giovedì 29 ottobre 2009

Regole di funzionamento del partito e scelta del leader. E’ il tempo del Pdl.

Alle elezioni per il segretario del Partito democratico ha partecipato un numero di elettori pari al 23 per cento di quanti avevano votato per il Pd alle elezioni politiche del 2008 e, come ha osservato Ilvo Diamanti su Repubblica, un elettore del Pd alle europee del 2009 su tre. Il dato è importante: se accanto ai quasi tre milioni che si sono recati ai seggi per questa consultazione “interna” si aggiungono le decine di migliaia di volontari che hanno permesso alla macchina di funzionare, non si può non concludere che il maggior partito della sinistra italiana ha fornito, pur nella profonda crisi che lo attraversa, un bell’esempio di democrazia ed anche un segnale di vitalità da non sottovalutare.
Poiché quanto accade in una parte del sistema politico può produrre conseguenze su altre parti, non è da escludere che l’esperienza del Pd possa avere ricadute anche sul versante destro dello schieramento politico. E’ abbastanza consueto che cambiamenti in un partito inneschino mutamenti conseguenti in altri partiti. In fondo, in Italia, è già già successo quando Berlusconi – in risposta alla nascita del Pd veltroniano – spinse l’acceleratore sull’unificazione della destra italiana, poi scaturita nella nascita del Popolo delle Libertà. Potrebbe accadere di nuovo? E sarebbe utile che accadesse? Se alla seconda domanda ritengo si possa rispondere di sì senza indugi (vedremo tra breve perché), alla prima è più difficile trovare una risposta. Nel caso della creazione del Pdl fu innanzitutto la volontà del leader di Forza Italia a svolgere un ruolo cruciale. Oggi è più difficile che l’input per un rinnovamento delle regole interne del Pdl, specialmente se queste regole sono pensate “anche” per il dopo-Berlusconi, possa provenire dal premier, poiché questo tipo di innovazione non è, se così si può dire, “nelle sue corde”. Affinché l’effetto “imitazione” possa prodursi, dunque, è necessario che altri nel Pdl si assumano l’onere di porre la questione al centro dell’”agenda” del partito e di convincere l’oligarchia pidiellina della necessità di avviare una riflessione sulle regole cruciali di funzionamento del partito stesso.

Ma perché dovrebbero farlo? E veniamo così alla seconda domanda che ci siamo posti: perché sarebbe utile trarre spunto dall’esperienza del Pd per introdurre innovazioni nel Pdl? La questione più rilevante che, a questo proposito, si pone riguarda la scelta del leader del partito. La reazione, un po’ meccanica, che ci si può aspettare dall’interno del partito è quella secondo cui che il Pdl non ha al momento problemi di leadership, dotato com’è di una guida salda ed indiscussa. Vero, ma solo in una prospettiva di breve periodo. Se, invece, si vuol guardare un po’ oltre l’oggi, ci si renderà conto che riflettere già nella fase attuale, con Berlusconi saldamente alla guida del partito, su come procedere in futuro alla scelta del leader, può avere innegabili vantaggi, innanzitutto quello di non sovrapporre la definizione delle regole con la lotta per la successione.

Sarebbe naturalmente ingenuo non considerare che, già oggi, la costruzione di un sistema di regole verrebbe condizionata dai nomi dei possibili successori, ognuno dei quali agirebbe per ottenere modalità di scelta del leader più “consone” al proprio tornaconto. Tuttavia, affrontando oggi la questione, ci si troverebbe comunque in uno stato di maggiore incertezza rispetto alle situazioni e condizioni future; nessuno potrebbe essere certo delle conseguenze delle diverse opzioni in campo e, dunque, il confronto sarebbe meno conflittuale. Sarebbe molto diverso se il problema della successione dovesse essere affrontato solo nel momento in cui Berlusconi decidesse di ritirarsi dalla vita politica. Non solo si sarebbe colti impreparati, ma il confronto diverrebbe un vero e proprio scontro: l’alta conflittualità potrebbe avere conseguenze nefaste per il partito (tanto più se l’opzione centrista alla quale stanno lavorando i vari Rutelli, Casini e compagnia dovesse in qualche modo prendere forma, fornendo così anche un’opzione di “exit” agli scontenti).

Ciò detto, vale la pena chiedersi se davvero sarebbe utile il ricorso a forme di elezione diretta del presidente del partito, a partire dagli iscritti o, come nel caso del Pd, dai simpatizzanti. In diversi partiti europei la democrazia diretta è divenuta l’altra faccia della medaglia della cosiddetta “presidenzializzazione”; essa fornisce maggiore legittimità a leader che sempre più concentrano nelle loro mani il potere di decisione e garantisce che queste leadership non scaturiscano da alchimie di partito, da negoziati tra piccoli o grandi oligarchi, ma godano di un favore ampio tra l’elettorato. Una condizione che è maggiormente garantita dal ricorso a consultazioni “aperte”, che cioè coinvolgono coloro che si sentono e si dichiarano sostenitori del partito, com’è stato il caso del Partito democratico. Non a caso, per questo specifico aspetto, l’esperienza del Pd è guardata con interesse da altri partiti della sinistra europea.

Se si accettasse questo “spirito”, questa impostazione, si potrebbe poi utilmente allargare il ricorso alla democrazia interna per fornire al partito stesso maggiore vitalità e un consenso più solido tra gli elettori. Ad esempio, estendendo l’elezione diretta alle cariche locali, che oggi nel Pdl continuano ad essere espressione del vertice, con la conseguente sclerotizzazione della vita del partito sul territorio. O, ancora, per fornire un’immagine del partito meno oligarchica e chiusa, per avvicinarlo maggiormente ai cittadini, sarebbe saggio ovviare al grave difetto dell’attuale legge elettorale (che nella maggior parte dei casi fa dei parlamentari dei veri e propri “nominati”), adottando meccanismi che contemplino, accanto al necessario ruolo di selezione svolto dal partito, anche il ricorso al consenso dei simpatizzanti per l’individuazione dei candidati e per il loro posizionamento nelle liste.

Insomma, l’esempio e la “sfida” del Partito democratico andrebbero presi molto seriamente, poiché in questo caso, crediamo, processi d’imitazione potrebbero davvero rivelarsi “virtuosi”.

Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.


CREDITS: Libertiamo

...e il Comitato sai ke fa?!

COMITATO PDL PER LA POLITICA ECONOMICA: I nomi dei 9 componenti
29 ottobre 2009 ore 14:31

A seguito dei colloqui con il presidente Berlusconi e su suo incarico, i tre Coordinatori nazionali del Popolo della Libertà, Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini, hanno incontrato il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, insieme al quale hanno stabilito la composizione del Comitato del PdL per la Politica economica, presieduto dallo stesso on. Tremonti.

Ne faranno parte i suddetti coordinatori nazionali, i capigruppo di Camera e Senato, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, i vice capigruppo vicari, Italo Bocchino e Gaetano Quagliariello, e il responsabile della Consulta Finanze, Marco Milanese. Di volta in volta, e a seconda degli argomenti trattati, potranno essere invitati ai lavori del comitato i ministri interessati nonché i presidenti delle Commissioni competenti di Camera e Senato.

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In pratica, su 9 elementi, tolti i "capoccia" del partito (la Triade + "la Banda dei Quattro"), rimangono Tremonti stesso e quello ke viene indicato come il fedelissimo tra i fedelissimi...e le altre voci "economiche"?! I Baldassarri, i Martino, ecc.?!

Fatto così il comitato somiglia proprio a cioè ke è: la "camera caritatis" dello scontro tra il partito e il tributarista di Sondrio...

domenica 25 ottobre 2009

Su scuola e Islam, Urso è troppo concordatario. Servono soluzioni nuove

Cattolicesimo, Islam, pluralismo e insegnamento religioso: la proposta di Adolfo Urso di inserire nelle nostre scuole anche l’insegnamento della religione islamica, con lo stesso spirito con cui è impartito l’insegnamento della religione cattolica, ha aperto nuovi fronti di discussione che, laddove non siano animati da pregiudizi e ostilità preconcette, rappresentano momenti importanti di riflessione sul futuro della nostra società.

La proposta può essere discussa su diversi piani e tutt’altro che irrilevante è quello pratico, ovvero quello relativo alle modalità attraverso le quali si potrebbe dare seguito e applicazione alla proposta di un insegnamento della religione islamica nelle scuole. Sul tema già molti si sono espressi e hanno segnalato le enormi difficoltà che una tale proposta incontrerebbe sulla propria strada, a partire dall’assenza di un intesa con l’Islam italiano e dagli ostacoli oggettivi che si frappongono al raggiungimento di una tale intesa (chi rappresenta l’Islam in Italia?).



Ma non è questo il piano che a mio avviso deve essere prioritariamente affrontato. Ben più importante è la riflessione che bisognerebbe avere il coraggio e l’onestà intellettuale di compiere “a monte”, ovvero la riflessione su quale tipo di società vogliamo costruire a fronte della sfida posta dall’immigrazione e dalla necessaria integrazione di persone portatrici di culture profondamente diverse dalla nostra.

Premetto subito, per poi procedere ad argomentare, che proprio in questa prospettiva la proposta del sottosegretario Urso non mi piace e ciò a partire dalla convinzione, che ho maturato nel tempo riflettendo sui temi dell’individuo, delle comunità, dell’integrazione e del multiculturalismo, che per reggere alle sfide di cui si diceva sopra sia necessario favorire il libero dispiegarsi di una società plurale nella cornice di uno Stato “neutrale”. Ovvero, non è lo Stato a dover divenire pluralista, pena la sua trasformazione da garante delle libertà e dei diritti di tutti a garante delle prerogative delle comunità e di un sistema “segmentato” dove protagonista non è più l’individuo ma appunto la “comunità”.



L’argomento, da più parti sollevato, secondo il quale l’inserimento dell’insegnamento della religione islamica nella scuola sarebbe un antidoto allo sviluppo di un islam clandestino, confinato nell’illegalità, sembra configurare una situazione dove la libera espressione del proprio convincimento religioso e la legittima aspirazione a coltivare una cultura religiosa o di altro tipo debba passare necessariamente per un esplicito “riconoscimento” statale, e non possa invece trovare spazio nella libera azione all’interno della società.



E’ chiaro che la proposta di Adolfo Urso si inserisce nela logica concordataria (e delle intese) che contraddistingue in Italia il rapporto tra Stato e religioni. Dunque, proprio su questa logica varrebbe la pena riflettere. Il concordato con la Chiesa cattolica, stipulato nel ’29 e rivisto nel 1984 si colloca in una fase storica profondamente diversa dall’attuale, contraddistinta dalla presenza significativa e in crescita di nuovi cittadini che abbracciano un’altra religione monoteista diversa da quelle, cristiana ed ebraica, che hanno sempre abitato le nostre terre e che veicola valori, ma anche costumi, in parte contraddittori con alcui principi – in particolari quelli legati alla dignità e alla libertà dell’individuo – che in Occidente consideriamo intangibli. Di fronte a questa nuova sfida il “privilegio” concesso alla religione maggioritaria e alle sue istituzioni (e in subordine i riconoscimenti ad altre confessioni cristiane e alla religione ebraica) non possono essere mantenuti senza rivolgere la propria attenzione ai nuovi arrivati. Il problema che allora si pone è se tale nuova attenzione debba necessariamente prendere la forma di un semplice ampliamento della logica concordataria e delle intese o se esista una strada diversa.



Limitando la nostra riflessione al problema dell’insegnamento religioso nelle scuole, ci chiediamo, cioè, se non sarebbe saggio ripensare la materia rivoluzionando la prospettiva. Ciò perché il mantenimento nella nuova situazione degli attuali “privilegi”, portando necessariamente alla creazione di nuovi accordi tra Stato e autorità individuate (più o meno arbitrariamente) come l’ espressione di “comunità” (un passo inevitabile se si vuole garantire un insegnamento “religioso” islamico) rischia di favorire quella “segmentazione” di cui si parlava prima, ovvero l’inserimento di “autorità intermedie” tra lo Stato e i cittadini, garantite dallo Stato stesso. In altre parole, si aprirebbe la strada all’istituzionalizzazione di un assetto multiculturale, ad un comunitarismo che nonostante tutti i tentativi che sono stati fatti per dipingerlo come compatibile con lo Stato e la società liberali (si pensi a filosofi come Taylor o Kymlicka), in realtà ne nega le fondamenta (la libertà dell’individuo e la sua garanzia). A questo proposito, vale la pena di citare le osservazioni dello studioso cattolico Alberto Melloni pubblicate alcuni giorni fa sul Corriere della Sera, che con grande efficacia sintetizzano il problema. “Difendere privilegi vuol dire prima o poi concedere a tutti: e questo rischia di fare della società globale una federazione di atolli identitari in un oceano tempestoso di costumi violenti che bagnano inesorabilmente tutte le spiagge dell’arcipelago”



Questo è un pericolo che anche la Chiesa cattolica dovrebbe tenere presente e per questo coraggiosamente dovrebbe forse affrontare l’ipotesi di rivedere la sua presenza nella scuola pubblica. Se il fatto religioso costituisce senza dubbio un tratto della nostra cultura e della nostra identità, davvero non si vede perché esso non possa trovare spazio nelle istituzioni religiose che liberamente e pubblicamente si costituiscono nella società civile per quanto riguarda la sua dimensione spirituale. Al tempo stesso, come elemento culturale esso potrebbe trovare spazio nella scuola pubblica come insegnamento obbligatorio alla pari degli altri insegnamenti – come ha ad esempio suggerito sempre dalla pagine del Corriere l’islamista Paolo Branca –, impartito da insegnanti assunti regolarmente come tutti gli altri docenti, con un’attenzione privilegiata alle grandi religioni monoteiste, cristianesimo ed ebraismo innanzitutto ma anche con un spazio adeguato all’Islam.



Sarebbe questa un’occasione per i nostri giovani di acquisire finalmente una conoscenza che anni e anni di “ora di religione” non ha loro apportato; citando sempre Melloni : “dopo tanto sforzo l’ignoranza della Bibbia, della storia cristiana, delle dottrine, della spiritualità è in Italia così abissale da debordare nei quiz, dove le domande in questa materia si rivelano impervie per tutti”. Ma sarebbe anche un’occasione, per alunni che provengono da famiglie cristiane, ebree, musulmane, agnostiche o atee per apprendere “insieme” i tanti modi attraverso i quali l’uomo ha cercato nella storia dell’umanità di pensare la propria “condizione” e di rapportarsi con la dimensione del divino.

Se, dunque, il problema è come fare spazio all’Islam senza pregiudicare la coesione della nostra società e i fondamenti liberali che la contraddistinguono, più che pensare per semplice “addizione” rispetto allo stato di cose attuale, sarebbe forse saggio e lungimirante da parte delle autorità politiche e religiose riflettere e ragionare in termini più innovativi e coraggiosi, perché è in gioco il futuro della nostra civiltà.



Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.





CREDITS: Libertiamo & FareFuturoWebMagazine

Lo Stato criminogeno

La vicenda degli appalti pilotati e delle assunzioni “raccomandate” in Campania apre l’ennesimo squarcio sulle distorsioni illecite nella gestione della cosa pubblica nel nostro paese.
Non sappiamo l’entità e la fondatezza penale dello scandalo che ha colpito la famiglia Mastella.
Ma questo ulteriore episodio (dopo tanti che hanno colpito la Campania e non solo) sembra confermare quanto già da tempo hanno denunziato Donatella della Porta e Alberto Vannucci nel volume Mani impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia. Che cioè dopo le inchieste dei primi anni 90 la corruzione non è affatto scomparsa.

Quello delle malversazioni è solo uno dei capitoli della crisi profonda in cui si è avvitato il nostro martoriato paese. L’iceberg di uno sbandamento e di una distorsione delle funzioni di governo, di cui il malcostume comune, l’inefficienza, lo spreco, l’incertezza del diritto, i bizantinismi burocratici, la pessima qualità dei servizi pubblici e, chi più ne ha più ne metta, costituiscono la grande massa sommersa.

Come con tangentopoli si squaderna, davanti a noi, l’immagine di una caduta verticale dell’etica pubblica, di una sovrapposizione cannibalesca degli interessi privati, locali, parziali, sull’interesse generale.
Persino alcuni moralizzatori di un tempo, o i loro sodali, appaiono coinvolti in questa deriva vergognosa. A dimostrazione che l’etica pubblica non può essere strumentalizzata come una bandiera di parte, ma dovrebbe essere la premessa di tutto e tutti.
Sono ormai troppi decenni che la “questione morale” si ripropone, arricchendosi di anno in anno di nuove versioni, rivedute e corrette.
A questo punto però non ci si può limitare a reagire solo con l’indignazione e lo scandalo, rivelatisi spesso tanto veementi, quanto passeggeri.
E’ necessaria una lettura politica degli accadimenti. Bisogna prendere una volta per tutte atto che l’appello alla mozione degli affetti, l’evocazione della rettitudine, l’esibizione della rabbia non basta più. La rabbia, l’indignazione e lo scandalo può essere il sentimento del cittadino comune, dello spettatore più esterno delle vicende pubbliche. Non la maschera dietro la quale, opportunisticamente, si trincera la classe politica o i tribuni di professione, proponendo superficiali lavacri rigeneratori, senza intervenire, nel profondo, sulle cause del problema.
Cosa che nessuno ha mai fatto, ripiegando su qualche pannicello caldo buono magari a vincere un’elezione sull’onda dell’indignazione popolare.
Il patologico tasso di corrotti e corruttori, malversatori, opportunisti, avventurieri, patroni e clienti in Italia non può essere solo il frutto di una “caduta morale”. Si deve prendere atto che c’è qualche problema di sistema.
E il problema è il fallimento dello Stato. Di questo Stato, sia ben chiaro. Di questo modo di concepire le istituzioni pubbliche come necessità immanente e onnipresente nella vita della società.
C’è un fallimento dello Stato sociale, costruito sull’illusione di una spesa pubblica tendente all’infinito e ormai ridotto alla conservazione di “chi ha avuto” pagando a debito e infischiandosene di chi “ha dato” (come le nuove generazioni) senza che nemmeno gli fosse chiesto.
C’è un fallimento dello Stato di diritto, incapace di assicurare una giustizia certa che, almeno nei tempi, non sia da terzo mondo; incapace di sgomberare il campo da una criminalità organizzata che attanaglia almeno un terzo del paese e ricicla e si ricicla altrove. Una criminalità con la quale, forse, è dovuto persino scendere a patti.
C’è un fallimento dello Stato interventista nell’economia, che ha trasformato questo in un paese di semi-socialismo reale, con più della metà della reddito nazionale che è spesa pubblica.
C’è un fallimento, infine, dello Stato come mito positivo, capace di orientare al progresso la società, di offrire opportunità paritarie per tutti.
I fatti della Campania, ma non solo essi, ci mostrano l’immagine di un paese in cui l’interposizione pubblica anziché divenire emancipatrice è diventata criminogena.
Né c’è da stupirsi. Con una politica e un’amministrazione che si intromette pressoché in ogni ganglio della vita sociale, moltiplicata da centri di potere pubblico (territoriali e non, come l’Arpac dei Mastella) di ogni dimensione e per ogni bisogno e interesse, è impossibile evitare le degenerazioni. Tale reticolato di condizionamento della società è ormai presidiato da terminali di affarismo, politica, interesse. Tutto a spese dello Stato, cioè nostre.
Di fronte ad una tale galassia pulviscolare di concrezioni, come si po’ pretendere di operare un’adeguata vigilanza ed un efficace controllo? Ci vorrebbe un paese di gendarmi. E poi qualcuno che controllasse a suo volta i controllori.
Prendiamone atto. Il nostro modello di Stato è fallito. L’etica pubblica sviluppatasi all’ombra del Molock che abbiamo edificato non somiglia a quella scandinava ma a quella dei paesi dell’est e dell’Unione sovietica prima della caduta del muro.
E i riformisti di tutte le osservanze dovrebbero prendere atto che questo Stato è criminogeno e distorsivo, premia i parassiti, i questuanti, gli amici degli amici. Umilia gli eroi inconsapevoli che non si piegano e induce alla prostituzione i padri e le madri per il bene dei figli da raccomandare a qualche santo.
Prendiamone atto. E smantelliamo le troppe superfetazioni, giustificate scomodando i più grandi ideali di eguaglianza e fratellanza, e gestite solo per arricchire di soldi e munizioni i protagonisti della quotidiana guerra di potere nello Stato.
E’ necessario cambiare radicalmente paradigma. Lo Stato non può più essere la mammella cui strappare risorse e potere da spartire ciascuno nella propria corporazione. Ma un regolatore sobrio che non tartassa i cittadini per rimpinguare gli sprechi.
E’ venuto il tempo di quella rivoluzione liberale che, in Italia, non c’è mai stata. Perché l’alternativa è la bancarotta economica, sociale e (se ancora non c’è) morale.
E i riformatori, se ancora ci sono, a destra e a sinistra, dovrebbero imbracciare questa rivoluzione, piuttosto che tradire la propria onestà intellettuale per un posto da (inascoltato) consigliere del principe.
Altro che evocazione, irresponsabile e populista, del posto fisso e inamovibile, incrollabile mito della retorica statalista che ci ha portato al fallimento, ingrassando solo i furbetti della spesa pubblica.

Giovanni Guzzetta - Nato a Messina nel 1966, è un costituzionalista italiano. Presidente nazionale della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) dal 1987 al 1990, attualmente è professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso l'Università degli studi di Roma "Tor Vergata", nonché titolare della cattedra Jean Monnet in Costitutional Trends in European Integration nel medesimo ateneo. Presidente del comitato promotore dei referendum costituzionali, ha elaborato gli attuali quesiti referendari ed è stato, nel 1993, l'ideatore, insieme a Serio Galeotti, dei quesiti per il referendum sulla legge elettorale. È coautore di un manuale di diritto pubblico italiano ed europeo, nonché autore di diverse monografie.


CREDITS: Libertiamo

giovedì 22 ottobre 2009

Un'altra economia per l'Italia

Quello che segue è il documento apparso ieri sul sito NotaPolitica e ripreso su buona parte dei quotidiani di oggi. Stando ai rumors, si tratterebbe di un atto "contro Tromenti" redatto da esponenti di spicco del PdL.

Sono circolati vari nomi sugli autori, prima di varie smentite dal gruppo dirigente del partito.

Sia come sia, si tratta cmq di un interessante spunto di riflessione...


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Dopo una crisi economica di dimensioni epocali, l'economia globale sta lentamente riprendendo la via dello sviluppo. Ma, senza una forte iniziativa di politica economica, noi non potremo che riprendere la via degli ultimi quindici anni; una via fatta di bassa crescita e di perdita di quota nelle graduatorie internazionali; lo stesso riassorbimento della disoccupazione generata nella crisi si farà lungo e problematico. Le scelte di politica economica fin qui fatte non appaiono sufficienti a mettere l'economia nazionale su un nuovo sentiero di sviluppo. A questo scopo sono necessarie alcune iniziative di grosso impatto immediato, ma capaci anche di agire sulle aspettative e di innescare processi di crescita auto propulsiva.

1. ABBASSAMENTO DELLE TASSE

La prima iniziativa da intraprendere è una immediata e consistente riduzione dell'imposta di reddito delle persone fisiche (IRE); riduzione da inserire in un percorso, graduale ma annunciato fin da subito nei tempi e nei modi, che conduca alla realizzazione di quelle due sole aliquote a suo tempo promesse e di una contestuale e conseguente riduzione generale della pressione fiscale nel nostro paese.

2. DEBITO PUBBLICO E RIFORMA PREVIDENZIALE

Anche nel tetto dell'aumento delle entrate conseguente al rilancio della domanda interna, la riduzione dell'IRE produrrà un aumento del deficit pubblico. Che andrà compensato, almeno in una prospettiva di medio-lungo periodo con un graduale innalzamento dell'età pensionabile per uomini e donne, nel settore pubblico e privato. Una riforma di questo tipo dovrebbe mettere al riparo da reazioni negative dei mercati e degli organismi internazionali.


3. INVESTIMENTI PUBBLICI

Anche nell'attuale fase di timida ripresa economica, si conferma una dinamica stentata degli investimenti privati. E' questo il momento per avviare con decisione un forte e immediato programma di investimenti pubblici, che aiuti a sostenere l'economia almeno fin quando riprenderanno gli investimenti privati, e che produca effetti di lungo periodo in termini di efficienza complessiva del nostro sistema economico.

4. ENERGIA NUCLEARE

In particolare è possibile dare impulso deciso alla produzione di energia elettrica da impianti nucleari. La tecnologia è disponibile. Le nostre imprese stanno velocemente definendo un quadro di accordi internazionali. Sul mercato esistono ampie disponibilità a finanziarie questi investimenti, sempre che si assicuri alle imprese chiamate a realizzare un quadro tariffario certo e prevedibile. Le stesse preclusioni di una parte di opinione pubblica ed enti locali stanno venendo meno. Ne trarrà beneficio la competitività del Paese.


5. PIANO CASA

Con l'esperienza abruzzese si è dimostrato che la costruzione di case pubbliche può essere realizzata in un tempo misurabile nelle settimane e non nei lustri. Non ci sono più scuse per una pronta realizzazione di un vasto programma di edilizia pubblica a sostegno delle famiglie più in difficoltà e delle nuove coppie.

6. INFRASTRUTTURE

Più in generale, è necessario accelerare tutti gli investimenti infrastrutturali pubblici. Anche in questo caso si produrrebbe un rigonfiamento immediato del deficit pubblico. Ma non dovrebbe essere difficile convincere i mercati delle bontà dell'operazione, ove si presenti un programma che porta ad anticipare spese infrastrutturali già previste; guardando a un orizzonte temporale ad esempio decennale, si tratterebbe non già di un aumento complessivo del deficit pubblico, bensì di una sua rimodulazione temporale. Con in più il beneficio di finanziare queste opere sul mercato in un momento nel quale i tassi d'interesse sono particolarmente bassi. E una parte di queste infrastrutture dovrebbe essere finanziata con una accelerazione nella spesa dei fondi europei.

7. CONTENIMENTO DELLA SPESA

Al rilancio della spesa per investimenti deve accompagnarsi un deciso contenimento della spesa corrente. A partire dai costi della politica; quelli diretti (numero e remunerazione dei componenti delle assemblee elettive e degli organi di governo ai vari livelli), ma anche quelli indiretti, legati al pletorico mondo delle società partecipate degli enti locali.

8. AIUTI ALLE IMPRESE

La ripresa non potrà decollare senza un adeguato sostegno del sistema creditizio. Ma qui occorre una svolta decisiva rispetto alle politiche e agli annunci recenti. Se sono le imprese ad aver bisogno di aiuto, non ha senso proporre aiuti alle banche, nella speranza che queste poi aiuteranno le imprese; si aiutino invece direttamente le imprese: gli strumenti della garanzia di credito hanno dimostrato di funzionare bene; c'è una forte necessità di aiuti alla innovazione tecnologica; un forte aumento della dotazione finanziaria assicurata a questi strumenti funzionerà mille volte meglio degli aiuto promessi dalle banche e da queste poco utilizzati.

9. RAPPORTI CON IL MONDO BANCARIO

E' del tutto controproducente minacciare le banche con l'istituzione di nuove banche pubbliche. E' difficile che per questa via - come l'esperienza insegna - giunga buon credito a buone imprese. Servono invece buone banche private, in concorrenza fra loro; serve una disciplina severissima che contrasti eventuali accordi a cartelli; servono regole certe e semplici riguardo la trasparenza di prezzi, tassi, commissioni. Ma senza ingerenze della politica, che presto o tardi produrrebbero i danni del passato.

10. RIFORME

Il nuovo impulso alla politica economica deve accompagnarsi a una azione riformatrice più vasta, anch'erra capace di importanti effetti economici. La riforma della giustizia, accrescendo celerità e qualità dei giudizi, è suscettibile di importanti effetti positivi sul mondo delle imprese oggi condannate alla incertezza permanente riguardo la capacità di far valere i propri diritti. Riforme istituzionali che accrescano la forza e l'efficacia dell'azione di Governo, garantendo l'attuazione dei programmi elettorali enunciati dalla coalizione maggioritaria, saranno in grado di ridurre l'incertezza sulle politiche future; e l'incertezza è il peggior nemico della crescita economica.

mercoledì 21 ottobre 2009

Ma davvero ci piace la “destra europea”?

Fin dalla sua nascita Libertiamo ha auspicato cambiamenti profondi nel centro-destra italiano e molto spesso ha parlato dell’opportunità che il Popolo della Libertà scelga la strada di una “destra europea”. Il modello di riferimento è in generale individuato nel mainstream del PPE ed in leader quali Nicolas Sarkozy, Angela Merkel e David Cameron.
In realtà se di certo al centro-destra italiano serve con urgenza una svolta liberale e riformatrice, questo non significa necessariamente che l’erba del vicino sia in questo momento più verde.
Al di là probabilmente delle questioni eticamente sensibili, in cui il PDL sta dando il proprio peggio, le posizioni degli altri governi europei a guida conservatrice, in primis quello francese e tedesco, non sono poi più “liberali” di quelle della compagine di Berlusconi.
Del resto, di fronte al banco di prova fondamentale della crisi economica, politici come Nicolas Sarkozy e Angela Merkel hanno sovente battuto in statalismo il nostro Tremonti.
Sarkozy, dimenticate le promesse del “gouvernement de rupture”, sembra muoversi ormai nel solco dello chirac-ismo più tradizionale e la Merkel, dal canto suo, si è spesso distinta in questi anni per scelte politiche protezioniste ed interventiste – complice senz’altro in questo caso anche la “grosse koalition” con i socialdemocratici.

La “destra normale” francese o tedesca, dal punto di vista delle scelte concrete, non sembra più aperta alle ragioni del mercato rispetto all’”eccezione berlusconiana”.

Vale la pena di ricordare, peraltro, che diversi anni fa, quando Berlusconi scese in campo nel 1994, la maggior parte dei liberali scelsero di scommettere proprio sull’”anomalia” della sua presenza politica.
Il fatto che Berlusconi fosse estraneo ai circuiti del potere tradizionale, la sua irriverenza verso alcuni rituali della politica e delle istituzioni ed in qualche misura persino il superamento del vecchio democraticismo formale dei partiti della “prima repubblica” a favore di un rapporto diretto tra leader e cittadini venivano considerati come fattori potenzialmente dirompenti in un quadro politico, economico e sociale sclerotizzato.
L’eccezione Berlusconi poteva essere lo shock in grado di innescare dinamiche riformatrici e liberali nel nostro paese.
A distanza di 15 anni ci rendiamo perfettamente conto che la “rivoluzione liberale” sognata nel ‘94 non si è neppure timidamente avviata e che Berlusconi nel 2013, dopo 10 anni di governo su 12, difficilmente consegnerà al suo successore un sistema Italia più liberale di quello ricevuto da Giuliano Amato nel 2001.
Berlusconi è un politico “differente” e indigesto all’establishment consolidato a livello tanto italiano quanto europeo – ma l’essere differente non si è rilevato sufficiente per essere al tempo stesso un motore di cambiamento.

A fronte di questo dato oggettivo, il rischio è che oggi i liberali, per comprensibile delusione, avvertano eccessivamente il fascino di un modello di destra opposto a quello berlusconiano, quello di una destra “seria e responsabile”, ben inserita nei salotti buoni e che goda di buona stampa. Una destra che piace alla gente che piace.
Certo, chi sia su posizione genericamente centriste e in economia sostanzialmente socialdemocratiche non avrà difficoltà nell’individuare in Nicola Sarkozy, Angela Merkel o David Cameron un valido riferimento politico e culturale. E lo stesso probabilmente chi si accontenti di limitati ritocchi liberali su questo o quel tema, operati il più delle volte perché considerati ineluttabili in un’ottica di contabilità, anziché per effettiva convinzione.

Tuttavia c’è da chiedersi se questa politica minimalista e in doppiopetto sia davvero sufficiente. E c’è da chiederselo non tanto rispetto alle aspirazioni (più o meno idealistiche) dei liberali classici e dei libertarians, ma soprattutto rispetto alle esigenze di un mondo che si muove così velocemente ed in cui paesi come l’India e la Cina sono stati in grado di trasformare radicalmente in pochi anni le loro economie al punto da mettere per la prima volta in discussione il primato non solo economico ma anche in prospettiva politico e culturale del mondo occidentale.
Di fronte ai profondi mutamenti di questi anni, alle sfide della globalizzazione ed alle problematiche legate alla “crisi”, i grandi partiti moderati e popolari sembrano in grado al più di evitare che il percorso verso il declino dell’Europa sia troppo accidentato, ma non hanno la capacità né la volontà di aggredire le cause strutturali dell’invecchiamento economico e culturale del vecchio continente. Sembrano più interessati a perseguire una pace sociale di breve periodo che a mettere in discussione gli assunti del welfarismo occidentale.

E’ un fatto che negli ultimi anni i pochi leader che hanno portato avanti proposte politiche liberali originali e coraggiose non sono quasi mai stati omogenei al mainstream centro-conservatore europeo.
Non lo è certo stata la Thatcher che ha goduto di una parziale rivalutazione “postuma” ma che negli anni in cui governava era vissuta come uno scomodo corpo estraneo dalla politica europea.
Non lo è un liberale chicaghiano come Vaclav Klaus che si trova oggi a recitare la “parte del cattivo” contro il pensiero unico eurostatalista.
Non lo è stato, mutatis mutandis, un personaggio complesso ed originale come Pim Fortuyn, così come non lo è la promessa del liberal-secessionismo fiammingo Jean-Marie Dedecker.

In questo senso la parziale delusione delle speranze riposte nell’”eccezione berlusconiana” non deve portare in modo automatico alla conclusione che la strada da perseguire adesso sia quella del rientro del centro-destra italiano nell’alveo della conformità e della prevedibilità del moderatismo europeo.
Tutto sommato, in questo continente intriso di statalismo fino all’anima, l’eccezione resta comunque più promettente della norma, la varianza più utile dell’armonizzazione.
Peraltro, se proprio all’Europa si deve guardare, si dovrebbe provare a farlo anche seguendo itinerari geopolitici meno scontati e ricordandosi che l’Europa non finisce sull’Oder-Neisse. C’è una metà di questo continente che ha saputo ripensare le basi profonde del proprio sistema politico ed implementare nel giro di pochi anni importanti riforme economiche liberali. E’ l’Europa dei Vaclav Klaus e dei Mart Laar, dei Donald Tusk e dei Mikuláš Dzurinda.
Forse è al coraggio riformatore di quell’Europa che sarebbe utile ispirarsi più che alle dinamiche politiche dell’Europa che conosciamo meglio, quella del “vietato toccare”.

In definitiva, i liberali dovranno combattere nel merito la battaglia delle idee e dei programmi nel PDL, chiedendo con forza – sui vari temi – accelerazioni o cambiamenti di rotta. Ma non con l’obiettivo di fare del PDL una copia sbiadita dell’UMP francese o del PP spagnolo, bensì con quella di poter essere tra qualche anno – da liberali – orgogliosi della “differenza italiana”.

Marco Faraci - Nato a Pisa, 34 anni, ingegnere elettronico, executive master in business administration. Professionista nel campo delle telecomunicazioni. Saggista ed opinionista liberista, ha collaborato con giornali e riviste e curato libri sul pensiero politico liberale.


CREDITS: Libertiamo

venerdì 16 ottobre 2009

Per una Destra dei Diritti Civili

Una destra laica, liberale, ecc., ma soprattutto moderna, ha l'obbligo di dare risposte serie, valide e non ideologiche anche su tematiche ke magari, x qto riguarda l'Italia, non l'hanno mai riguardata particolarmente.

Ecco, a tal proposito, alcuni punti di vista sul tema dei diritti civili.


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Pdl e i diritti civili, ora o mai più. È il momento di vedersi e di capirsi

“Il PdL tenendosi distante e contrario alla tematica dei diritti civili avrà seri problemi non solo in Italia ma anche nel Partito Popolare Europeo.” Questa frase netta e illuminante è stata pronunciata dall’onorevole Benedetto Della Vedova, presidente di Libertiamo, nel corso del congresso nazionale di GayLib, tenutosi lo scorso sabato a Milano.
Due realtà, Libertiamo e GayLib, che proprio sui diritti civili convergono ma, dopo il congresso che ha eletto chi scrive segretario nazionale – possiamo dirlo – vi sono tutte le ragioni e le possibilità vive per giungere a un ulteriore e forte aggancio all’interno del Popolo della Libertà.

Il saluto cordiale e sostanziale che il presidente della Camera, Gianfranco Fini ha inviato all’assemblea, definita come un “contributo a una società fondata su rispetto e uguaglianza”, così come quello del ministro della Gioventù, Giorgia Meloni che è andata oltre definendo GayLib una “risorsa per il centrodestra” e del ministro Gianfranco Rotondi che ha dato all’appuntamento congressuale la patente di “iniziativa volta a coniugare diritti liberali e centralità della persona umana nel solco della nostra ispirazione cristiana” hanno fatto sì che tesserati, soci e simpatizzanti di GayLib, forse per la prima volta, si siano sentiti davvero a pieno titolo parte del PdL.

Una sensazione purtroppo effimera. Non tanto e non solo, infatti, per la pessima immagine offerta dai rappresentanti della Camera dei Deputati di entrambi gli schieramenti i quali, evidentemente, hanno messo gli interessi e le beghe di parte al di sopra del bene dei cittadini, quanto per i commenti che si sono letti sulla stampa all’indomani della bocciatura della proposta di legge antiomofobia.

Leggendo, infatti, i giornali di ieri mattina, l’affermazione di Della Vedova riportata all’inizio, sembra di fatto e definitivamente capovolta. Unanimemente i nove coerenti e coraggiosi “libertari” del Pdl, che si sono espressi contro le eccezioni di incostituzionalità dell’Udc e a favore di un “terzo tempo” in Commissione, vengono definiti al pari di “dissidenti”. Fabrizio Dell’Orefice, notista de “Il Tempo” va addirittura oltre e parla in prima pagina di una “nuova maggioranza etica” (come se già non fossimo troppo vicini all’Iran o alle marche afgano-pakistane ancora soggiogate dai talebani).

Il sedicente gayfriendly Pier Luigi Diaco sulle pagine di Libero con l’abituale tono da maestrino (non sbagliando in realtà del tutto la mira, anzi) ironizzava sull’Italia che non è un gay-crazia ma una democrazia, partendo dai rischi legati alla legge Concia, quella di avere, dopo i professionisti dell’Antimafia, quelli dell’antiomofobia, senza in realtà ottenere alcun risultato.

E’dunque evidente a tutti, crediamo, che ieri per la battaglia sui diritti civili sia stata una vera e propria Caporetto. Ora, tuttavia, l’impegno dei gay liberali di centrodestra deve necessariamente andare verso l’unica direzione che a nostro giudizio pare possibile: l’ampliamento della cosiddetta piattaforma delle rivendicazioni (scusate il sindacalese, ma tant’è…) chiedendo al PdL e non ad altri l’effettiva parificazione dei diritti e dei doveri per le persone e le coppie omoaffettive. Vogliamo farlo, certamente all’unisono con Libertiamo, in una data prossima allo scempio avvenuto l’altro ieri. Con l’obiettivo, ripartendo dai nove “congiurati” per i diritti civili, di aprire a 360 gradi nel PdL il dibattito su questo importante tema.

L’altro ieri abbiamo avuto la prova del nove, infatti, che con le mezze misure, le leggine e i compromessi (troppo) al ribasso non si va da nessuna parte. Molto bello sarebbe, da ultimo, se l’ospite d’onore di questo incontro fosse il ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, magari con il suo testo di legge contro l’omofobia che, speriamo, il Governo voglia sostenere e approvare, partendo però, stavolta, dal grande tavolo del Consiglio dei Ministri. Il titolo per l’appuntamento che qui vogliamo convocare c’è già e non potrebbe essercene uno migliore: “Il PdL e i Diritti Civili”. Esserci sarà una chiara scelta di coscienza oltre che un forte segnale di volontà politica di cui, mai come oggi, la più numerosa minoranza del Paese ha un fortissimo bisogno per non sentirsi davvero e definitivamente orfana e straniera a casa propria.

Daniele Priori - Nato a Marino (Rm) il 27 marzo 1982. Giornalista, è segretario politico dell’associazione GayLib. Tra i primi tesserati dei Riformatori Liberali dall’autunno 2005, è tra i soci fondatori di Libertiamo. Collabora col “Secolo d’Italia” e con riviste locali e nazionali. E’ direttore di collana presso l’editrice Anemone Purpurea di Roma per la quale ha pubblicato, insieme a Massimo Consoli, il libro “Diario di un mostro – Omaggio insolito a Dario Bellezza”
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Sull’omofobia il Pdl segue il Ppe, non si attardi su posizioni di retroguardia

di Benedetto Della Vedova

Rispetto al disegno di legge della collega Concia, nel Pdl hanno finito per prevalere motivazioni giuridicamente contraddittorie e politicamente sbagliate. E’ contraddittorio sostenere che l’estensione agli omosessuali delle stesse protezioni “anti-discriminatorie” previste per ragioni etniche, religiose, e nazionali sarebbe incostituzionale (perché allora ogni norma anti-discriminatoria lo sarebbe).
E’ politicamente sbagliato sottovalutare la portata dei pericoli che incombono su gay, lesbiche e transessuali, visto che il dilagare della violenza, da una parte, e della discriminazione dall’altra oggi non trovano argine alcuno, neppure in una cultura civile condivisa.

Il Pdl anche sui temi della discriminazione fondata sull’orientamento sessuale dovrebbe serenamente accettare la posizione prevalente nel PPE, anziché tentare di resistere su posizioni di retroguardia che sarebbero incomprensibili per i nostri colleghi spagnoli, inglesi, francesi e tedeschi, oltre che per una parte maggioritaria del nostro elettorato.


CREDITS: Libertiamo

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In appendice, ecco i pochi coraggiosi del PdL che hanno votato la proposta PD sull'omofobia:

Carmelo Briguglio, Giuseppe Calderisi, Benedetto Della Vedova, Chiara Moroni, Flavia Perina, Mario Pepe, Roberto Tortoli, Adolfo Urso e soprattutto Italo Bocchino che del Pdl è vicecapogruppo, e che in aula ha parlato a nome del gruppo votando però alla fine con l’opposizione. Nel Pdl si sono registrate anche dieci astensioni.

CREDITS: la Stampa

giovedì 15 ottobre 2009

Nucara: soppressione delle province, serve testo unificato

Discussione sulla proposta di legge costituzionale in materia di soppressione delle province. (Camera dei deputati, martedì 13 ottobre 2009)

"Signor Presidente, come è noto la posizione del Partito Repubblicano per quanto riguarda l’abolizione delle province è antica e risale ai tempi di Ugo La Malfa. Con l’istituzione delle regioni nel 1970, infatti, furono presentati i primi disegni di legge per l’abolizione delle province. Quindi sarebbe interesse dei repubblicani spingere perché rapidamente si arrivi ad una rapida conclusione di questo percorso. Io stesso, non solo come deputato ma come segretario del Partito Repubblicano Italiano, ho portato all’attenzione della Commissione competente il disegno di legge per l’abolizione delle province. Tuttavia, come si dice sempre dalle parti più moderate della politica italiana e del Parlamento, le riforme costituzionali devono essere condivise il più ampiamente possibile. Ci sono in Commissione circa 5 o 6 disegni di legge in materia di abolizione delle province, quindi pensare che due sole componenti di questa Camera, autorevoli quanto vogliamo, come l’Unione di Centro e l’Italia dei Valori, possano portare a compimento questo percorso di abolizione delle province ci sembra un po’ velleitario.

Noi siamo per la sospensiva e lo dico come segretario del Partito Repubblicano oltre che come deputato presidente della componente politica Misto-Repubblicani, Regionalisti, Popolari. Lo dico perché sono convinto che, come mi ha detto il presidente della Commissione, onorevole Donato Bruno - a cui credo, conoscendo il suo prestigio sia come tecnico, sia come deputato, sia come persona - egli porterà un testo unificato delle varie proposte di legge all’esame del Parlamento.

Quindi come repubblicano, come segretario del Partito Repubblicano - che parla per il mio tramite essendo io il rappresentante, diciamo anche legale oltre che politico di tale partito - preannuncio che voteremo a favore della sospensiva in esame.

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Visto ke qdo parla Fini, si levano subito i canti degli "intrattenitori del sovrano" su "la tal cosa non era nel programma", bene, l'abolizione delle Province c'era eccome...dov'è finita?!

Ah, e già ke ci siamo: il "jolly" dell'abolizione del bollo auto qdo ce lo giochiamo?!

martedì 13 ottobre 2009

New Look!

Cari lettori,

come potrete certo notare, questo blog si è dato una "rinfrescata"...nuovi colori, maggiori funzionalità, ecc...

Spero vi piaccia...a me molto...ovviamente... :)

sabato 10 ottobre 2009

Obama e il Premio Farsa per la Pace

Obama e Dalai Lama. La guerra culturale delle due Americhe



09 ottobre 2009



Una città illuminata sopra la collina. Era questa l’immagine che i padri fondatori avevano in mente quando, fuggendo da un’Europa che faceva del confessionismo di stato filosofia ispiratrice e teologia politica, provarono a fondare un nuovo ordine politico radicato nelle libertà dell’uomo, ma anche nella tradizione e nella consapevolezza della storicità dell’esperienza umana. Tra tutte, quella di religione era vista come la libertà più importante. First Freedom. I padri costituenti decisero di fissare nel primo emendamento costituzionale le ragioni di quella scelta. Certo ci sono voluti anni di evoluzioni interpretative, di discriminazioni e persecuzioni patite dalle minoranze religiose, di cattolici spesso non visti di buonissimo occhio, ma nel dna dell’esperienza americana era iscritta la scelta tutta politica della necessaria libertà del cittadino davanti al suo Dio. Nessuno stato avrebbe potuto interferire. Un mercato delle religioni, capaci di sopravvivere alla dura competizione solo per il loro zelo ed il loro rispondere ai bisogni dei credenti senza nessuna stampella offerta dai poteri pubblici. La storia ha confermato la bontà di quella geniale intuizione.

Obama e il “gran rifiuto”. Risulta difficile comprendere la decisione del Presidente Obama di non incontrare il Dalai Lama in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti.

Come hanno già sottolineato la redazione di Libertiamo e Benedetto Della Vedova quello di Obama è un errore non di minima portata. Due anni fa il leader tibetano fu ricevuto con tutti gli onori del caso. Il presidente Bush arrivò addirittura ad assegnargli la Congressional Gold Medal. Oggi invece regna un imbarazzato ed imbarazzante silenzio. Attivissimo sui dossier clima e commercio a livello internazionale, Obama sembra aver dimenticato la grande tradizione che è alla base della nazione americana. La libertà prima di tutto. Quella religiosa prima di tutte. Mentre la Cina delle chiese di stato e dei cattolici e dei musulmani uccisi e perseguiti minaccia il leader tibetano, Obama decide di non decidere. Come spesso accade nella politica degli annunci.



L’America che resiste. Se Obama rinnega gli stessi presupposti su cui si fonda l’esistenza degli Stati Uniti, c’è un’America che resiste. Dopo anni di grandi incertezze la U.S. Commission on International Religious Freedom nei mesi scorsi ha apertamente criticato la Cina per le sistematiche violazioni commesse ai danni delle minoranze religiose. Lo stesso ha fatto il Dipartimento di Stato abbandonando la tradizionale prudenza spesso dettata da esigenze di realpolitik. Sono segnali importanti. Come ha segnalato sulla National Review Dan Blumental (fellow presso l’American Enterprise Institute) purtroppo alcuni Stati stanno seguendo l’esempio di Obama. Il primo ministro australiano ha infatti comunicato che non incontrerà il Dalai Lama nella sua prossima visita in Oceania. Mostrare che all’interno della classe dirigente americana non tutti condividono la scelta del Presidente è dunque ancora più urgente.

“Dov’e’ Gao Zhinseng? Dov’e’ il vescovo Su Zhimin? Dove è Gendun Choeckyi Nyiama? Quanti altri tibetani, uguri, cristiani e membri del Falung Gong e rifugiati coreani devono essere ancora incarcerati, violentati, e torturati in Cina nel nome del diritto e del mantenimento della pace sociale?”. Questo ha scritto Leonard Leo, Presidente della U.S. Commission on International Religious Freedom, chiedendo più attenzioni alle violazioni dei diritti fondamentali da parte della Cina.

Per questo Obama avrebbe fatto bene ad ascoltare il Dalai Lama e a portare queste domande con sé in Cina. Rinunciare alla propria missione, alla propria storia, a una necessaria libertà fondamento e prerequisito di tutte le altre non ha senso. Neanche nel dorato mondo di Obama.



Pasquale Annicchino - Nato a Maratea (PZ) il 13 Dicembre 1982, vive a Siena. E’ dottorando di ricerca in Jus Publicum Europaeum presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Siena. Presso la stessa università è anche junior fellow nell’ambito del Law and Religion Programme coordinato dal Prof. Marco Ventura. Fa parte dell’Organizing Committee della International Summer School in Law and Religion

C'è da fare...

Rileggendo il programma elettorale del Popolo della Libertà…

Inserito il 09 ottobre 2009

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Tags: Berlusconi, Ferrara, PdL, programma elettorale

- Scegliamo “a caso” qualche punto del programma con il quale il Pdl si è presentato agli elettori nella primavera del 2008. E’ passato un anno e mezzo, poco ma anche tanto. E’ ora di mettere mano ai cambiamenti promessi, auspicati e necessari. Basta ozi di Capua, come ha detto Giuliano Ferrara al premier!



Graduale e progressiva abolizione dell’IRAP, a partire dall’abolizione dell’IRAP sul costo del lavoro e sulle perdite.



Completamento del processo di liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni e diffusione della larga banda su tutto il territorio nazionale.

Riforma degli ammortizzatori sociali secondo i principi contenuti nel “Libro Bianco” del professor Marco Biagi.



Graduale e progressiva diminuzione della pressione fiscale sotto il 40% del prodotto interno lordo in attuazione dei principi contenuti nella Legge delega per la riforma fiscale del governo Berlusconi.



Reintroduzione del “bonus bebé” per sostenere la natalità (ndr: l’idea non è di Montezemolo, insomma).



Stabilizzazione del “cinque per mille” e sua applicazione a favore di volontariato, non-profit, terzo settore, ricerca.



Sperimentazione di un periodo “no tax” per le nuove iniziative imprenditoriali e professionali dei giovani.



Rafforzamento della distinzione delle funzioni nella magistratura, come avviene in tutti i paesi europei.



Libera, graduale e progressiva trasformazione delle Università in Fondazioni associative, aperte ai contributi dei territori, della società civile e delle imprese, garantendo a tutti il diritto allo studio.



Sostegno alle famiglie per una effettiva libertà di scelta educativa tra scuola pubblica e scuola privata (ndr: tradotto significa “buono scuola”)



Realizzazione di strumenti di tutela del suolo e delle acque per una razionalizzazione della gestione delle risorse e per la prevenzione dei disastri idrogeologici, fatte salve le competenze regionali.

mercoledì 7 ottobre 2009

La Consulta boccia il "Lodo Alfano"




Sul Lodo: concordo sull'eccezione sollevata dalla Consulta in merito all'art. 3 della Costituzione. Ciò detto, concordo anke col pensiero di Antonio Maccanico, non certo un pasdaran di Arcore, primo propositore di una forma di "scudo" x le alte cariche, sul fatto ke vada cmq trovata una soluzione al problema del libero esercizio delle proprie funzioni.

Personalmente ritengo sia ora di reintrodurre l'immunità parlamentare, frettolosamente e ideologicamente cancellata negli anni di Tangentopoli.

Immunità, NON impunità, voglio esser chiaro su questo.

Berlusconi ha sbagliato ad attaccare Napolitano, salvo ke non fosse intercorsa una sorta di "garanzia" ke il Presidente abbia accordato al Premier. In quel caso il Cav qualche motivo x sentirsi fregato ce l'avrebbe.

Sulla Consulta: non è di sinistra x' ha bocciato il Lodo. Lo sarebbe stata (x', nei fatti, la sua maggioranza è di sinistra) anke se lo avesse approvato. Ma è altrettanto vero ke una Corte a maggioranza di centrodestra ke fosse stata "giuridicamente indipendente", avrebbe dovuto bocciarlo cmq.

X sgombrare il campo dai sospetti, basterebbe cambiarne le regole: basta una Consulta di nominati, ma fatta da giuristi ke vi accedono o x concorso (ovviamente nn truccato...) o x sorteggio (ovvviamente non pilotato...).

Sul "Primus super pares": se anke "de facto", il premier è eletto direttamente dal popolo, ciò avviene tramite un "escamotage elettorale". In realtà riceve ancora l'incarico dal Presidente della Repubblica e abbisogna della fiducia delle Camere. Qdi il concetto di "primus super pares" non può essere accolto.

Sui processi di Milano: ke siano una farsa o meno, lo stabilirà il Tribunale. Auguriamo al Premier di riuscire a dimostrare qto da lui sostenuto, se ne avvantaggerebbe anke il Paese, con un premier nn più sotto scacco.

Sulla magistratura politicizzata: il refrain, col passare degli anni, ha perso efficacia. Peccato, perchè è innegabile ke questa magistratura "deviata" esista. E, ribadiamolo in maniera netta: si tratta di una minoranza. Ma molto attiva e organizzata. Anke perchè la maggioranza "sana" delle toghe non è ke sia impegnata a contrastarla, ma è semplicemente occupata a svolgere il proprio dovere.

Sul "Meno male ke Silvio c'è": Io direi, meno male ke Silvio c'è stato...il suo intervento nel '94 è stato decisivo per non consegnare a una sinistra forse ancora più smarrita dell'attuale il Paese. Ma quell'intervento ke di x sè fu salvifico, ha poi xò impedito la nascita di una Nuova Repubblica, nn intraprendendo la via della "normalizzazione politica". Berlusconi, parlando del lascito del PdL, sembrava voler tracciare un percorso in tal senso. Gli avvenimenti ke si sono susseguiti nell'ultimo anno e mezzo, xò, hanno fortamente influenzato in senso diverso l'andamento delle cose.

Ora siamo di fronte all'ipotesi di un nuovo "tsunami" delle scenario politico-partitico: potrebbe uscirne di tutto, qdi si aspetti a cantare eventualmente "vittoria"...

venerdì 2 ottobre 2009

La legge sul fine vita così non va. Parola di bioeticisti, anche (sorpresa) cattolici

Non sono pochi finora ad avere sostenuto che il disegno di legge sul fine vita licenziato dal Senato ha limiti evidenti di forma e di sostanza. Ad esprimersi su di un tema che il caso Englaro ha portato alla ribalta mediatica (e quindi all’attenzione di una politica frettolosa di chiudere la pratica, dando soddisfazione simbolica al cosiddetto “partito della vita”) non sono stati solo gli addetti ai lavori – i partiti, i legislatori, l’esecutivo…- ma anche quanti, per interesse e vocazione professionale, sono costretti a fare quotidianamente i conti con questa “materia sensibile”.

In questo quadro, è interessante che una critica severa e puntuale sia venuta da un gruppo nutrito di filosofi e di bioeticisti, tra cui spiccano i nomi di alcuni autorevolissimi esponenti di quel pensiero cattolico, a cui pure si dichiarano ossequiosamente debitori i sostenitori del disegno di legge Calabrò.
Il documento, che è stato pubblicato sul blog del C.E.G.A – Centro di Etica Generale ed Applicata dell‘Almo Collegio “Borromeo” di Pavia e che è stato oggi ripreso dal Foglio, merita una lettura attenta e meditata.

Per la pars denstruens, vanno approfonditi i rilievi al testo della proposta. Per la pars construens, vanno (secondo il nostro “interessato” parere) valorizzati i tentativi di delineare una exit strategy, che potrebbe non essere così distante da quella del “disarmo ideologico” proposto da venti parlamentari del Pdl, con un appello pubblicato mercoledì scorso sul Foglio.

Il testo del documento:

I recenti sviluppi delle controversie intorno al “fine vita” e le crescenti difficoltà del legislatore ci inducono a proporre il testo che segue, per continuare un dibattito che contribuisca al varo di una legge equilibrata e rispettosa dei diritti del cittadino.
Il testo sarà presto pubblicato dalla rivista “Paradoxa“.
 Invitiamo tutti quelli che sono al tema interessati, perché intervengano liberamente.

Il “testamento biologico”.
 Quattro premesse di una condivisione possibile.

1) L’accelerazione del dibattito parlamentare su un tema che già nella passata legislatura era stato oggetto di un vivace confronto è avvenuta sull’onda emotiva della vicenda di Eluana Englaro. Il testo votato dal Senato è fortemente segnato e condizionato da questa contingenza. L’art. 1 comma 1 (lettera a) e l’art. 3 comma 1, coerentemente con quanto ci si attende da una legge sul cosiddetto “testamento biologico”, indicano un’eventuale, futura incapacità di intendere e di volere come la condizione in vista della quale il cittadino potrà redigere le sue dichiarazioni anticipate di trattamento. Ma il comma 6 dello stesso art. 3 si riferisce allo stato vegetativo, specificando addirittura che la dichiarazione «assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario». È del tutto evidente che non esiste una condizione di stato vegetativo nella quale un paziente sia ancora in grado di “comprendere”. Ma anche – e soprattutto – che l’incapacità di intendere e di volere non è in nessun modo sinonimo di stato vegetativo. La prima può riguardare potenzialmente centinaia di migliaia di persone (tipicamente tutti i pazienti in stato avanzato di demenza a causa di malattie come l’Alzheimer). Nel secondo si trovano oggi in Italia non più di tremila persone. Non sappiamo insomma a “chi” si applicherebbe l’intera normativa e un chiarimento su questo punto è preliminare ad ogni serio approfondimento dei suoi singoli aspetti.

2) I conflitti bioetici, proprio perché coinvolgono i modi e il senso del nascere e del morire, hanno conseguenze particolarmente laceranti sui “valori condivisi” più volte richiamati anche dal Capo dello Stato come presupposto e garanzia della convivenza e della solidità delle stesse istituzioni. Per questo è forzata e rischiosa la trasposizione del bipolarismo del sistema politico in un corrispondente bipolarismo bioetico, a sua volta interpretato nei termini della logora contrapposizione fra laici e cattolici. Va respinto ogni tentativo di strumentalizzare ai fini della contesa politica di breve respiro il confronto su temi di questa portata, che ne uscirebbero immiseriti e ostaggio di logiche di potere e di scambio comunque fatali per un serio, credibile impegno sui valori. A maggior ragione quando questo impegno diventa di resistenza alle mode e ai modelli dominanti.

3) Non esiste “il” problema del fine vita, ma un fascio di questioni diversificate e complesse. Non è possibile, di conseguenza, affidarsi ad astratte dichiarazioni di principio sulla disponibilità o indisponibilità della vita. Si tratta, piuttosto, di modulare con ragionevolezza l’equilibrio fra due principi entrambi irrinunciabili dal punto di vista costituzionale: la tutela della vita come “interesse della collettività” e presidio della dignità della persona da una parte e, dall’altra, la libertà con la quale ogni individuo decide il senso, l’orientamento della sua esistenza. Non si discute, in Italia, l’introduzione dell’eutanasia come possibilità per il medico di somministrare al paziente “il farmaco che uccide”. Si discute della possibilità che una persona possa chiedere semplicemente di essere “lasciata andare”, senza che più nulla sia fatto per trattenerla. È comprensibile che su questo punto vi siano opinioni e sensibilità diverse, anche fra gli stessi cattolici. È d’altronde proprio l’art. 53 del Codice deontologico dei medici italiani che vieta loro di «assumere iniziative costrittive» o di «collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale» nei confronti di una persona che, pur se adeguatamente informata «sulle gravi conseguenze che un digiuno protratto può comportare sulle sue condizioni di salute», rifiuta comunque volontariamente di nutrirsi. Si può considerare sufficiente a rovesciare questa conclusione il fatto – ovviamente importante – che la propria volontà non possa essere più confermata “qui ed ora”? Risposte diverse a questa domanda non tolgono il comune impegno a sostenere in tutte le situazioni di sofferenza e disagio le “buone” ragioni della vita. L’alimentazione artificiale di un paziente in stato vegetativo può spaccare un paese. Un detenuto può lasciarsi morire di fame e di sete senza che nessuno ne parli.

4) Occorre evitare che una sovraesposizione di casi-limite e questioni indubbiamente di forte impatto “simbolico” funzioni da strategia elusiva delle responsabilità e delle urgenze più pressanti in tema di difesa della vita. Il diritto alla vita non è lo stesso nei paesi ricchi e nei paesi poveri. Ma anche nei primi rimangono o si accentuano le differenze. L’Italia non fa eccezione, come testimoniano i sempre più frequenti casi di malasanità e la crescente tendenza a “fuggire” dalla propria regione per cercare altrove un’assistenza di qualità. Sentiamo parlare tutti i giorni di “turismo” riproduttivo. Sarebbe bene preoccuparsi di quello al quale è costretto chi cerca soltanto di essere curato. E, più in generale, della necessità di garantire l’equa distribuzione delle risorse indispensabili ad una efficace e “giusta” tutela del diritto alla vita in tutte le fasi e in tutte le condizioni dell’esistenza umana.

Stefano Semplici – Membro del Comitato Scientifico del CEGA e Prof. di Etica sociale nell’Università di Roma Tor Vergata (semplici@lettere.uniroma2.it).
Carmelo Vigna – Presidente del CEGA e Prof. di Filosofia morale nell’Università di Venezia (carmelo.vigna@gmail.com).
Giampaolo Azzoni – Direttore del CEGA e Prof. di Filosofia del diritto nell’Università di Pavia (giampaolo.azzoni@unipv.it).

Il testo è aperto alla sottoscrizione di tutti coloro che ne condividono i contenuti: si può indicare la volontà di aderire scrivendolo nello spazio dei commenti o inviando una mail a uno dei primi tre firmatari.

Hanno aderito al testo, fra altri, condividendone i contenuti:
Riccardo Montagnoli – Presidente UGCI di Brescia e Avvocato dello Stato
Pierpaolo Marrone – Prof. di Filosofia morale – Università di Trieste
Mario De Curtis – Prof. di Pediatria – Università di Roma La Sapienza
Pietro De Vitiis – Prof. di Filosofia morale – Università di Roma Tor Vergata
Marco Ravera – Prof. di Filosofia morale – Università di Torino
Grazia Tagliavia – Prof. di Filosofia della storia – Università di Palermo
Ugo Perone – Prof. di Filosofia morale – Università del Piemonte Orientale
Stefano Colloca – Ricercatore di Filosofia del diritto – Università di Pavia
Vanna Gessa-Kurotschka – Prof. di Filosofia morale -Università di Cagliari
Fabio Macioce – Ricercatore di Filosofia del diritto – Università di Roma Tor Vergata
Paolo Carnevale – Prof. di Istituzioni di diritto pubblico – Università di Roma Tre
Roberto Garaventa – Prof. di Storia della filosofia contemporanea – Università di Chieti
Silvio Morigi, Prof. di Filosofia della religione – Università di Siena
Roberto Mordacci – Prof. di Filosofia morale – Università Vita-Salute San Raffaele
Stefano Bancalari – Ricercatore di Filosofia morale – Università di Roma La Sapienza
Antonio Da Re – Prof. di Filosofia morale -Università di Padova
Donatello Puliatti – Avvocato e Docente a contratto nell’Università di Messina
Aurelio Rizzacasa – Prof. di Filosofia morale – Università di Perugia
Francesco Totaro – Prof. di Filosofia morale – Università di Macerata
Laura Tundo – Prof. di Filosofia morale – Università del Salento
Gerardo Cunico – Prof. di Filosofia teoretica -Università di Genova
Laura Paoletti – Prof. di Storia della filosofia – Università di Roma Tre
Silvano Zucal – Prof. di Filosofia teoretica – Università di Trento
Paolo Gregoretti – Prof. di Filosofia morale – Università di Trieste
Luca Vanzago – Ricercatore di Filosofia teoretica – Università di Pavia
Andrea Poma – Prof. di Filosofia morale – Università di Torino
Maria Cristina Bartolomei – Prof. di Filosofia della religione – Università degli Studi di Milano
Romano Madera – Prof. di Filosofia morale – Università degli Studi di Milano-Bicocca
Virgilio Melchiorre – Prof. emerito di Filosofia teoretica – Università Cattolica di Milano
Mario Signore – Prof. di Filosofia morale – Università del Salento
Massimo Reichlin – Prof. di Filosofia morale – Università Vita-Salute San Raffaele
Carla Danani – Prof. di Filosofia politica – Università di Macerata
Giuseppe Cantillo – Prof. di Filosofia morale – Università di Napoli Federico II
Iolanda Poma – Ricercatore di Filosofia morale – Università del Piemonte Orientale
Marco Ivaldo – Prof. di Filosofia morale – Università di Napoli Federico II
Mara Meletti – Prof. di Filosofia morale – Università di Parma
Vittorio Possenti – Prof. di Filosofia politica – Università di Venezia
Pierluigi Valenza – Prof. di Filosofia morale – Università di Roma La Sapienza
Anna M. Nieddu – Prof. di Filosofia morale – Università di Cagliari
Giuseppe Modica – Prof. di Filosofia morale – Università di Palermo
Giovanni Dessì - Ricercatore di Storia delle dottrine politiche – Università di Roma Tor Vergata
Italo Sciuto – Prof. di Filosofia morale – Università di Verona
Michele Nicoletti – Prof. di Filosofia politica – Università di Trento
Maria Moneti – Prof. di Filosofia morale – Università di Firenze
Maria Teresa Pansera – Prof. di Filosofia morale – Università di Roma Tre
Raffaella De Franco – Prof. di Bioetica – Università di Bari
Placido Bucolo – Prof. di Filosofia morale – Università di Catania
Mario De Caro – Prof. di Filosofia morale – Università di Roma Tre
Paolo Heritier – Prof. di Filosofia del diritto – Università di Torino
Carmelo Meazza – Prof. di Filosofia morale -Università di Sassari
Francesco Belvisi – Prof. di Filosofia del diritto – Università di Modena
Giovanni Ferretti – Prof. Emerito di filosofia teoretica – Università di Macerata

Carmelo Palma - 40 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it


CREDITS: Libertiamo