistan è certamente una “guerra d’idee”, ma a tale considerazione va aggiunta la consapevolezza che la percezione della popolazione (e degli insorti) è sensibile alle reali azioni sul campo degli eserciti alleati e di quello afgano. Semplificando: per convincere la popolazione a credere nella sconfitta talebana e a supportare attivamente gli sforzi del governo e di ISAF, quelle stesse truppe devono mostrarsi “sicure” del loro successo. Come fare? Qualche esempio: i soldati non devono restare chiusi nelle loro basi, non devono muoversi con il dito sul grilletto, non devono indossare giubbotti antiproiettile quando non ve ne sia reale bisogno. L’idea di fondo è che se le forze della coalizione in primis mostrano di avere paura, non si può pretendere che la popolazione sia più coraggiosa di loro e sfidi apertamente i Talebani. A questo cambiamento di atteggiamento verso la popolazione va corrisposta anche una continuità operativa che finora è mancata. I Talebani non sono in guerra solo 5 mesi all’anno, quando le condizioni meteorologiche permettono loro di scendere nelle vallate e attaccare le forze ISAF e la popolazione civile. Anche quando il numero di attentati cala, nei mesi invernali, la capacità di imporre un governo locale, di amministrare la giustizia e perfino di riscuotere tasse rappresenta per gli afgani il segno più evidente della forza degli insorti. E’ proprio questa percezione che va modificata con un impegno costante della coalizione, a cui va affiancato un significativo aumento del numero di militari afgani, dai circa 100.000 attuali a 134.000 entro ottobre 2010.

Il rapporto McChrystal dimostra come non solo il generale, ma tutto il suo staff abbiano una forte consapevolezza delle complessità dell’Afghanistan. Tale consapevolezza è certamente mancata finora, anche riguardo alle importanti differenze (e quindi potenziali rivalità) tra i gruppi di insorti. Su questo particolare aspetto, il rapporto afferma che “insurrezioni di questa natura si concludono tipicamente attraverso la combinazione di operazioni militari e sforzi politici che conducano a un certo grado di riconciliazione con alcuni degli insorti”. Esiste tuttavia una differenza qualitativa tra riconciliazione con una parte della guerriglia (che dev’essere decisa e condotta dal governo afghano, a cui ISAF può solo offrire collaborazione in tal senso) e reintegro degli elementi di secondo piano che ne fanno parte. Nel secondo caso, l’obiettivo è quello di offrire alla “truppa” talebana una terza alternativa – il reintegro – oltre a quelle di combattere o fuggire. Per ottenere risultati concreti è però necessario dare maggiore autonomia decisionale ai comandanti sul campo, in modo che possano offrire incentivi (sia economici che di protezione) ai potenziali disertori della guerriglia.
E’ significativo il fatto che il rapporto dedichi non molto spazio agli Stati confinanti (Iran e Pakistan), sottolineando come soprattutto il ruolo iraniano sia stato finora ambiguo: se è vero che Teheran coopera col governo afgano, al tempo stesso supporta attivamente alcuni elementi della guerriglia talebana. Inoltre, il crescente peso dell’Iran nelle vicende afghane non è visto di buon occhio in Pakistan, la cui reazione destabilizza ulteriormente gli equilibri afghani. La stabilità dello stesso Pakistan è ovviamente essenziale per un successo in Afghanistan. Il supporto diretto dei talebani pakistani a quelli afghani è naturalmente il problema principale, a cui si aggiunge l’appoggio di elementi dell’ISI (i servizi segreti di Islamabad). Ciononostante, l’insurrezione in Afghanistan è principalmente di natura interna, e l’implementazione di una strategia COIN centrata sulla popolazione è il miglior modo per ridurre l’efficacia delle interferenze esterne. Un rapido cenno viene fatto anche nei riguardi della Russia e dell’India. Nel primo caso, si nota come la dipendenza logistica di ISAF nei confronti dei paesi ex-URSS, e quindi della Russia, offre a quest’ultima una preoccupante capacità di influire in positivo o in negativo sulle possibilità di successo della missione. Il caso dell’India (che meriterebbe uno specifico approfondimento) è altrettanto controverso: se gli aiuti allo sviluppo offerti da Nuova Delhi vanno a tutto vantaggio della popolazione afghana, la percezione che il governo di Kabul sia pro-indiano dà ulteriori motivi al Pakistan di mantenere buoni rapporti con i Talebani.

In conclusione, il cambiamento di strategia proposto da McChrystal è un segnale di forte discontinuità rispetto al passato. In retrospettiva, c’è da chiedersi perché in otto anni di guerra non sia stato possibile implementare un’operazione di counter-insurgency come quella proposta oggi dall’attuale Comandante dell’ISAF. In ogni caso, le forze armate USA sembrano aver re-imparato la lezione che avevano a caro prezzo appreso in passato (si pensi al Vietnam), efficacemente riassunta all’epoca (era il 1969) dalla frase di Kissinger “la guerriglia vince se non perde, l’esercito convenzionale perde se non vince”. Tuttavia, per tentare di ottenere un successo in Afghanistan è indispensabile la risolutezza della leadership politica USA, la quale appare oggi meno scontata di quanto si pensasse solo poche settimane fa, allorché Obama definì quella afghana una “war of necessity”. D’altra parte, Obama ha sicuramente una ottima ragione per essere cauto: le recenti elezioni in Afghanistan sono state, com’era prevedibile, tutt’altro che “free and fair”. Il rischio concreto per il Presidente è quello di esporsi appoggiando Karzai – un leader già profondamente delegittimato – senza spingere per un qualche compromesso con i candidati sconfitti, in particolare l’ex Ministro degli Esteri Abdullah Abdullah. Se ottenere l’appoggio della popolazione dev’essere l’obiettivo della coalizione, è cruciale in questo momento evitare di compromettere ulteriormente la credibilità del processo politico in atto nel paese con una scelta sbagliata.

ISRIA is an information analysis and global intelligence company and network whose website www.isria.com is a world leading provider of geopolitical and diplomatic information. Analysts, diplomats and policymakers subscribe to its online service for their daily global and strategic monitoring.

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Carlo Alberto Cuoco - Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche presso la Facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli” di Forlì (Università di Bologna) con una tesi sulla Rivoluzione negli Affari Militari. E’ intern presso ISRIA (www.isria.com), compagnia di information analysis e global intelligence leader nel settore della consulenza ad analisti di intelligence, diplomatici e policy-makers.

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Lasciare l’Afghanistan significa importare la guerra e militarizzare l’Occidente. Altro che pace


In questi giorni le cronache americane ed italiane ci rivelano che in entrambi i Paesi si è riacceso il dibattito riguardo alla guerra “giusta” in Afghanistan, arenata in un pericoloso stallo che favorisce i talebani, più attrezzati per un lungo conflitto.
Ma cosa accadrebbe negli USA se si lasciasse l’Afghanistan, come vuole il fior fiore dell’intellettualismo liberal-pacifista e qualche isolato repubblicano memore della tradizione isolazionista del partito? Quali sarebbero le conseguenze di una ritirata in stile Vietnam?

Innanzitutto, va detto che, prima che sull’Afghanistan, questo refrain, con una forza mille volte più grande – alla Casa Bianca c’era ancora “il cattivo” Bush – ha costituito la posizione con cui il partito democratico, compreso Obama, ha votato contro i rifinanziamenti per la guerra in Iraq, prima e durante il surge. Prima che il Generale Petraeus dimostrasse loro che si sbagliavano, in molti pensavano che in Iraq non si potesse trovare una soluzione vincente. Il leader democratico in Senato Harry Reid lo disse chiaramente, la guerra in Iraq era persa: ma si sbagliava. Il nostro parere è che oggi gli stessi che vogliono il ritiro delle truppe non siano pronti ad affrontare ed accettare ciò che succederebbe in seguito, e non sarebbe la prima volta.

Se il Vietnam è il paragone col quale confrontarsi, allora è bene ricordare cosa avvenne lì dopo che gli americani se ne andarono. Se il fronte pacifista smise di organizzare sit-in di fronte alle ambasciate, se la parola Vietnam sparì dai titoli dei media felici di aver contribuito ad umiliare gli Stati Uniti, ai vietnamiti del sud capitò di finire nel peggiore incubo possibile. La stessa cosa succederebbe agli afgani. A lungo il pacifismo da battaglia ha mugolato che gli americani si sono meritati l’11 settembre per aver abbandonato l’Afghanistan dopo averlo armato contro i russi: ma questo è esattamente quello che vuole oggi il fronte del ritiro, gli stessi che (dimenticando che c’era una risoluzione ONU da rispettare) criticarono Bush padre di aver fatto l’errore per non essere arrivati fino a Baghdad, dopo aver liberato il Kuwait. Ai cittadini afgani che sono andati a votare mostrando orgogliosi la testimonianza marchiata con l’inchiostro sulle loro dita, alle donne che si stanno ribellando alle sevizie talebane, ai ragazzi che hanno scommesso a costo della loro vita sulla pur lenta rinascita del loro Paese, che messaggio darebbe un’America che di colpo li lasciasse nelle mani dei loro aguzzini? Quanti oggi piangono la morte dei civili innocenti, farebbero lo stesso dopo, con statistiche dieci volte maggiori? Noi siamo certi di no, il Vietnam insegna.

Negli Stati Uniti si correrebbe seriamente il rischio di un ritorno ad avvenimenti bui che gli americani si sono lasciati alle spalle: i campi di detenzione dove furono rinchiusi i cittadini americani di origine giapponese dopo Pearl Harbor; il trattamento da “aliens” per i nostri connazionali colpevoli di venire dal paese di Mussolini, nonostante in quel momento Fiorello La Guardia fosse sindaco di New York. Una volta ritirate le truppe, i talebani riprenderebbero il potere massacrando chi si è schierato contro di loro e penserebbero ad una sola cosa: come farla pagare agli americani. Il clima del “ci colpiranno a casa nostra, non sappiamo solo quando e dove” influenzerebbe nuovamente la vita di tutti i giorni negli Stati Uniti. Le Ambasciate ed i compound con le truppe statunitensi nel mondo dovrebbero triplicare le misure di sicurezza, con scorno dei cittadini del posto che riprenderebbero ad odiare la bandiera a stelle e strisce. I luoghi dove gli americani vanno in vacanza si svuoterebbero. Le frontiere soffrirebbero nuove restrizioni, gli scambi delle merci si farebbero più ardui, i rapporti diplomatici si raffredderebbero. Se è vivo, Bin laden riapparirebbe in video e riaprirebbe ferite oggi chiuse nel cuore di tutti gli americani. Il Pakistan e la sua bomba atomica sarebbe nel mirino di questa gente, con convinzione e mezzi che oggi non hanno, perché impegnati in un’altra battaglia.

Il Presidente Obama si vedrebbe costretto a rafforzare la sicurezza contro un nemico invisibile, fra la gente tutti i giorni. Non pochi cittadini americani ricomincerebbero comprensibilmente ad osservare gli arabi ed i musulmani con sospetto; da parte di frange estremiste comincerebbero a circolare idee ed azioni razziste contro la comunità musulmana americana. La situazione rischierebbe di esplodere facilmente in seguito all’accensione di una miccia (come ad esempio l’arresto, avvenuto pochi giorni fa, di tre statunitensi di origine afgana sospettati di preparare un attentato a New York, che oggi non ha innescato alcuna reazione a catena) e per prevenire i rischi Obama si vedrebbe costretto a rafforzare decisamente il patriot act per un periodo indeterminato, perché si rafforzerebbe in alcuni la sensazione che l’unico modo per stare al sicuro è eliminare il pericolo di “cellule dormienti”, come quelle che causarono l’11 settembre. Bisognerebbe mettere mano ad un lavoro lungo, oscuro e difficile, in cui ci si sporca le mani e i primi a criticare tutto ciò sarebbero proprio quelli che oggi vogliono il ritiro delle truppe. I democratici si spaccherebbero tra liberal e pragmatici, ma anche tra i repubblicani emergerebbero differenze tra una componente più estremista ed una più moderata. L’economia rischierebbe un nuovo collasso con il petrolio alle stelle, la parte meno fondamentalista del Medio Oriente si troverebbe con un incendio alle porte, impossibilitata ad evitare che la diffusione delle fiamme all’interno dei propri confini: ciò comporterebbe una recrudescenza che lascerebbe un allarmato ma inerte Occidente a guardare le sollevazioni di chi si ispirerebbe nuovamente a Bin Laden e gli spargimenti di sangue che ne conseguirebbero, in stile Algeria fine XX secolo. In qualcuno di questi Paesi i radicali islamici potrebbero prendere il potere, e lì il paragone sarebbe con l’Iran del 1979.

Tutto ciò porterebbe ad una crisi di proporzioni simili solamente ad una guerra mondiale, per evitare la quale i governi occidentali che rispondono ai propri elettori – strategicamente svantaggiati rispetto ai tiranni che ai loro cittadini si impongono – sarebbero costretti a negoziare da una posizione debolissima. E lo farebbero obbligati più di quanto non siano già ora a corteggiare altri Paesi al margine di questo conflitto come Cina e Russia, che si farebbero pagare carissima una vicinanza che l’Occidente dovrebbe costantemente rinegoziare, dimenticando i propri principi e rimettendoci ogni volta di più.

Non sono solo gli Stati Uniti a dover sperare che in Afghanistan si rimanga e si vinca. E’ importante in primis a livello strategico che Obama mantenga la linea del suo predecessore. Se venisse a mancare il ruolo che gli USA hanno avuto nel corso del secolo scorso, se ai nemici della democrazia e dell’Occidente si mandasse il messaggio che l’unico approccio americano sarà d’ora in poi l’appeasement ad oltranza tipica dell’Europa imbelle, i primi a pagarne il prezzo saremo proprio noi europei: un conto è giocare all’allegro pacifista con l’ombrello americano che ti protegge, altro è farlo in campo aperto, contro avversari motivati e galvanizzati dal ritiro americano e consci dell’incapacità europea di difendersi.

Umberto Mucci - Nato a Roma nel 1969, laureato in Scienze Politiche alla Sapienza di Roma, ha un master in marketing e comunicazione. Si occupa di pubbliche relazioni in ambito di internazionalizzazione. Rappresenta in Italia l’Italian American Museum di Manhattan. Ha pubblicato per la rivista per italiani all’estero èItalia e per Romacapitale. Ha co-fondato e diretto la Fondazione Roma Europea.


CREDITS: Libertiamo

giovedì 24 settembre 2009

Restare a Kabul

Serve il coraggio di compiere delle scelte impopolari

di Luca Ferrini*


Come tutti, ho provato un senso di angoscia e d’impotenza davanti alle carcasse dei nostri blindati dilaniati da una overdose di tritolo. Sei giovani vite saltate per aria a migliaia di chilometri da casa. Insieme al sangue di afghani senza colpa, che semplicemente passavano di lì. A quella maledetta ora, in quel maledetto tratto di strada.

Di fronte a tale orribile visione, ho avuto la stessa reazione, istintiva, del ministro della Difesa La Russa. E quando questi, a botta calda, in Senato ha sillabato con controllata rabbia il suo "non ci faremo intimidire da questi vigliacchi", ho sentito forte l’orgoglio di essere italiano, commosso da quelle parole coraggiose.

Poi, invece, di lì a breve, la tragedia nella tragedia. La dichiarazione di resa incondizionata di Bossi, poi solo parzialmente smentita, cui facevano eco le inaspettate parole del Presidente del Consiglio. Il Senatùr che pretende un "tutti a casa". E Berlusconi irriconoscibile che, con ancora il sangue dei suoi parà sull’asfalto, vagheggia una "exit strategy" e dà il via ad un patetico braccio di ferro con gli alleati, sbrodolando su quanti soldati abbiamo noi e quanti soldati hanno gli altri. Neanche giocassimo a Risiko.

E’ dovuto intervenire il Capo dello Stato ad iniettare un po’ di fermezza nella posizione italiana. Una mezza picconata, a dire il vero: Napolitano è sì il capo delle Forze Armate, ma la politica militare la fa il Governo. Il Presidente, per fortuna, ha parlato. E lo ha fatto perché ha a cuore, prima di tutto, la dignità e l’onore del Paese. Altro che "Meno male che Silvio c’è". "Meno male che Giorgio c’è", dovrebbe essere il tormentone.

D’altronde, amici, cosa stiamo a fare in Afghanistan, come in altre parti del mondo? Difendiamo la Patria. Ma non (solo) la Patria che va dalle Alpi all’Etna. Una Patria globalizzata, i cui confini non sono più disegnati per terra o sugli atlanti, ma risiedono dentro il cuore e le menti delle popolazioni. Difendiamo una Patria che è fatta di mattoni ideali (magari a volte un po’ consunti o poco resistenti, ma vivi nelle intenzioni). Mattoni che si chiamano: democrazia, libertà di parola, libertà di stampa, libertà di religione, principio di uguaglianza, voto, scelta dei propri rappresentanti, separazione tra potere religioso e potere politico, economia di mercato, rispetto delle diversità…

Noi, caro Presidente Berlusconi, mandiamo i figli dell’Italia a combattere, sì a combattere (e dategli maggiore libertà di azione), perché questo edificio, costruito nei secoli con i mattoni della civiltà occidentale, possa resistere agli attacchi del nuovo medioevo, alla viltà e alla barbarie di chi è disposto ad assassinare innocenti su un altare insanguinato.

E allora, se così è, Signor Presidente, smettiamo per favore di inseguire l’umore di quattro pacifisti con la bandiera arcobaleno o di metterci a giocare con i carrarmatini colorati. Ella sia davvero il rappresentante di un popolo che ama la libertà: la garantisca anche ai popoli che non hanno la nostra fortuna.

Le porto un esempio pratico: oggi io posso andare a Sarajevo, dove le armi hanno taciuto e la convivenza pacifica è ristabilita. Perché lì c’erano e sono rimaste forze Nato, tra cui l’Italia. Oggi io posso andare in Kosovo, dove le armi hanno taciuto. Perché anche lì c’erano e sono rimaste forze di pace. A Mogadiscio, invece, è meglio evitare la visita. La situazione è ancora esplosiva e la gente muore di fame e di guerra. Ma da lì, Presidente, ce ne siamo andati. Ed ecco le conseguenze.

So che non tutti gli italiani sono favorevoli alle missioni militari. Ma una classe politica che non riesce a motivare, a spiegare alla propria gente le ragioni di una irrinunciabile scelta morale e strategica è una classe politica che merita di andare a casa. Tutta quanta. Ugo La Malfa una volta disse che l’impopolarità, spesso, è un dovere morale. Ma ci vuole coraggio. I nostri soldati lo hanno dimostrato. Lo dimostri anche chi ha il dovere di guidarci.

*Direzione nazionale del Pri


CREDITS: PRI

lunedì 21 settembre 2009

XX Settembre, la più bella delle italiche feste

Quella di ieri, per l'Italia era o, meglio, avrebbe dovuto essere una giornata di festa. E non perchè, semplicemente e cattolica-mente, era domenica...

No, ieri ricorreva il 139° Anniversario della "breccia di Porta Pia", simbolo dell'Italia liberale e laica, e di un chiaro STOP alla prepotenza politico-morale di Santa Romana Chiesa. Il "sogno" durò purtroppo poco: il fascismo mise fine al "liberale" e poi, coi Patti Lateranensi, pure al "laico".

Il Risorgimento dovrebbe essere considerato il periodo storiograficamente più importante per l'Italia moderna/contemporanea, e invece se ne sa poco e male...

In aggiunta, spuntano pure libri ASSURDI, ke acquistano tristemente fama perchè pubblicizzati -in maniera tra l'altro illegale- da qualche "papavero" in TV...

A tal proposito, invito a leggere l'articolo sottostante...

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Per il premier il Risorgimento è stato una congiura contro la Chiesa?

- Non è solo legittimo, ma doveroso per chi esercita il mestiere dello studioso affrontare “laicamente” tutti gli aspetti di un processo storico, comprese le ombre, anche quando questo costituisca il fondamento ideale e istituzionale dello Stato e della Nazione. La storia del Risorgimento e dell’Unità italiana non può dunque sfuggire a questa regola, né si deve pretendere che gli storici concorrano, con il loro lavoro, alla celebrazione di una ricorrenza.

Una cosa, però, è approfondire aspetti su cui una storiografia stolidamente “patriottica” tenderebbe a sorvolare (la confisca dei beni ecclesiastici, atti di violenza arbitraria e ingiustificata, brutalità e vandalismi assortiti….), altra è costruire ideologicamente su di essi la contro-interpretazione di una intera vicenda storica. Ed è quello che sembra avere fatto la storica Angela Pellicciari nel suo libro Risorgimento da riscrivere – Liberali & massoni contro la Chiesa, inspiegabilmente consigliato dal Presidente del Consiglio ai giovani del Pdl. Come Pierluigi Battista ha, infatti, acutamente notato il libro “sul” Risorgimento della Pellicciari è in realtà un libro “contro” il Risorgimento, un atto di accusa impietoso e militante, che capovolge il significato storico e il valore politico del processo di unificazione, riducendolo ad una congiura massonica e anti-cristiana e ad una “invasione sabauda”.

Ma non è questo, ci pare, il centro della questione. La storiografia si valuta e giudica in termini scientifici e non può essere “squalificata” in sede politica. Ma l’uso della storia è a tutti gli effetti una “questione politica”. Anzi, a guardare la vicenda italiana degli ultimi decenni è uno dei nodi più sensibili del dibattito pubblico, una vera e propria linea di divisione lungo cui si è articolato lo stesso sistema politico. Ad esempio, fondandosi sulle indubbie opacità degli apparati di sicurezza italiani nel periodo della guerra fredda e dell’escalation terrorista, una certa storiografia ha elaborato quella teoria del “doppio stato” che sarà certo servita a galvanizzare gli animi dei militanti della sinistra, ma non ha contribuito a chiarire (anzi, piuttosto, a confondere) il senso della vicenda politica del secondo dopoguerra italiano. Da destra, non si farebbe un buon servizio né all’Italia né agli italiani se si adottasse il medesimo schema complottistico per riscrivere la storia del Risorgimento e per liquidare i problemi che essa pone nell’attualità politica: con Bossi e il suo localismo nordista “anti-garibaldino”, con una parte del mondo cattolico che si sente ancora espropriato dall’affronto di Porta Pia, con il meridionalismo neo-borbonico del partito del Sud, che vagheggia un autonoma età dell’oro pre-risorgimentale…

Che significato dobbiamo attribuire alle parole di Berlusconi e ai suoi consigli di lettura? Certo c’è qualche problema se mentre il Governo sta approntando le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, il Presidente del Consiglio manifesta pubblicamente di aderire alle tesi revanchiste di un côté minoritario del mondo cattolico, che presenta la lunga lotta per l’indipendenza nazionale dalle potenze straniere e per l’unificazione del Paese come una brutale guerra di aggressione contro la Chiesa. Per amore di verità storica, bisognerebbe ricordare anche altre cose, come ad esempio che se l’unificazione comportò anche un conflitto con lo Stato pontificio (perché la Chiesa mica era solo un’istituzione spirituale, era anche una potenza temporale!), quest’ultimo aveva attivamente operato contro l’indipendenza e l’unità italiana. E se proprio vogliamo insistere, e fare esercizio di memoria, dovremmo anche ricordare che la Chiesa subito dopo l’Unità si scagliò lancia in resta contro il liberalismo con tutti gli annessi e i connessi (anche il Sillabo, forse, potrebbe essere una lettura attuale e consigliabile per capire cosa era allora la Chiesa, e cosa diceva) salvo riscoprirne in seguito alcune virtù, dopo che i “piemontesi” gliele avevano imposte con le cattive.

Il Capo del Governo ha deciso di dare credito a ricostruzioni storiche, che non negano questi fatti, ma li svalutano, a vantaggio di altri che dimostrano la natura massonica dell’ideale unitario e la natura “totalitaria” dello Stato liberale che usurpò il potere politico della Chiesa. A quale scopo?
Che obiettivo persegue Silvio Berlusconi proponendo una lettura che delegittima il Risorgimento italiano? Perché qui, nuovamente, la questione non è più di “ricerca storica”, ma di uso politico della storia e allora questo uso deve pure mirare a qualcosa. A indebolire ulteriormente il sentimento nazionale, che già non gode di buona salute? O a trasformare un sentimento che nelle sue origini nasce forgiato da quei principi universalistici di libertà e progresso, che avevano attraversato l’Europa del XIX secolo, in una angusta identità escludente, che sovrappone la religione alla nazione? Forse non c’è né l’una né l’altra intenzione e ci sono solo pessimi consiglieri. Anche perché nel Governo non sembra aver voce solo chi vuole stilare nuove liste di “buoni” e di “cattivi”, ma anche personalità animate da un sovrabbondante ecumenismo storico: come il Ministro Bondi, che equipara il federalismo laico di Cattaneo, che guardava come modello per l’Italia all’esperienza americana di Filadelfia, e il federalismo di Gioberti che sognava una federazione sotto la guida del Papa: sogno che si infranse quando nel 1848, non per un’opposizione al neo-guelfismo, ma perché lo stesso Pio IX decise definitivamente di abbandonare qualunque sostegno all’ideale unitario italiano!

Comunque sia, ci piacerebbe capire meglio cosa hanno in testa quelli che attendono, con tanta solerzia e disinvoltura, alla “manutenzione” del sentimento nazionale e alla ripulitura dell’ideale patriottico.

Carmelo Palma - 40 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Sofia Ventura - nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.


CREDITS: Libertiamo

venerdì 18 settembre 2009

Un clamoroso abbaglio da parte della "Padania"

La "Padania", che ha iniziato a pubblicare la storia a puntate del Risorgimento di Lorenzo Del Boca, sta prendendo un abbaglio. Il quotidiano leghista confonde la ricostruzione storica con il pettegolezzo, come se fra duecento anni si dicesse della Lega che sosteneva un presidente del Consiglio intento in festini con belle ragazze. La versione che viene fornita sul quotidiano leghista da Del Boca, quando tratta di Goffredo Mameli, definendolo "ladro" e "opportunista", è pari a quella di chi domani potrebbe definire Bossi come un "indolente" e un "sicofante". Dovrebbe stare molto attento il quotidiano leghista a non inaugurare un gusto per la ricostruzione storiografica che gli si può ritorcere contro. Anche se fra due secoli. Perché, a distanza di due secoli, c’è ancora chi intende difendere la memoria di Mameli; e magari, fra due secoli, nessuno si troverà a difendere la memoria della Lega e di Bossi. Il motivo sarebbe proprio legato a "Fratelli d’Italia". Ora, sinceramente, non sapevamo di questa storia di Mameli che non avrebbe scritto di proprio pugno l’Inno nazionale, ma avrebbe copiato le strofe da Anastasio Cannata, un frate appassionato di poesia che gli aveva offerto rifugio. Si sa invece che la musica dell’inno è stata composta da altri, ma non è questo il punto.



Il punto è che Mameli voleva dare un inno al popolo italiano e lo ha scritto sulla base delle sue capacità: la cosa è servita. Preoccuparsi del malumore del frate non inficia la storia di quelle migliaia di patrioti che, grazie a Mameli, ebbero il loro inno. E, vista la fine tragica di Mameli, morto giovanissimo in difesa del suo ideale, ha dell’incredibile tacciarlo con gli aggettivi usati da Del Boca ed esaltati nei titoli della "Padania".



Purtroppo c’è un pregiudizio da parte della "Padania" e della Lega verso l’Inno di Mameli. Pregiudizio profondamente sbagliato che nasce da una cattiva lettura del testo, che recita appunto "schiava di Roma". Non con un riferimento alla libertà - come temono i leghisti - ma alla vittoria d’Italia, che dell’"elmo di Scipio si è cinta la testa". Mameli chiede all’Italia una vittoria militare, invece che una rassegnata sopportazione dell’occupazione straniera. La chiede prima di tutto ai patrioti lombardi e ricorda i successi della Repubblica di Roma antica. Curiosi versi per un frate, in effetti. E, per carità, di incompetenti, truffatori e voltagabbana nella storia d’Italia e del Risorgimento ne troviamo fin che vogliamo: non serve che Del Boca ce lo spieghi. Bisogna anche però considerare l’ispirazione ideale all’indipendenza, all’autonomia e alla democrazia: condizioni che sotto l’Austria e il papato non esistevano.



E la "Padania" ha un protagonista del Risorgimento a cui potrebbe rivolgersi: è Carlo Cattaneo. Senza il Risorgimento, insomma, non sarebbe stata nemmeno possibile l’idea federalista. Studino Cattaneo e lascino perdere Del Boca.





CREDITS: PRI

Biotestamento: le posizioni laiche del centrodestra

- Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del Pdl

La sentenza del Tar del Lazio sull’atto di indirizzo del Ministro Sacconi sancisce, di fatto, l’incostituzionalità del ddl Calabrò. Se, come ribadiscono i giudici amministrativi, non è costituzionalmente possibile trasformare idratazione e alimentazione in trattamenti sanitari obbligatori, a prescindere dalla volontà del paziente, il ddl Calabrò è da considerarsi irreversibilmente incostituzionale. Il legislatore, se davvero volesse imporre questo principio, dovrebbe cambiare la Costituzione. Non approvare una legge ordinaria incostituzionale e inscenare l’ennesimo braccio di ferro con il Quirinale e con la Consulta.

La strada alternativa, che, nella situazione attuale, sembra sempre più saggia, è di lasciare che nel fine vita, anche sui trattamenti di idratazione e alimentazione forzata, le scelte di cura siano decise nel dialogo tra i medici e i familiari o il fiduciario del paziente incapace, tenendo conto delle sue volontà.

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- Dichiarazione di Francesco Nucara, deputato e Segretario Nazionale del PRI

"La sentenza del Tar dovrebbe indurre ad una maggiore riflessione alcuni esponenti del governo e della maggioranza che sembrano invece fulminati sulla via di Damasco. Da tempo sosteniamo che la legge sul biotestamento approvata in Senato è palesemente incostituzionale e oggi la magistratura ci ha dato la prima conferma. Parlamento e governo, non credano che la situazione migliorerà nelle prossime settimane e se non vi sarà un cambiamento radicale del testo, il conflitto costituzionale giungerà ai massimi livelli. Se qualcuno pensa di potersi mettere la Costituzione italiana sotto i piedi, ha fatto male i conti". Lo ha dichiarato il segretario del Pri Francesco Nucara a proposito della sentenza del Tar del Lazio sul biotestamento.

Cittadinanza italiana agli stranieri: la MIA proposta

Discutendo su un altro blog delle posizioni "finiane", ho elencato la mia visione sulla questione della cittadinanza italiana agli stranieri. Di seguito la mia proposta.

Personalmente ritengo NON valido il principio x cui chi nasce sul suolo italico ne debba essere consequenzialmente cittadino. Nè ritengo ke la cittadinanza debba essere automatica dopo un determinato periodo di tempo, ma vada legata ad un'effettiva integrazione da dimostrare mediante "esame". Sulla tempistica sono abbastanza flessibile, ma in linea di massima direi ke si potrebbe richiedere di sostenere la "prova" per la cittadinanza italiana dopo 5 anni dall'effettiva e REGOLARE stabilizzazione in Italia. La possibilità, in caso di "bocciatura", di riproporre la domanda dopo 2 anni, dopo altri 3 in caso di una seconda bocciatura, dopo altri 5 in caso di una terza e, in caso di ulteriore fallimento, un NO definitivo. I figli di stranieri nati DOPO che ENTRAMBI i genitori sono divenuti cittadini italiani, è italiano per diritto. Quelli nati prima, o con un solo genitore "italiano", dovranno a loro volta fare domanda di cittadinanza, NON PRIMA del compimento della maggiore età.

mercoledì 16 settembre 2009

Sul PdL del futuro

Il Pdl non è too big to fail di Carmelo Palma

Ad un anno dal fallimento della Lehman Brothers, è fin troppo facile ricavarne una chiave di lettura “globale”, e adattarne lo schema per rileggere fenomeni che non hanno diretta attinenza con la tempesta finanziaria che, dopo l’11 settembre, ha più segnato la storia politica dell’ultimo decennio.
Però è forse vero che anche quell’evento è in grado di insegnare qualcosa al di fuori dei confini (tutt’altro che definiti) del sistema finanziario. Di ammonire chiunque “governi” un’organizzazione di interessi complessa (un Paese, una banca, un partito, una famiglia…) a misurare le proprie responsabilità e i propri successi e insuccessi su un tempo lungo e su obiettivi larghi, che non coincidono sempre (anzi, che non coincidono mai) con la vicenda biografica e con la fortuna “privata” dei suoi amministratori e neppure dei suoi fondatori.Sarebbe opportuno che anche il Pdl facesse davvero tesoro di questa lezione, ieri richiamata con ammirevole chiarezza dal professor Alessandro Campi in un pezzo pubblicato su Ffwebmagazine. Il “presentismo” compromette la possibilità che la straordinaria e tutt’altro che lineare parabola politica berlusconiana, si consolidi in una eredità politicamente spendibile. Una rottura (e che rottura!), che ha segnato in profondità la storia politica italiana, sarebbe così condannata dai suoi stessi apologeti a divenire una semplice “parentesi”, chiusa la quale tornerebbe la normalità.
Se si vuole costruire il futuro e non consumare il presente, bisognerebbe anche ammettere che l’eccezionalità della leadership berlusconiana non giustifica l’eccezionalismo politico del suo partito e un’interpretazione religiosa del suo carisma politico. L’organizzazione politica e la formazione della classe dirigente non possono ispirarsi alla dottrina della successione apostolica. E la stessa scelta di essere “popolo” e non “partito”, in questa declinazione del tutto anomala che sta assumendo nel Pdl, non serve, in teoria, neppure ad evitare il rischio della degenerazione frazionista, che, Berlusconi regnante, è politicamente impossibile, ma che diverrebbe politicamente inevitabile se il Pdl non riuscisse nel frattempo a trovare un fattore di unità diverso dalla leadership berlusconiana.
Peraltro, in nessuna democrazia del mondo l’unità politica di un grande partito di governo si fonda sulla leadership intesa in senso “personale”, quanto piuttosto sulle regole, del tutto impersonali, che rendono un partito capace di costruire leadership, e di rinnovare la propria capacità di offerta politica. Insomma il passaggio dal leader che costruisce il partito al partito che costruisce le leadership è, anche per il Pdl, ineludibile. E per tante ragioni, non solo legate alla biografia e all’età di Berlusconi, non può essere rinviato. E temiamo che Berlusconi, anche per non sentirsene minacciato, debba guidare questo processo, sentirsene partecipe quanto (se non più) delle sorti del suo governo. Anche in questo modo farebbe il bene del Paese.
Certo, per tornare alla “metafora Lehman”, ci si può illudere che il Pdl sia too big to fail e si può continuare a giocare spregiudicatamente, con una “leva” sempre più lunga, col patrimonio politico berlusconiano. Ma il valore di questo patrimonio è destinato a diminuire e se non torna a “patrimonializzarsi” politicamente, anche il Pdl rischia il collasso.

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Qui non serve un ritorno agli anni ‘50

- di Benedetto Della Vedova dal Secolo D’Italia del 16 settembre 2009 -

Sandro Bondi ha saputo in questi anni costruire a Gubbio con tenacia e intelligenza, per Forza Italia prima e per il PdL ora, un appuntamento ambizioso di discussione e confronto. La “scuola di formazione politica” non ha deluso le aspettative e anche quest’anno ha rappresentato uno dei rari (anzi, diciamolo: l’unico) momenti di pubblico dibattito all’interno del centrodestra berlusconiano. E se vogliamo indicare un esito politico cui sono giunti i tre giorni di discussione esso ha proprio coinciso – e non è una tautologia – con il riconoscimento della “normalità” del dibattito politico.

Non è solo possibile, ma anche auspicabile che in un partito che rappresenta un elettorato complesso, unito attorno ad una leadership e ad un progetto di governo, ma non “omologato” dal punto di vista politico-culturale, ci si possa confrontare, senza dividersi, su letture diverse della realtà e della responsabilità della politica. Si può lealmente sostenere un esecutivo “battezzato” dal voto degli elettori senza ritenere che l’unico compito di un partito (che non è un corpo mistico, ma è fatto dalle idee di quanti lo animano e lo abitano) sia quello di assolvere alla difesa del governo e, per i più bellicosi, all’offesa dell’opposizione, anche perché sul lungo periodo l’unità di un “grande” partito è per definizione dinamica e non statica, adattiva e non ideologica.

Anche sul tema sensibile e ambiguo dell’identità la discussione può essere viva e sensibile, senza essere lacerante. Se tutti trovano e accettano la misura giusta e la consapevolezza di non dovere fondare (o peggio rifondare) il profilo morale del Paese, né quella di incarnare un’ideale antropologicamente superiore. Alla politica italiana, ha già fatto sufficiente danno il mito della superiorità antropologica della sinistra.

Per quello che mi riguarda, come ho avuto modo di ribadire anche a Gubbio, penso che ad una destra rincantucciata in un ideale astrattamente conservatore e compiaciuta della propria durezza identitaria sia necessaria una rottura che, in altri tempi, si sarebbe detta “berlusconiana”. Quelle di trasversalismo ideologico ed eclettismo culturale erano le accuse sanguinose che la sinistra rivolgeva al primo Berlusconi, reo di non avere una cultura politica, ma di limitarsi a riflettere, in tutte le sue contraddizioni, quella del suo elettorato. Non mi pare utile che, a distanza di 15 anni, diventino le accuse che la destra rivolge a se stessa, nel tentativo di farsi migliore. Finendo per vagheggiare come età dell’oro gli anni cinquanta e la loro identità culturale e civile. Anche qui, è una questione di misura: si può continuare a celebrare il 1948, senza eleggere, a distanza di 60 anni, l’Italia post-degasperiana a patria ideale. I seguaci del personalismo di Maritain e dell’individualismo di Popper possono agevolmente convivere nello stesso partito, se i primi non vogliono espellere i secondi.

Sull’immigrazione, sui temi biopolitici, sulla questione più generale dell’identità culturale del partito e di quella costituzionale del Paese, il centrodestra può continuare a non concedere nulla al politicamente corretto, e insieme uscire dalla sindrome dell’assedio e da quella del rimpianto.

“Il ‘900 è finito con la vittoria della libertà” , recitava, citando Baget Bozzo, il titolo della tre giorni di Gubbio. E la celebrazione di questa libertà è culminata in un processo – non diciamo senza appello, ma con troppi accusatori e pochi difensori – alla “falsa” libertà di un mondo che ha smarrito il senso della dignità umana. Ma la libertà che dal 1989 ha dilagato nei paesi dell’ex impero sovietico (senza peraltro affermarsi ovunque come aveva previsto troppo ottimisticamente qualche teorico della fine della storia), “quale” libertà era? Non era forse quella “individualistica” e “relativistica” che molti reduci della schiavitù sovietica inseguivano nel costume, negli stili di vita e nello stesso modello politico dell’Occidente liberale reduce, a propria volta, dalle angosce della guerra fredda? Apprestandosi a celebrare la data che segnò la fine del cosiddetto secolo breve, non è intellettualmente troppo disinvolto liquidare come “falsa” quella libertà che i paesi ex sovietici e la stessa Russia spiavano al di là della cortina di ferro ed eleggere come vera quella capace di tornare, un po’ archeologicamente, alle proprie radici profonde, ai tesori del proprio passato, ad una età dell’oro che storicamente non è mai esistita?

Non penso, illuministicamente, che la storia umana muova necessariamente nella direzione di un’umanità migliore. Ma mi pare abbastanza dimostrabile che mai la persona umana è stata al centro della politica più di quanto è avvenuto nell’esperienza delle “democrazie relativistiche” dell’Occidente liberale del secondo dopoguerra. Forse che il rispetto e la dignità della persona umana erano maggiori nella Spagna di Franco “trono, spada ed altare” che in quella di Zapatero? Nell’America devotamente segregazionista, più che in quella dell’edonismo reaganiano? Nell’Italia spregiudicatamente concordataria dell’uomo della Provvidenza Benito Mussolini, più che in quella della legge Baslini-Fortuna sul divorzio?

Si può rileggere la storia delle idee, scartare idee nuove e riesumarne di vecchie. Ma senza trasformare la politica in un’inutile ancella della teologia morale. E senza barare, per esigenze di retorica: ad esempio, si può anche riesumare il vecchio slogan mazziniano “Dio, patria, famiglia”, ma mi pare assai arduo asservirlo ad un ideale di restaurazione tradizionalista.

Mi pare escluso che l’ideale religioso possa costituire un fondamento costituzionale di legittimazione politica, una “radice”, come usa dirsi, di insperati rigogli normativi. Ad escluderlo, oltre a molte ragioni di fatto e di diritto, è la banale constatazione che su quella trincea combattiamo le pretese dell’islamismo politico. O no?

La Patria, poi, oggi è davvero (anche nel cuore dei nostri soldati in Afghanistan) quella “costituzionale”, prima che quella nazionale. E’ il tricolore che sventola a Herat. E’ l’ideale politico universalistico della libertà e della dignità umana e coincide sempre meno con la difesa dei sacri confini della nazione e degli italiani “di sangue”. Ed è anche, come ha giustamente sottolineato Fini, l’ideale che “rende italiani” gli stranieri che scelgono di esserlo, impegnandosi ad esserlo davvero.

E la famiglia? La famiglia che dobbiamo difendere, ad esempio, dall’offensiva culturale maschilista dell’islamismo radicale è quella egualitaria post-divorzio e post-riforma del diritto di famiglia, mica quella con un capo-famiglia maschio e una moglie giuridicamente subordinata, che fino agli anni settanta è stata la bella famiglia italiana (e che agli islamici starebbe assai più comoda di quella contaminata dal femminismo). O vogliamo tornare a quella?

Negli anni settanta liberali, socialisti e anche molti cattolici – penso alle Acli – hanno cambiato il paese sfidando la Chiesa su quello che per allora era un valore non negoziabile, l’indissolubilità del matrimonio. Nessuno di noi, credo, anche di noi eletti del PdL che vivono liberamente e responsabilmente le loro relazioni, rimpiange la sconfitta di Almirante e Fanfani, o no? Archiviamo come “nichilismo anni settanta” anche quella stagione riformatrice che ha rifondato nella responsabilità e nella libertà le nostre famiglie (quelle reali – di ciascuno di noi, non quelle ideali – di nessuno)?

Qual è la tradizione cui vogliamo ancorare il PdL? Quella del delitto d’onore? Se posso scegliere, io preferisco quella dell’Occidente tollerante, quello della piena cittadinanza per gli omosessuali, anche attraverso il riconoscimento giuridico delle coppie conviventi.

Se invece in nome della centralità della persona nella politica e nel Governo intendiamo mettere al centro della nostra azione i problemi concreti e quotidiani con cui le persone si confrontano (sanità, scuola, trasporti, rifiuti, ambiente, casa, welfare, sicurezza), secondo i principi della libertà nella responsabilità, del mercato e della sussidiarietà, avremo un terreno comune su cui lavorare proficuamente al riparo delle dispute ideologiche ed etiche, evitando di dividerci tra la curva sud dei cattolici e quella nord dei laici. Sia chiaro: non dobbiamo rinunciare a ciò che ci divide, ma lavorare su ciò che ci unisce. Ma per fare questo, diciamo così, il disarmo deve essere bilaterale.


CREDITS: Libertiamo

Lettera dei deputati ex-AN al Presidente del Consiglio

''In qualità di deputati quotidianamente impegnati in Parlamento a sostenere l'attività del governo ci rivolgiamo a Te per rappresentarti un disagio che richiede un intervento al fine di armonizzare le varie anime politiche e parlamentari che si ritrovano nel Popolo della Libertà. Come sai siamo entrati determinati e convinti nella nuova formazione politica certi di poter costruire con Te il grande partito dei moderati italiani.

Tale percorso è coinciso con un favorevole momento elettorale che sta garantendo al Paese un governo capace di risolvere i problemi dei cittadini, anche grazie alla Tua leadership e alla Tua ineguagliabile 'politica del fare''. Il Popolo della Libertà deve conservare però la sua natura di partito del pensare, allenato alla discussione, avendo come priorità una solida e visibile democrazia interna. A tal fine riteniamo che sarebbe opportuno un patto di consultazione permanente tra Te e il cofondatore del Popolo delle Libertà Gianfranco Fini, al quale siamo politicamente e personalmente legati e con cui siamo entrati nel PdL e in Parlamento.

Riteniamo inoltre opportuno segnalarTi la necessità di tenere dei vertici di maggioranza che coinvolgano tutto il PdL, evitando la sensazione che dalle cene del lunedì venga fuori la linea dell'esecutivo e che questa sia di fatto condizionata dalla Lega a scapito del nostro partito''. ''C'è infine la necessità di strutturare il Pdl come un vero e proprio partito, a livello centrale e territoriale, facendo funzionare gli organi previsti dallo Statuto con periodicità e trovando in quella sede le soluzioni tra le varie posizioni di partenza su questioni a volte anche delicate che riguardano la coscienza dei singoli''.

''Ti sottoponiamo per ultima una questione non politica ma a nostro giudizio pericolosa e incomprensibile per gli effetti che produce. Ci riferiamo alle reiterate affermazioni offensive e calunniose de 'Il Giornale' diretto da Vittorio Feltri nei confronti di Fini''. ''Ferma restando la nostra convinzione sull'irreversibilita' del bipolarismo e sull'impossibilita' per chi come noi viene da An di prefigurare scenari di tipo diversi slegati dal Pdl e dalla Tua leadership, Ti preghiamo di intervenire quanto prima per evitare che tali problematiche possano causare un corto circuito interno al nuovo partito''.

lunedì 14 settembre 2009

Fare politica, oltre il presentismo

di Alessandro Campi

Gianfranco Fini non abbandonerà Silvio Berlusconi: non gli farà lo sgambetto fondando un suo nuovo partito e non darà una mano ai nemici di quest'ultimo annidati nel Palazzo, nelle redazioni dei giornali e nelle procure. E ciò non per le ragioni che suggerisce Feltri nel suo editoriale sul “Giornale” di oggi: perché diversamente, se non si decide a “rientrare nei ranghi”, anche lui e i suoi uomini verranno travolti dal fango, dai dossier anonimi e dal fuoco della calunnia a mezzo stampa. Ma per ragioni più serie e cogenti, di natura politica, che sfuggono o non sono ritenute importanti da chi ha deciso di derubricare la lotta politica a minaccia e ricatto.

La prima, sentimentale, è che quindici anni di collaborazione e di amicizia, di incontri che in alcune fasi sono stati persino quotidiani, non si cancellano d'un colpo, solo perché nel frattempo sono insorti divaricazioni e attriti. Riconoscenza e lealtà, si dice, non hanno nulla a che fare con i rapporti di potere, dove contano solo l'interesse e il tornaconto immediati, ma questo è il realismo dei cinici, che pensano di saperla lunga, di conoscere il mondo la storia e gli uomini, mentre in realtà hanno solo idee confuse e approssimative, finendo così per interpretare la politica a misura delle proprie miserie.

La seconda, più concreta e fattuale, è che Fini non ha alcuna convenienza ad apparire – ammesso sia mai stata questa la sua intenzione – come colui che colpisce alle spalle il suo antico alleato, per di più in un momento di sua oggettiva difficoltà e in una fase politicamente così turbolenta e magmatica, che sembra fatta apposta per favorire le peggiori avventure. L'elettorato non apprezzerebbe quello che a tutti gli effetti sarebbe un tradimento, un gesto estremo e imperdonabile, che in politica non ha mai portato fortuna a chi lo ha commesso.

La terza, quella dirimente, è che Fini – come lui va ripetendo, senza che nessuno si decida a prenderlo sul serio – sta conducendo una battaglia diversa – per contenuti e tempi di svolgimento – da quella che gli viene quotidianamente imputata: non una guerra di logoramento e d’usura ai danni del Cavaliere, che sarebbe in effetti un suicidio politico, ma appunto una battaglia di idee – e conseguentemente anche politica – finalizzata a due obiettivi di massima: da un lato, la creazione di un blocco sociale, politico e culturale che possa stabilizzare il berlusconismo, dandogli un futuro, e rendere permanenti le trasformazioni che hanno investito il sistema politico nell’ultimo quindicennio, a partire dal bipolarismo; dall’altro, la definizione di un orizzonte ideale, di un sistema di valori, di uno stile politico, diversi da quelli che caratterizzano attualmente il centrodestra, meno orientati al populismo e alla demagogia antipolitica, maggiormente aderenti al modo d’essere e di ragionare dei partiti e delle forze che si riconoscono nella famiglia del popolarismo europeo.

A Gubbio Fini è stato chiaro: il Popolo della libertà è e rimane il suo partito. Solo che lo vorrebbe diverso da come è attualmente. Al momento nulla più di un organigramma, all’interno del quale poco si discute e poco si decide. Un partito che la gente non vota, dice lo stesso Denis Verdini, uno dei suoi coordinatori, perché in realtà la gente vota solo e soltanto Silvio Berlusconi. Ma se le cose stanno così perché non chiuderlo direttamente? Che senso ha mantenere in piedi un simile apparato se si tratta solo di una copertura o di una messinscena, se ciò che conta – oggi, domani, sempre – è solo e soltanto la volontà di Berlusconi e la sua capacità di aggregare consenso qualunque cosa faccia e dica?

La verità è che tra i maggiorenti del partito, tra i fedelissimi di Berlusconi, ha preso piede nel corso del tempo un atteggiamento che si può solo definire nichilista e potenzialmente autodistruttivo. Il loro problema non è, forse non è mai stato, dare continuità storica al berlusconismo, farlo diventare una famiglia politica stabile, perpetuare un’eredità e dare un senso politicamente compiuto ad una stagione politica tra le più convulse e tuttavia esaltanti della recente storia italiana, ma cavalcare l’onda sino a che ci sarà Berlusconi. Brunetta, per fare un esempio, quest’atteggiamento lo ha apertamente teorizzato: io sono berlusconiano, ha scritto alla lettera qualche tempo fa, perché a me del dopo Berlusconi non me ne importa nulla. Dopo Silvio, dunque, venga pure il diluvio, tanto noi non ci saremo più e comunque a quel punto, quando la festa sarà finita, faremo altre cose. Nel frattempo, però, quanto ci siamo divertiti!

Bene, il problema di Fini, che è poi il problema dei moderati e della stessa politica italiana, è esattamente il contrario: far sì che dopo Berlusconi, quando sarà, non si torni al punto di partenza, non vincano i restauratori o i nostalgici della Prima Repubblica, non ci si trovi in un deserto di rovine, non si lasci campo libero al progetto disgregante perseguito con precisione chirurgica dalla Lega. E perché ciò accada, perché questi quindici anni di storia italiana non si risolvano dunque in una solitaria cavalcata nel deserto, avvincente quanto sterile, lo strumento del partito è a dir poco indispensabile.

Ma, appunto, un partito vero. Con un leader, certo, ma anche con una base militante, con dirigenti e quadri che trovino qualcuno a Roma disposto ad ascoltarli, con una sua autonoma piattaforma culturale, con molte anime e sensibilità al suo interno, tutte legittime e rispettose le une delle altre, come si conviene ad un partito che è nato per essere inclusivo e plurale, per parlare a quanti più italiani possibile, per imporre nella società italiana una presenza non effimera.

E invece questo partito, almeno per come appare sinora, è silente e inconsistente. Dovrebbe essere, perché a questo servono i partiti, la cinghia di trasmissione attraverso la quale stabilire un dialogo continuo e costruttivo con la società italiana nelle sue diverse articolazioni. Nella realtà, avendo sposato l’idea del partito carismatico-plebiscitario, inteso come semplice comitato elettorale, come forza d’urto da mobilitare solo in occasione di adunate propagandistiche e di scadenze alle urne, sta accadendo esattamente il contrario. Ciò che conta, ciò che si ritiene politicamente pagante, è solo il continuo appello al “popolo”, che è un’astrazione retorica, mentre si trascurano il radicamento nel territorio e il dialogo con le forze sociali organizzate, finendo così per aderire ad un’immagine falsata e sociologicamente primitiva della realtà italiana, percepita alla stregua di un magma indistinto, di un blocco destrutturato abitato da individui alla deriva, ai quali solo il carisma del capo può offrire un ancoraggio stabile. Peggio, nel convincimento che sia in corso una guerra politica all’ultimo sangue, con l’idea di dover difendere a spada tratta Berlusconi dai suoi molti nemici ovunque annidati, si è addirittura scelto di andare allo scontro frontale con qualunque forma di potere sociale organizzato. Si sospetta degli industriali perché dialogano con la Cigl. Si ritengono i sindacati un freno allo sviluppo economico. Si polemizza con la Chiesa solo perché, facendo il suo mestiere, invita a comportamenti morali gli individui. Si inveisce contro il culturame come ai tempi di Scelba. Si considerano i giornali un covo di sovversivi. Si mortifica il pubblico impiego con le campagne contro i fannulloni. Si inveisce contro il sistema bancario. Si vede nella magistratura una minaccia all’ordine costituito. Si impreca in modo indistinto contro i “poteri forti”. Si trascurano le forze dell’ordine per fare posto alle ronde. Si trattano gli immigrati, che sono ormai una presenza stabile nella società italiana, come ospiti indesiderati. Si tolgono risorse alla scuola nella convinzione che tanto i professori votino tutti a sinistra.

Insomma, stiamo assistendo allo strano spettacolo di un partito, il più grande in Italia e uno dei più grandi in Europa, che è attualmente al potere ma si comporta come una forza di minoranza, assediata e priva di respiro progettuale, senza una forza propria, in urto con il mondo intero. Un partito che senza accorgersene sta procedendo sulla strada dell’isolamento sociale, che prima o poi, quando non ci sarà più la magia di Silvio a far quadrare le cose, rischia a sua volta di diventare isolamento politico ed elettorale. Questo Fini sembra averlo capito e per questo vorrebbe un Pdl più dinamico e attivo, più strutturato e autonomo, meno condizionato in ogni suo atto dall’ombra del suo leader, che nessuno peraltro mette in discussione, più dialettico al suo interno ma anche maggiormente in grado di intrecciare relazioni, contatti, alleanze stabili con il mondo esterno, invece di stare a minacciare ogni giorno sfracelli e rappresaglie.

Questo, per chi lo abbia ascoltato con attenzione, è stato il senso autentico dell’intervento di Fini a Gubbio. Un invito al realismo e all’intraprendenza, alla sobrietà nello stile e al coraggio delle idee, un invito a fare politica fuori da una logica di continua emergenza, un invito a cambiare marcia affinché il Pdl, che resta una grande intuizione politica, ma le intuizioni debbono prima o poi concretizzarsi, possa dispiegare al meglio tutte le sue potenzialità.

Nonostante ciò – vuoi per malizia, vuoi per la soggettiva difficoltà di alcuni a distinguere tra le miserie della politica quotidiana e una critica che si vuole strategica e costruttiva – c’è chi continua a non capire, immaginando che dietro le parole del Presidente della Camera ci siano motivazioni recondite e inconfessabili. Fini è, come suole dirsi, un politico navigato. Sa bene, dunque, che le sue attuali posizioni rischiano di essere utilizzate in modo strumentale da chi, muovendosi a sua volta alla cieca, sembra avere in testa un solo obiettivo: liquidare Berlusconi a qualunque costo e con qualunque mezzo. Ma la fine traumatica di Berlusconi significherebbe la morte prematura del disegno strategico perseguito da Fini, disegno del quale si può ovviamente pensare tutto il male possibile, ma che non ha nulla a che vedere con le pazze geometrie politiche che vanno attualmente di moda sui giornali e nei corridoi del potere. In questa fase Fini sta incassando molti applausi a sinistra, una sinistra mai tanto confusa e priva di bussola, ma le sue parole, a leggerle con attenzione, hanno tutt’altro destinatario, appunto un centrodestra che invece di chiudersi a riccio dovrebbe puntare ad allargare i suoi attuali confini, e soprattutto obiettivi diversi da quelli sospettati o temuti. E questo esclude, se la politica mantiene ancora un minimo di razionalità, che egli possa prestarsi a manovre ed espedienti che peraltro rischiano di non portare a nulla e di aumentare l’attuale confusione, con danno gravissimo per la democrazia e per l’intero paese.

Stando così le cose, dispiace – ammesso il dispiacere sia una categoria politica – che le sue posizioni vengano ridotte a caricatura, che ogni sua uscita venga vissuta come un attacco o una provocazione all’interno del suo stesso campo. Dispiace, insomma, che non ci si renda conto che la sua non è una subdola battaglia contro la maggioranza di cui fa parte, ma un tentativo – discutibile, per carità, ma bisognerebbe avere il buon gusto di contestarne gli argomenti invece di ricorrere a segnali obliqui e a vaghe minacce, invece di fare continui processi alle intenzioni – teso a far crescere il centrodestra in una chiave autenticamente egemonica, a dargli un respiro europeo, a garantirgli, in primis attraverso lo strumento del partito, insostituibile in democrazia, un futuro politico e uno stabile radicamento della società. Con Berlusconi, oggi, oltre Berlusconi (e oltre lo stesso Fini), domani. Che non lo capisca Feltri, ci può anche stare: è un giornalista e il suo obiettivo non è fare politica, ma vendere più copie del giornale che dirige. Che non lo capiscano Berlusconi, i berlusconiani e i maggiorenti del Pdl, prigionieri dell’eterno presente che ormai ne condiziona ogni pensiero e azione, vittime della sindrome da complotto che essi stessi stanno irresponsabilmente alimentando, questo sì che è davvero preoccupante. Per il centrodestra, per l’Italia.


CREDITS: FareFuturoWebMagazine

venerdì 11 settembre 2009

9/11: NEVER FORGET






giovedì 10 settembre 2009

Se Fini insiste, il PdL non si sfascia, ma forse nasce

Lo scontro politico tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Camera non farà male al Pdl. Potrebbe fargli bene, o potrebbe non fargli nulla – e questa sarebbe forse l’ipotesi peggiore. Se il Congresso dello scorso marzo ha costituito formalmente il Pdl, il suo atto di nascita politico potrebbe portare la data del 10 settembre 2009. Non serve più chiamare equivoci i dissensi, non è più necessario chiamare incomprensioni gli attacchi: né per chi attacca, né per chi si difende. Si può tranquillamente dire che non va tutto bene, proprio perché non va tutto male, e la rinuncia al silenzio e all’accomodamento non prelude alla congiura.

Non ci sono i barbari alle porte, non c’è più la Crisi con la maiuscola (rimane quella con la minuscola, che accompagna da 15 anni i bassi tassi di crescita della nostra economia), non ha più senso invocare un clima di emergenza permanente, che giustifichi la gestione eccezionale e puramente “governista” della discussione interna al partito. Putroppo non c’è un’opposizione concorrenziale e questa è una vera sciagura non solo per il centro-sinistra, ma anche per il centro-destra. Comunque, ora c’è tutto il tempo e il modo per scornarsi, per riconoscersi le ragioni e per rinfacciarsi i torti, per aprire i dossier su quello che sarà questo Paese nei prossimi decenni e per pensare il Pdl nel lungo periodo, quando le cose – giocoforza – non potranno iniziare e finire nelle cene del lunedì tra Silvio ed Umberto, e anche Fini, che non è Berlusconi e non intende diventarlo, non potrà affermare la propria leadership in modo berlusconiano, e non potrà giocare a fare l’uomo solo al comando.

Benedetto Della Vedova


CREDITS: Libertiamo

Ora di religione, Nucara: proposta inaccettabile

"La proposta dell'ora di religione come materia con status di disciplina scolastica è inaccettabile e mette in questione il Concordato". Lo ha dichiarato il segretario del Pri Francesco Nucara. "Se il Vaticano vuole insegnare la religione cattolica in Italia può farlo nelle sue scuole private, non certo imporla nella scuola di Stato a chi appartiene ad altra fede o non ne ha alcuna".


CREDITS: PRI

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Pienamente d'accordo con l'on. Nucara, ormai Oltretevere hanno passato ogni limite di decenza.

A tal proposito, che qualcuno si esprima chiaramente contro la Ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, che s'è detta d'accordo con la proposta... :(

Patriottismo costituzionale, fede nel diritto e pluralismo religioso

La tematica del patriottismo costituzionale o, per citare un famoso libro del Prof. Sanford Levinson, della “Fede costituzionale” agita da un po’ di tempo le acque del dibattito pubblico. Il sottile tessuto sociale capace di tenere insieme gruppi ed individui diversi (economicamente, religiosamente, politicamente) è giorno dopo giorno sottoposto agli strattoni di una società dove la frantumazione della solidarietà civica è sempre più evidente.
Sofia Ventura ha già elencato nel suo intervento per Libertiamo i problemi che il nostro Paese si trova ad affrontare su tutti questi piani tentando di individuare possibili soluzioni. Soluzione principe, avallata anche dal presidente della Camera Gianfranco Fini, è quella del patriottismo costituzionale.
Non mi interessa affrontare in questa sede il perenne dibattito sulle modifiche da apportare alla Costituzione. Thomas Jefferson, parlando degli Stati Uniti d’America, aveva già sottolineato come una società in perenne mutamento abbia ogni tanto bisogno di controllare il suo guardaroba e, se necessario, di rinnovarlo.
Quello che può esser interessante sottolineare è la dimensione più ampia del patriottismo costituzionale o della religione civile per utilizzare la famosa formula ripresa da Robert Bellah.
Non solo Costituzione dunque, ma una ben più ampia rete di simboli, gesti e percezioni. Diverse dimensioni dunque. Ma ve ne è una di peculiare importanza per il contesto italiano: quella religiosa.
In primis esiste una dimensione religiosa del diritto. Quando l’esito del procedimento legislativo è interpretato solo come il risultato della perenne guerra fra bande viene meno la possibilità di una “fede nel diritto”. L’effettiva possibilità di una reale efficacia delle soluzioni legislative dipende anche da una possibilità di credere nella giustizia del procedimento legislativo. Una questione di fede dunque. Di fede costituzionale. Un discorso non secondario nell’economia del discorso in merito al patriottismo costituzionale.
Naturalmente in Italia è altra la dimensione religiosa che emerge nel dibattito pubblico. Tema centrale è il ruolo del cattolicesimo in Italia. Ed il nodo da sciogliere riguarda il possibile ruolo che il cattolicesimo dovrebbe giocare nell’ottica di un possibile patriottismo costituzionale. Sofia Ventura ha già sottolineato come l’appartenenza ad una confessione religiosa non possa divenire criterio di discriminazione per identificare l’appartenenza ad una comunità politica. “Le istituzioni pubbliche non possono identificarsi con le pratiche e le credenze di una religione senza lanciare un messaggio ai non aderenti che essi non sono membri a pieno titolo della comunità politica”, scriveva un giudice della Corte Suprema U.S.A. a fine anni ’80. Nulla di più vero. Il tentativo di fare del cattolicesimo la religione civile del Paese, portato avanti anche da alcuni membri della gerarchia cattolica, è destinato a fallire. Non è capace di includere il crescente numero di immigrati che non si identificano con la religione di maggioranza. Inoltre non rispetta il ruolo, l’importanza e la tradizione di una grande religione universale.
La necessità di un confronto su queste tematiche è sempre più urgente. Mi permetto di suggerire al Presidente Fini di provare a recuperare una preziosa iniziativa che Giuliano Amato aveva battezzato durante la scorsa legislatura: la consulta giovanile per il pluralismo religioso.
Il confronto fra giovani italiani di diverse religioni, ma tutti cittadini dello stesso Paese, contribuisce a creare quella fede nel diritto di cui questo Paese ha tanto bisogno. Almeno lo speriamo.

Pasquale Annicchino - Nato a Maratea (PZ) il 13 Dicembre 1982, vive a Siena. E’ dottorando di ricerca in Jus Publicum Europaeum presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Siena. Presso la stessa università è anche junior fellow nell’ambito del Law and Religion Programme coordinato dal Prof. Marco Ventura. Fa parte dell’Organizing Committee della International Summer School in Law and Religion.


CREDITS: Libertiamo

La partecipazione agli utili porta dritto alla cogestione. Intervista ad Adriano Teso

Partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa. Non si tratta di una proposta nuova, se pensiamo che già il Congresso del partito fascista repubblicano l’aveva inclusa al punto 12 del Manifesto di Verona del 1943. Provocazioni a parte, questa volta il Governo sembra fare sul serio: “entro la fine dell’anno”, ha dichiarato Maurizio Sacconi. E’ da un anno circa che il ministro del Welfare pensa ad un provvedimento normativo che incentivi la distribuzione di una parte degli utili d’impresa ai dipendenti, e non gli è parso vero che il suo collega Tremonti abbia rilanciato con vigore la misura.
A fronte di un consenso politico trasversale particolarmente robusto, corroborato dalla disponibilità di Cisl, Uil e Ugl (non della Cgil, quindi), Libertiamo si trova nella spiacevole ma non inconsueta condizione di bastian contrario. Non sono pochi i dubbi che esprimiamo sulla misura, tanto che abbiamo deciso di seguire la questione nel dettaglio e – se necessario – di condurre una battaglia autenticamente liberale nei prossimi mesi, durante la discussione parlamentare sul provvedimento che l’esecutivo pare intenzionato a varare. Sulla faccenda abbiamo intervistato Adriano Teso, imprenditore, già sottosegretario per il lavoro e la previdenza sociale e socio fondatore di Libertiamo.
AT. Anzitutto c’è un equivoco di fondo: l’utile non è dato dalla produttività del singolo lavoratore, di un ufficio o di una data area organizzativa. L’utile è il risultato di un mix estremamente vario di fattori, sia interni che esterni all’azienda. Chi pensa che la partecipazione agli utili possa essere una leva significativa per l’aumento della produttività, si sbaglia di grosso, non conosce la realtà produttiva. Affinché un incentivo sia efficace, esso deve essere riguardare in modo specifico l’attività che il lavoratore svolge, non certo il risultato complessivo dell’azienda. E parlo anche nell’interesse degli stessi lavoratori.

PCF. D’accordo, ma come risponde a quanti sostengono che la partecipazione permetterebbe un miglioramento delle relazioni industriali, considerato da alcuni un asset fondamentale in tempo di crisi?

AT. Rispondo che, al contrario di quanto pensano costoro, la compartecipazione agli utili complica i rapporti tra proprietà e lavoratori e mette a rischio una gestione razionale e lungimirante dell’azienda. Le spiego: la formazione dell’utile è il frutto di una strategia complessa, fatta di scelte in materia di investimenti, di finanza aziendale, di tempi. Si può privilegiare il conseguimento di un utile a medio-lungo termine – magari investendo in ricerca e sviluppo – a scapito di un risultato di breve periodo, oppure si può pensare di fare esattamente l’opposto. In un caso o nell’altro, è chiaro che la partecipazione agli utili dei dipendenti rappresenta una variabile di complessità e di rischio ulteriore.

PCF. Insomma, da un lato ci si chiede come ovviare ai problemi di corporate governance del nostro sistema capitalistico, dall’altro li si vuole complicare… Da quel che ho capito, Lei è contrario anche alla proposta di mediazione di coloro che dicono: sì alla partecipazione agli utili, ma no alla cogestione sul modello tedesco.

AT. Guardi che la partecipazione agli utili conduce direttamente alla cogestione, soprattutto in un paese pieno di aziende di piccola e media taglia. Una follia, vero? E gli imprenditori, in tutto questo, vivono nella spiacevole condizione di vedere questi stregoni pasticciare a loro danno, intellettuali che non sanno nemmeno cosa voglia dire guidare un’azienda. A me pare che la proposta di partecipazione agli utili venga vista da qualcuno come una soluzione facile per un problema difficile.

PCF. Proporre soluzioni facili per problemi complessi: mi viene alla mente la parola “populismo”. Ma lasciamo perdere… Qual è il problema?

AT. I salari sono bassi, è inutile negarlo, ma la responsabilità è delle tasse e del sistema di contrattazione. Ma anziché puntare alla liberalizzazione contrattuale e ad una riduzione della pressione fiscale, da realizzare con una politica rigorosa di tagli di spesa pubblica, il Governo pensa di imporre alle imprese il pagamento di un ulteriore balzello. Questo è, se ci si riflette.

PCF. Il suo ragionamento è questo: per irrobustire i salari, bisognerebbe spostare la contrattazione a livello aziendale e…

AT. Scusi… individuale sarebbe meglio. Da un lato l’imprenditore-cliente, dall’altro il collaboratore-fornitore di servizi… qui ci vuole un cambio di mentalità vero… E poi, si abbia il coraggio di dire che è lo Stato ad espropriare il lavoratore di una parte importante del proprio reddito. Si veda la differenza di quanto all’impresa costa un lavoratore e di quanto arriva a fine mese sul conto corrente di quest’ultimo.

PCF. Va bene… dicevamo: bisognerebbe riformare la contrattazione e ridurre le tasse. Tremonti e Sacconi, invece, pensano di risolvere il problema dei salari imponendo una nuova tassa mascherata sugli utili d’azienda. E poi, diciamocela tutta: la partecipazione agli utili dei lavoratori non “redistribuisce” risorse dal ricco e spietato padrone in favore dell’operaio. La misura colpirà piccoli e piccolissimi imprenditori e, per le società quotate, metterà l’uno di fronte all’altro il lavoratore e il piccolo risparmiatore, a sua volta lavoratore di un’altra azienda.

AT. Mi permette un’ultima considerazione?

PCF. Anche due…

AT. Mi chiedo: ma che bisogno c’è di legiferare su una cosa del genere? Qualcuno pensa che oggi sia forse vietato per un imprenditore far partecipare i lavoratori agli utili? Si dica chiaro e tondo che il progetto è quello di imporre la partecipazione e, in prospettiva, la cogestione. Ancora, è forse vietato oggi per un lavoratore diventare azionista dell’impresa in cui è impiegato?

PCF. Ha ancora una considerazione a Sua disposizione…

AT. E la sfrutto, allora! Di questa proposta, il Pdl non ha mai parlato in campagna elettorale. Per me questo vuol dire tradire gli elettori, in particolare quei milioni di italiani che continuano a votare il centrodestra sulla promessa della riduzione delle tasse.

Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo


CREDITS: Libertiamo

mercoledì 9 settembre 2009

Fini vs. Cav

Nell'ennesimo episodio di contrapposizione tra Silvio Berlusconi (Presidente del Consiglio dei Ministri)e Gianfranco Fini (Presidente della Camera dei Deputati), questa volta il livello di scontro è davvero alto. Non si tratta più, infatti, della cosiddetta "sindrome del delfino perenne", ma di una visione del partito, della Destra, dello Stato che cozzano tra loro. Il problema, in questa vicenda, è che ci sono tre tipi di "schieramento": chi la pensa genuinamente come Fini, chi la pensa genuinamente come Berlusconi, chi NON pensa proprio, ma sa dire sempre solo e soltanto "sissignore". Nei due articoli che seguono, una panoramica sulla vicenda. Il primo dà una simpatica e gioviale spiegazione dei fatti, il secondo fa capire -a chi nn l'ha ancora colto- quale sia il mio pensiero...


Lo scontro Fini – Berlusconi spiegato a mia mamma


Cara Mamma,

non credere a Feltri, che non crede a nulla e ci sta simpatico anche per questo. Fini non è diventato di sinistra. Se te lo spiego in politichese non capisci e non lo capisco bene neanche io, anche perché non è proprio uno scontro politico, ma è piuttosto un incidente stradale.

A Fini quasi 15 anni fa non solo Berlusconi ma l’Italia berlusconiana (votando in massa per l’editore dei Puffi e di Drive In, che voleva abbassare le tasse e combattere i moralisti e i comunisti) spiegò che la destra italiana non solo non doveva più essere fascista, ma non poteva neppure più essere puramente conservatrice. Che per conservare il buono, bisognava buttare un sacco di simbologie, di pregiudizi, di cattive abitudini: quella all’invidia sociale e quella all’ipocrisia sociale, quella di mettere a debito ai figli l’egoismo dei padri, e quella di far pagare ai cittadini il moralismo interessato dei legislatori.

Fini ha capito la strada ed è partito. La storia del centro-destra europeo gli ha confermato che la direzione era quella giusta e ora è lanciato come un siluro. E che succede: succede che quel diavolo del Cavaliere, mentre stava per essere raggiunto, ha prima inchiodato e poi messo la retromarcia. Capito? La retromarcia! Pum! Feltri si è travestito da vigile urbano, è accorso sul luogo dello scontro e ha fatto la multa a Fini, dicendo che sulla strada del centro-destra in Italia si deve procedere al contrario, perché il Presidente Guidatore ha deciso così e il popolo automobilista gradisce. Vagli a spiegare che guidare in retromarcia è molto più pericoloso, e non porta lontano. Giusto a parcheggiarsi da qualche parte.

Ora tu mi chiederai perché il Cavaliere ha messo la retromarcia e ha deciso di parcheggiare il centro-destra vicino al punto da cui era partito. Ma a questa domanda quel pesce lesso di tuo figlio non sa ancora rispondere.

Ciao

Carmelo Palma - 40 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it

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Fini come Ugo La Malfa: un politico presbite, che guarda al futuro e parla alla testa

Fior di notisti ed analisti hanno scandagliato le ragioni del veemente e scomposto attacco del neodirettore del Giornale al Presidente della Camera. Mi pare però che non sia stata colta la ragione di fondo. D’altronde la nostra stampa politica è abituata e costretta a seguire la “politica politicante” e fatica invece a cogliere le ragioni di chi tenta di fare la vera politica, ispirandosi ai valori del “patriottismo costituzionale”. Il parametro della politica corrente è il minuto, o i trenta secondi, che separano il penultimo dall’ultimo flash di agenzia di stampa rilanciato dal Telpress: un habitat in cui evidentemente Feltri sguazza.

Mi sembra invece che Fini abbia scelto altri parametri. Circondato da una folla di politici miopi pronti a guardare solo a brevissima distanza, ha adottato la parte del “presbite” e in mezzo a tanti colleghi abituati a parlare alla pancia dei cittadini, sta da tempo tentando di parlare ai cervelli della gente, ben consapevole della impopolarità provvisoria che ne può derivare.

Ad esempio, mi colpì molto l’impianto del suo discorso al congresso di fondazione del PdL. In quel testo egli collocava nella cornice del patriottismo costituzionale tre nuovi patti fondamentali per il paese: un patto tra Nord e Sud (un tema sino a quel momento dimenticato da tutti); un patto tra giovani e anziani (più che mai indispensabile in una “società mangiagiovani”); un patto tra capitale e lavoro.

Tre obiettivi necessariamente di medio periodo, che necessitano di politiche “presbiti”, ma che incidono sulla carne viva dei veri problemi della società italiana. Analogamente, in un paese che ha di fronte un pericolosissimo “trabocchetto demografico”, il Presidente della Camera mostra il coraggio di trattare gli immigrati di ieri, di oggi e di domani, non come un problema, ma come una risorsa cruciale per gli equilibri demografici attuali e futuri, e quindi per l’economia e la società italiana.

Credo di poter cogliere che una parola tra le più ricorrenti nei suoi discorsi è “futuro”, come sta nel logo della sua Fondazione. Un esercizio non facile da condurre in mezzo a politici, e non pochi giornalisti, ipotecati o condizionati dai problemi del passato, poco capaci di cogliere i veri problemi del presente e completamente privi di occhiali idonei per guardare al futuro. Per farlo, infatti, occorre il coraggio di “andare contropelo”, e non di lisciare il pelo agli elettori, di parlare alla ragione e non alla pancia dei cittadini.

Feltri, che certamente, tra i direttori dei giornali che parlano alla pancia dei lettori è il più bravo, viaggia evidentemente su una lunghezza d’onda che non è quella di chi cerca di raggiungere la testa dei cittadini, correndo in modo consapevole anche il rischio di più o meno provvisorie impopolarità.
Ho avuto la fortuna di essere stato, a suo tempo, allievo di Ugo La Malfa, che dei politici presbiti è stato il capofila, e so quanto il Paese abbia, oggi più che mai, bisogno di figure di questo genere.

Luigi Tivelli - Consigliere parlamentare della Camera dei deputati, docente ed esperto di amministrazione pubblica ed autore di numerose pubblicazioni e libri in materia amministrativa, giuridica, economica e politologica. E’ editorialista del Messaggero e del Mattino.


CREDITS: Libertiamo