Regole di funzionamento del partito e scelta del leader. E’ il tempo del Pdl.
Alle elezioni per il segretario del Partito democratico ha partecipato un numero di elettori pari al 23 per cento di quanti avevano votato per il Pd alle elezioni politiche del 2008 e, come ha osservato Ilvo Diamanti su Repubblica, un elettore del Pd alle europee del 2009 su tre. Il dato è importante: se accanto ai quasi tre milioni che si sono recati ai seggi per questa consultazione “interna” si aggiungono le decine di migliaia di volontari che hanno permesso alla macchina di funzionare, non si può non concludere che il maggior partito della sinistra italiana ha fornito, pur nella profonda crisi che lo attraversa, un bell’esempio di democrazia ed anche un segnale di vitalità da non sottovalutare.
Poiché quanto accade in una parte del sistema politico può produrre conseguenze su altre parti, non è da escludere che l’esperienza del Pd possa avere ricadute anche sul versante destro dello schieramento politico. E’ abbastanza consueto che cambiamenti in un partito inneschino mutamenti conseguenti in altri partiti. In fondo, in Italia, è già già successo quando Berlusconi – in risposta alla nascita del Pd veltroniano – spinse l’acceleratore sull’unificazione della destra italiana, poi scaturita nella nascita del Popolo delle Libertà. Potrebbe accadere di nuovo? E sarebbe utile che accadesse? Se alla seconda domanda ritengo si possa rispondere di sì senza indugi (vedremo tra breve perché), alla prima è più difficile trovare una risposta. Nel caso della creazione del Pdl fu innanzitutto la volontà del leader di Forza Italia a svolgere un ruolo cruciale. Oggi è più difficile che l’input per un rinnovamento delle regole interne del Pdl, specialmente se queste regole sono pensate “anche” per il dopo-Berlusconi, possa provenire dal premier, poiché questo tipo di innovazione non è, se così si può dire, “nelle sue corde”. Affinché l’effetto “imitazione” possa prodursi, dunque, è necessario che altri nel Pdl si assumano l’onere di porre la questione al centro dell’”agenda” del partito e di convincere l’oligarchia pidiellina della necessità di avviare una riflessione sulle regole cruciali di funzionamento del partito stesso.
Ma perché dovrebbero farlo? E veniamo così alla seconda domanda che ci siamo posti: perché sarebbe utile trarre spunto dall’esperienza del Pd per introdurre innovazioni nel Pdl? La questione più rilevante che, a questo proposito, si pone riguarda la scelta del leader del partito. La reazione, un po’ meccanica, che ci si può aspettare dall’interno del partito è quella secondo cui che il Pdl non ha al momento problemi di leadership, dotato com’è di una guida salda ed indiscussa. Vero, ma solo in una prospettiva di breve periodo. Se, invece, si vuol guardare un po’ oltre l’oggi, ci si renderà conto che riflettere già nella fase attuale, con Berlusconi saldamente alla guida del partito, su come procedere in futuro alla scelta del leader, può avere innegabili vantaggi, innanzitutto quello di non sovrapporre la definizione delle regole con la lotta per la successione.
Sarebbe naturalmente ingenuo non considerare che, già oggi, la costruzione di un sistema di regole verrebbe condizionata dai nomi dei possibili successori, ognuno dei quali agirebbe per ottenere modalità di scelta del leader più “consone” al proprio tornaconto. Tuttavia, affrontando oggi la questione, ci si troverebbe comunque in uno stato di maggiore incertezza rispetto alle situazioni e condizioni future; nessuno potrebbe essere certo delle conseguenze delle diverse opzioni in campo e, dunque, il confronto sarebbe meno conflittuale. Sarebbe molto diverso se il problema della successione dovesse essere affrontato solo nel momento in cui Berlusconi decidesse di ritirarsi dalla vita politica. Non solo si sarebbe colti impreparati, ma il confronto diverrebbe un vero e proprio scontro: l’alta conflittualità potrebbe avere conseguenze nefaste per il partito (tanto più se l’opzione centrista alla quale stanno lavorando i vari Rutelli, Casini e compagnia dovesse in qualche modo prendere forma, fornendo così anche un’opzione di “exit” agli scontenti).
Ciò detto, vale la pena chiedersi se davvero sarebbe utile il ricorso a forme di elezione diretta del presidente del partito, a partire dagli iscritti o, come nel caso del Pd, dai simpatizzanti. In diversi partiti europei la democrazia diretta è divenuta l’altra faccia della medaglia della cosiddetta “presidenzializzazione”; essa fornisce maggiore legittimità a leader che sempre più concentrano nelle loro mani il potere di decisione e garantisce che queste leadership non scaturiscano da alchimie di partito, da negoziati tra piccoli o grandi oligarchi, ma godano di un favore ampio tra l’elettorato. Una condizione che è maggiormente garantita dal ricorso a consultazioni “aperte”, che cioè coinvolgono coloro che si sentono e si dichiarano sostenitori del partito, com’è stato il caso del Partito democratico. Non a caso, per questo specifico aspetto, l’esperienza del Pd è guardata con interesse da altri partiti della sinistra europea.
Se si accettasse questo “spirito”, questa impostazione, si potrebbe poi utilmente allargare il ricorso alla democrazia interna per fornire al partito stesso maggiore vitalità e un consenso più solido tra gli elettori. Ad esempio, estendendo l’elezione diretta alle cariche locali, che oggi nel Pdl continuano ad essere espressione del vertice, con la conseguente sclerotizzazione della vita del partito sul territorio. O, ancora, per fornire un’immagine del partito meno oligarchica e chiusa, per avvicinarlo maggiormente ai cittadini, sarebbe saggio ovviare al grave difetto dell’attuale legge elettorale (che nella maggior parte dei casi fa dei parlamentari dei veri e propri “nominati”), adottando meccanismi che contemplino, accanto al necessario ruolo di selezione svolto dal partito, anche il ricorso al consenso dei simpatizzanti per l’individuazione dei candidati e per il loro posizionamento nelle liste.
Insomma, l’esempio e la “sfida” del Partito democratico andrebbero presi molto seriamente, poiché in questo caso, crediamo, processi d’imitazione potrebbero davvero rivelarsi “virtuosi”.
Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.
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