lunedì 22 febbraio 2010

Spero in incontro del Dalai Lama con Berlusconi

Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato del PdL



In una sola occasione, nel 1994, un Presidente del Consiglio italiano incontrò ufficialmente il Dalai Lama. Era Silvio Berlusconi, all’inizio della sua prima esperienza di governo. Spero che in questa legislatura l’ incontro possa ripetersi, e che l’Italia possa così ribadire il sostegno alla causa dell’autonomia tibetana e più in generale a quello della democratizzazione della Cina.



Spero che l’esecutivo, alla prima occasione utile, possa dare riscontro ad una sensibilità che le camere hanno più volte dimostrato, anche in questa legislatura, con l’incontro tra il Dalai Lama e il Presidente della Camera Gianfranco Fini, sostenuto in modo bipartisan dall’assoluta maggioranza dei parlamentari.



Come ha dimostrato oggi Obama, e come prima di lui hanno dimostrato George Bush e Angela Merkel, l’amicizia con la Cina non può significare collaborare all’isolamento politico del Dalai Lama.



Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.





CREDITS: Libertiamo

La moralità del Paese (e non solo della politica) è un problema vero, il moralismo non è la soluzione

Torna prepotentemente sui media la “questione morale” della corruzione in politica. Ma la “questione morale” non si è aggravata in questo periodo. E’ sempre esistita e non è solo politica. C’è stata Tangentopoli, sulla quale è stato detto molto, ma non tutto. Ma certamente paragonare gli episodi di oggi con quanto accadeva prima del 1992 è assolutamente fuori luogo.
Ricordo come vissi quei momenti. Mesi prima dell’ormai noto arresto di Mario Chiesa nel febbraio del 1992, avevo ottenuto dal Consiglio Direttivo di Assolombarda, la maggiore associazione dell’industria italiana, della quale ero Vice Presidente, che una realtà così rappresentativa del sistema produttivo si muovesse formalmente per fare tutto ciò che poteva per combattere la corruzione dilagante. Ormai tutto, o quasi, doveva essere “oliato” . Anche solo per ottenere un semplice certificato o per non dovere scontare ostilità pretestuose in una qualsiasi area dell’amministrazione pubblica, a qualunque livello. Ed anche la giustizia non era esente da forti sospetti, come Cossiga ebbe a suo tempo a ricordare.

Chiesi di parlare al Comitato Provinciale per la Sicurezza e l’Ordine Pubblico, che periodicamente riuniva nell’ufficio del Prefetto il Generale della Guardia di Finanza e dei Carabinieri e il Questore, ai quali illustrai il punto di vista del mondo imprenditoriale, certamente non esente da colpe e non in veste di accusatore. Semplicemente volli presentare loro una panoramica generale sui danni che l’illegalità comportava per lo sviluppo economico e dichiarare la più aperta collaborazione e apprezzamento a tutte le iniziative che avessero portato ad alzare il livello di moralità della amministrazione pubblica e dell’economia. Da parte nostra avremmo sempre più sensibilizzato le migliaia di imprenditori associati a denunciare tutti i tentativi di concussione, affiancandoli legalmente, ma anche dissociandoci laddove ci fosse stata corruzione. Un paio di settimane dopo incontrai anche il Procuratore Generale Francesco Saverio Borrelli, al quale feci il medesimo discorso, con alcuni accenni all’esigenza di una Magistratura al di sopra di ogni sospetto e più tempestiva nei giudizi.

Poi tutto precipitò ed inutili furono i tentativi di quanti, in importanti giornali e nella magistratura stessa, propendevano per una amnistia, con l’obiettivo di chiudere un capitolo della storia d’Italia nella quale tutti i settori dell’economia, della politica e della amministrazione pubblica erano stati coinvolti. Ed io ero fra quanti condivisero il famoso discorso di Craxi del 3 luglio 1992 alla Camera, nel quale il leader socialista chiedeva quale fosse il partito che poteva dichiarare di non aver mai ricevuto fondi illegali. Anche se poi, era noto, in non pochi casi, c’erano stati arricchimenti personali. Quella era stata l’Italia e bisognava voltar pagina.

La pagina venne voltata malamente, con immunità e persecuzioni difficilmente spiegabili con la regola della giustizia equa e uguale per tutti. Su questa storia ancora molto vi sarà da scrivere.
Ma veniamo ai giorni nostri. Oggi i partiti non sono più a caccia di soldi e le concussioni e corruzioni servono all’arricchimento e al potere puramente personale. Non credo siano circoscrivibili le categorie o le aree a rischio. Sono casi che capitano ovunque ci sia un disonesto con potere di ricatto o di controllo, utilizzo e spartizione dei soldi di altri, statali o privati che siano. L’elenco dei casi di malversazione è enorme ed io lo potrei allungare comprendendovi anche quanti “rubano” alle aziende per cui lavorano, anche ai più bassi livelli. Certo è che le aziende combattono per i propri interessi con maggiore efficacia e determinazione, mentre i soldi ed i beni dello Stato sono considerati troppo spesso “di nessuno”.

Come ne usciamo ?
Molto attuale è ancora il libro Progetto per un ‘ etica mondiale di Hans Küng, noto teologo tedesco a volte controcorrente, pubblicato in Italia da Rizzoli nel 1991, che spiega come l’etica sia anche economicamente conveniente.
Quindi cultura-cultura-cultura, che i media non possono trascurare in nome degli appassionati dell’ “Isola dei famosi” . Ma occorre anche che gli eletti siano veramente degli “eletti”, sia moralmente che materialmente, cioè con il voto di preferenza, attraverso il quale si vota la persona e non solo lo schieramento.

Qualche mese fa scrissi una Lettera di un imprenditore liberale a un giovane che vuol fare politica da uomo libero , nella quale ricordavo che con la politica non ci si arricchisce e si fanno sacrifici. Tutto ciò senza pensare di trovare dei “santi” da eleggere in Parlamento. La tolleranza dovrebbe far parte di un vivere in una comunità intelligente. Quindi no a puritanesimi intolleranti, ma anche no ad accettare immoralismi e ruberie, come se niente fosse. E qui la stampa e la giustizia dovrebbero darsi delle regole applicabili per ogni schieramento politico ed economico che sia, non demonizzando senza prove, ma anche mostrando con l’esempio comportamenti “al di sopra di ogni sospetto”. Sarebbe inoltre utile un minore peso del pubblico e della politica nella gestione del Paese. Il tutto corroborato dal buon giudice finale che è il cittadino che vota personalmente il candidato, che compra o meno il giornale che apprezza e che, magari come si fa in qualche altro Stato, vota anche l’elezione del giudice. Diffidando tutti sempre dei moralisti a parole.

Se davvero c’è chi è così “santo , senza peccato da scagliare la prima pietra…”, abbia anche la capacità della comprensione, della tolleranza e del perdono. E’ stato dimostrato che “le guerre sante” lasciano solo morti e devastazioni. La costruzione di una società migliore la si fa con la collaborazione ed il contributo di tutti, “santi” e peccatori veramente pentiti insieme.

Adriano Teso (Bergamo, 1945) - imprenditore, presidente di IVM (una tra i principali produttori mondiali di vernici per legno e di ricerca applicata nel settore), già sottosegretario al lavoro ed alla previdenza sociale nel primo Governo Berlusconi. Fin da giovane ha ricoperto importanti cariche in Confindustria, Federchimica, Assolombarda, dirigendone anche il Centro Studi, e, successivamente, nel Consiglio direttivo della Camera di commercio Italo-Cinese. Liberale appassionato, è stato tra i fondatori dell'Istituto Bruno Leoni e del centro di Studi Liberali. Ha collaborato alla fondazione di Libertiamo, è associato della Fondazione Fare Futuro ed è stato Delegato Nazionale per la fondazione del PDL. Partecipa ad attività benefiche anche attraverso il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio.


CREDITS: Libertiamo

Turchia: si prospetta lo "stato etico"?!

Turchia: il premier denuncia un tentato golpe militare. Ma era di sette anni fa…
Decine di ufficiali arrestati dalla polizia, il piano prevedeva attentati ai musei, bombe nelle moschee, un aereo di linea abbattuto facendo ricadere la colpa sui greci - Non è del tutto chiaro perché Erdogan denunci il colpo di Stato a sette anni dalla sua mancata attuazione


I cinque generali turchi arrestati
La notizia arriva inaspettata e sorprendente: un tentato golpe militare alle porte dell’Europa, dove è già quasi Europa. Un gruppo di generali, che farebbe capo all’organizzazione laico-nazionalista “Ergenekon” – una sorta di “Gladio” – cioè un’organizzazione “coperta” operante dentro lo Stato, progettava di rovesciare il governo e di impadronirsi del potere in Turchia. I primi confusi particolari parlano di una quarantina di uomini in divisa arrestati dalla polizia. Quel che è certo è che a dichiarare il paese in pericolo, a denunciare il complotto armato è stato il premier turco Recep Tayip Erdogan.

Il piano di assalto allo Stato (dall’evocativo nome “Balyoz”, cioè “martello”) prevedeva bombe nelle moschee, l’abbattimento di un aereo di linea civile turco in maniera da farlo risultare vittima di un attacco di caccia greci e attentati nei musei: un fiume di sangue che doveva condurre tutto il paese e tutto il potere nelle mani dei militari in nome della sicurezza nazionale. Era, doveva chiaramente essere la “vendetta” dei militari turchi contro un governo e un paese che si stava sottraendo alla loro tutela. Ma c’è qualcosa di non chiaro nello stesso annuncio del tentato e mancato golpe da parte di Erdogan: tutto doveva avvenire tra il 2002 e il 2003. Sette anni di distanza dai fatti sono molti, anche per un’indagine accurata.

Perché l’attuale e moderatamente islamista governo turco sceglie di denunciare proprio adesso la minaccia? Perché la ritiene non totalmente estirpata? Per infliggere un colpo di immagine all’esercito, alle forze armate turche di oggi? Per preparare il terreno ad una “limatura” ulteriore del carattere laico della società turca, laicità di cui i militari sono da decenni custodi e garanzia? Di certo è singolare la coincidenza: nello stesso giorno in cui denuncia il golpe, Erdogan propone al paese un referendum per togliere all’esercito il compito costituzionale della difesa dello Stato laico, compito assegnato alle Forze Armate dal fondatore della Turchia moderna, Mustafà Kemal Ataturk.

Di certo la Turchia, paese che dovrebbe entrare a far parte dell’Unione Europea, segnala una sua evidente instabilità. In ogni caso: o il governo e il premier sono ancora sotto minaccia, al punto di dover effettuare retate d’emergenza tra i militari, oppure il governo e il premier mettono in scena e sotto i riflettori un golpe antico e fallito per realizzare un contro-golpe costituzionale.


CREDITS: Blitz Quotidiano

Gli amici europei di Vladimir Putin

Dagli abissi della storia sovietica, un appello agli amici europei di Putin

Ieri Repubblica ha pubblicato un appello rivolto ai leader politici europei che “annunciano con orgoglio una nuova era di cooperazione con la Russia”. In primo luogo il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi e il Presidente francese Sarkozy.

E’ un testo disperato, sottoscritto da una serie di oppositori senza peso né seguito reale nella politica russa e da alcuni tra i più prestigiosi dissidenti dell’era Breznev ancora in vita (Elena Bonner-Sakharov, Vladimir Boukovsky, Leonid Plyushch e pochi altri), che denunciano il nuovo incubo sovietico di una Russia non più comunista e registrano come nelle capitali europee gli amici più cari di Vladimir Putin non siano le quinte colonne del nazionalismo russo o, come accadeva per i partiti comunisti dell’Europa atlantica, i “dipendenti esteri” del potere moscovita, ma leader politici di fede occidentale e di storia liberale. Un incubo nell’incubo, insomma.
Mentre la piattaforma satellitare europea Eutelsat censura per conto di Mosca i canali di opposizione che trasmettono in lingua russa, il canale anglofono Russia Today, di stretta osservanza putiniana, potrà liberamente “invadere” l’Occidente. Mentre Putin lavora, all’interno e all’esterno, con il bastone della censura e della violenza militare e poliziesca e la carota della “ragionevolezza” condizionata, l’Europa se ne sta muta e amichevole a guardare questo paese che è passato dal comunismo alla mafia economica, senza passare per il capitalismo di mercato, e dall’internazionalismo rosso al nazionalismo peggiore della sua storia pre-comunista, senza passare per una vera democrazia politica.

E’ un testo che va letto con attenzione, fosse solo per capire quanto poco c’entra con l’attualità politica europea e per dolersene.

Carmelo Palma - 41 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it

Eccolo:

L'appello di intellettuali ed ex prigionieri politici russi
"I militanti democratici subiscono repressioni sempre più dure"
Leader amanti della libertà annunciano un'era di cooperazione con Mosca
Li invitiamo a tenere un atteggiamento fermo. È in gioco il loro onore


Nelle capitali europee, diversi leader amanti della libertà annunciano con orgoglio una nuova era di cooperazione con la Russia. Berlino, che vanta "relazioni speciali" con questo Paese, sta portando avanti imponenti progetti energetici con il monopolista Gazprom. Il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi si è recato recentemente a Mosca a celebrare il 59° compleanno del suo "amico" Vladimir Putin; e a Parigi procedono rapidamente i negoziati con la Russia per la vendita delle modernissime navi da guerra portaelicotteri Mistral.

Al tempo stesso, a Mosca e in tutta la Russia i giornalisti dissidenti e altri militanti democratici subiscono repressioni sempre più dure. Recentemente, il 31 gennaio scorso la polizia di Putin ha arrestato decine di cittadini colpevoli di essersi riuniti pacificamente a sostegno della libertà di riunione, chiedendo al governo di rispettare l'articolo 31 della Costituzione russa, che sancisce il diritto di "radunarsi pacificamente e di indire convegni, manifestazioni, marce e picchetti". La risposta è stata durissima.
I giornalisti che criticano il potere sono sottoposti a vessazioni sistematiche; e purtroppo chi vuole fare informazione senza attenersi a criteri "patriottici" rischia anche qualcosa di peggio dei rigori della giustizia. Nel 2009 più di una decina di giornalisti, militanti dei diritti umani e oppositori politici sono stati assassinati.

Dopo aver imbavagliato, all'interno del Paese, chiunque si azzardi a criticare la Russia e la sua politica nel Caucaso, il governo di Vladimir Putin sta ora prendendo di mira anche le voci dissidenti all'estero, soprattutto se commettono il delitto imperdonabile di esprimersi in russo. Purtroppo dobbiamo constatare con profonda amarezza che quest'offensiva ha trovato sostenitori anche in Europa.

L'ultima vittima della censura orchestrata da Putin e sostenuta dai suoi "amici" occidentali è il canale televisivo caucasico Prvyi Kavkazsky (Primo Caucasico). Fino a poco tempo fa questa emittente di recente creazione, che trasmette in lingua russa, era liberamente accessibile ai telespettatori dell'area post-sovietica. Ma alla fine di gennaio il Gruppo Eutelsat, con sede a Parigi, ha escluso questo canale dalla sua rete satellitare accessibile agli utenti russi.

Evidentemente il megacontratto firmato il 15 gennaio 2010 tra l'operatore russo Intersputnik e Eutelsat aveva posto come condizione la fine dei suoi rapporti di partenariato con l'emittente Prvyi Kavkazsky. La capitolazione di Eutelsat davanti al diktat di Mosca rappresenta un segnale chiarissimo: oggi un'emittente televisiva di lingua russa che contesti la linea del Cremlino non ha più alcuna possibilità di diffondere i suoi programmi sul territorio della Federazione russa. Anche se ha la sua sede all'estero, e se ha firmato un contratto con un gruppo europeo.

D'altra parte, il nuovo canale anglofono Russia Today, finanziato dal governo russo, non ha incontrato gli stessi problemi con gli operatori satellitari europei. Recentemente quest'emittente "ufficiale" ha lanciato, sia negli Usa che nel Regno Unito, uno spot propagandistico in cui la faccia di Barack Obama si trasforma in quella di Ahmadinejad; e nelle democrazie europee nessuno ha sollevato obiezioni. "Russia Today" sarà dunque libera di riversare sui telespettatori occidentali la propaganda che già imperversa sui canali russi, mentre la voce di un'emittente alternativa in lingua russa è considerata come un'intollerabile provocazione.
Se quest'episodio di censura di Prvyi Kavkazsky da parte di un gruppo europeo è certamente drammatico, non rappresenta purtroppo un caso isolato. Il grande progetto di Putin - il consolidamento del "potere verticale" all'interno del Paese e il ritorno all'imperialismo militare sul piano internazionale - è costantemente alimentato dai compromessi e dalle complicità di una parte degli europei.

Il governo francese si prepara dunque a vendere alla Russia una o più navi d'assalto della classe Mistral, benché i militari russi non abbiano fatto mistero delle loro intenzioni riguardo all'uso che intendono farne. Nel settembre scorso l'ammiraglio Vladimir Vysotskyi ha dichiarato trionfalmente: "Con una nave come questa la flotta del Mar Nero avrebbe potuto compiere la sua missione (l'invasione della Georgia, N. d. R.) non in 26 ore ma in 40 minuti.

Poco più di un anno fa, quando i carri armati russi occuparono parte della Georgia, il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer dichiarò che in circostanze del genere "non era più possibile portare avanti i consueti rapporti d'affari con la Russia". Oggi, benché le forze russe continuino ad occupare parte della Georgia violando il cessate il fuoco negoziato dal presidente francese Nicolas Sarkozy, la stessa Nato dichiara l'intenzione di "rafforzare" i propri rapporti col regime di Putin.

Nel momento in cui Mosca imbavaglia i media d'opposizione, elimina i giornalisti "devianti" e sottopone gli Stati vicini a costanti intimidazioni, i leader europei non si limitano a tacere, ma auspicano apertamente più stretti legami col potere russo.

Chiediamo a questi leader di prendere chiaramente posizione in favore della libertà d'espressione e in difesa dei media alternativi che ne sono l'indispensabile strumento. A questi leader chiediamo di ricordare agli operatori europei che non possono farsi strumenti della censura di Putin. E li invitiamo ad assumere un atteggiamento fermo - in primis per quanto attiene alla vendita d'armi - dimostrando che nel XXI secolo non si possono occupare impunemente territori di Stati esteri. E' in gioco non solo la libertà dei cittadini della Russia e dei Paesi vicini, ma anche l'onore e il senso stesso dell'Europa.

Elena Bonner-Sakharov; Konstantin Borovoi (presidente del Partito della Libertà economica); Vladimir Boukovsky (saggista, ex prigioniero politico del Gulag); Natalia Gorbanevskaia (poetessa, ex prigioniera politica del Gulag); Andrei Ilarionov (ex consigliere di Vladimir Putin); Garry Kasparov (leader del Fronte United Citizens); Sergej Kovalev (dirigente di Memorial, Associazione russa per la difesa dei diritti umani, ex prigioniero politico del Gulag); Andrei Mironov (ex prigioniero politico del Gulag); Andrei Nekrasov (regista cinematografi-co); Valeria Novodvorskaya (leader di Democratic Unity of Russia); Oleg Panfilov (presentatore tv, presidente dell'Associazione dei giornalisti in situazioni estreme); Grigory Pasko (giornalista, militante ecologista, ex detenuto politico in Russia); Leonid Plyushch (saggista, ex prigioniero politico del Gulag); Alexander Podrabinek (giornalista, ex prigioniero politico del Gulag); Zoia Svetova (giornalista); Mairbek Vatchagaev (storico ceceno); Tatiana Yankelevitch (archivista, Harvard); Lydia Youssoupova (avvocato, insignita dei premi Rafto e Martin Ennals "per il suo eccezionale coraggio", nominata per il Nobel per la pace nel 2007).

CREDITS: la Repubblica

Il voto cattolico non esiste e la ‘guerra di religione’ contro la Bonino è una sciocchezza

Questa guerra “cattolica” alla candidatura della Bonino è una delle poche cose in cui la leader radicale può sperare per agguantare una Regione che la logica delle cose, dei voti e della cronaca, se non della storia, dovrebbe riportare nel carniere del centro-destra.



L’idea di convincere i cattolici ad odiare una candidata che non odiano affatto è una di quelle scommesse inutili, che non farebbero vincere nulla, ma possono fare perdere molto. Anche perché il “voto cattolico” non esiste. Esiste quello dei cattolici, che andrebbe studiato e analizzato con gli strumenti e il “laico” disincanto degli studiosi delle scienze sociali, non invocato con lo zelo militante e querulo in cui si distinguono ex socialisti ed ex radicali convertiti al fiancheggiamento della Chiesa post-ruiniana.



Gli studi, di cui non mancano esempi recenti, dimostrano che le linee di divisione tra i cattolici praticanti (quel terzo di italiani che è impegnato nella vita ecclesiale e partecipa alla messa con assiduità almeno settimanale) rispecchiano grosso modo quelle dell’elettorato generale, con una preferenza più marcata, ma di certo non straordinaria, per le forze politiche del centro e del centro-destra.



Che quindi i cattolici italiani votino pensando ai temi “eticamente sensibili” e comparando l’offerta politica dei partiti in ragione della loro coerenza con la dottrina della Chiesa, oltre a non essere vero, non è neppure possibile, visto che, dentro il mondo cattolico e dentro la stessa comunità ecclesiale, il dibattito su questi temi è vivo, la posizione non è “una” e le divisioni sono molte, più profonde e meno scontate di quelle riconducibili allo schema destra-sinistra.



Che l’elettorato cattolico possa colpire unito anche quando la comunità dei fedeli marcia così manifestamente divisa è semplicemente un wishful thinking. Resuscitare un’unità politica “cattolica” sui temi biopolitici non sarebbe solo straordinario, ma miracoloso. E sperare nei miracoli per battere la Bonino potrebbe costare caro all’intero PdL e ad una candidata, come la Polverini, giustamente refrattaria alla guerra di religione dichiarata dall’Avvenire.



“Ciò che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse”, ha scritto Giovanni Reale. E si potrebbe dire che anche ciò che si pensa a suo favore, forse, non è così interessante, se a pensarlo sono cattolici che pensano che per stare “dentro la Chiesa” basti credere in Ruini, senza neppure bisogno di credere in Dio.



Carmelo Palma - 41 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it

Sì, ci hanno convinto. Serve una destra Dio, patria e famiglia

Ma mettiamoci prima d'accordo sulle parole...

di Filippo Rossi


La notte porta consiglio. E il ripescaggio del trio patriottardo-Savoiardo ci ha fatto rivedere alcune nostre posizioni. Forse è vero. Quello che ci vorrebbe, in Italia, è una destra Dio, Patria e Famiglia. È proprio così, inutile nascondersi dietro un dito, inutile cercare strade alternative. Lo abbiamo capito, ci hanno convinto: una destra in Italia non può che essere Dio Patria e Famiglia. È questione di dna, è questione di destino. Non rimane che declinarla davvero questa destra, nel suo sistema triadico.

Destra di Dio, dicevamo. Indubbiamente. E quindi destra misericordiosa e tollerante. Destra del dialogo. Destra universale. E infinitamente buona. Destra giusta, anche. Destra che sta con gli ultimi, che offre l’altra guancia. Destra che ama il prossimo suo come se stessa. Che non ruba. Che non uccide. Destra amorevole. E caritatevole. Destra di pace, anche. Che non odia, Che non ha paura degli altri. Destra accogliente. Solidale. La destra di Dio è destra dell’Amore.

Destra della Patria. Destra, quindi, come luogo di valori condivisi. Come abbraccio tra uomini. Come comunione d’intenti. Come unione. Come amore, ancora. Destra della libertà. Della fratellanza. Dell’uguaglianza. E, quindi, destra dei diritti. Destra di cittadini. Mai di nemici. Destra di scelte fatte insieme. Di comunità. Di solidarietà, ancora. Destra mai egoistica. E nemmeno localistica. Destra del noi. Non ideologica, perché le ideologie dividono. E la patria unisce. Destra non dogmatica, perché i dogmi escludono. E la patria, invece, è di tutti, al di là delle idee, degli schieramenti, delle fazioni.

Destra di Famiglia, infine. Destra di legami, quindi. E di tenerezza. E di persone che si vogliono bene. E si aiutano. Una destra carezzevole. Nella buona e nella cattiva sorte. Anima e cuore. Sentimenti. Famiglie vere. Persone. Destra concreta, di problemi risolti e da risolvere. Destra che aiuta chiunque si senta famiglia. Che non giudica, perché famiglia è realtà, è amore. E la realtà e l’amore non seguono le regole dettate dall’alto. Destra di società, quindi, rispettosa delle scelte di vita di ogni persona, del privato, della famiglia. Perché la famiglia – spiegano i filosofi – rappresenta le modalità con le quali l'umanità si organizza a partire da una sola categoria: l'amore.

Sì, ci hanno convinto. Questa destra “Dio, Patria e Famiglia” ci piace proprio. Grazie Sanremo!

19 febbraio 2010


CREDITS: FFWebMagazine

venerdì 19 febbraio 2010

La legge elettorale da sola non può bastare a tutelare la democrazia

Il partito non è una sigla

incollata su un'ambizione

di Sergio Talamo



La legge elettorale, si dice, non è un fine ma un mezzo; una tecnica che, da sola, non garantisce né onestà personale né qualità della politica. Giusto. Ma questa non è una buona ragione per tenerci una legge elettorale che, alla prova dei fatti, ha sepolto ogni fremito partecipativo consegnando la politica a un'oligarchia che non risponde a nessuno.



Il problema della legge attuale basata sulle liste bloccate, non sono le liste bloccate in sé. Qualunque sistema porta in sé il rischio di arbìtri e di abusi. Non a caso, nella Prima Repubblica il meccanismo delle preferenze era tra i principali imputati dei costi esorbitanti delle campagne elettorali. Il problema è che in Italia le liste bloccate si sono associate alla sostanziale scomparsa dei partiti. Quindi, eliminata la selezione naturale e formativa della vita di partito, si è finito che a nominare i parlamentari sono poche persone chiuse in una stanza. Questo è l'esito finale della "rivoluzione" dei primi anni '90. Del resto, nella storia non è la prima volta che le rivoluzioni in nome del popolo producono esiti sovietici.



Solo un partito democratico, partecipato e sano, può produrre candidature all'altezza dei compiti pubblici cui sono destinate. Ma per costruire un partito vero e democratico, ci vuole una passione civile e una pazienza che i nostri politici non hanno dimostrato di avere. Nel corso della Seconda Repubblica i partiti hanno cambiato nome e composizione decine e decine di volte, come in un caleidoscopio impazzito. L'obiettivo era appiccicare una sigla sopra un'ambizione, quasi sempre di corto respiro o personalistico.



Allo stato attuale, sono in campo una decina di formazioni che si fanno chiamare "partiti" ma che in realtà hanno un'impronta monarchica e comunque ancora provvisoria. Il partito diventa così espressione di uno stato d'animo oppure emanazione di un leader. L'unica forza politica che prova a far diversamente è il Pd con le sue primarie. Ma non per caso, al suo interno si suol dire che «si chiamano primarie perché si sa prima chi vince».



È in queste condizioni che le liste bloccate diventano il colpo di scure finale alla democrazia partecipativa; cioè a quel senso di inclusione che la vecchia politica, pur avendo in corso i suoi processi degenerativi, in qualche modo garantiva. Ogni cittadino sentiva di essere una parte, anche minuscola, di qualcosa di più grande e di solido. La sua voce in qualche modo si poteva esprimere: c'erano luoghi e spazi dove far risuonare le proprie opinioni e i propri problemi. L'idea di un sistema "chiuso" non era neppure concepibile. Tra i paradossi della vita italiana c'è anche questo: la vera "casta" è nata proprio dal ceto politico che era stato incaricato di farla dimenticare.



Oggi, Gianfranco Fini auspica il ritorno al sistema dei collegi uninominali. Nel breve periodo in cui la Seconda Repubblica ha adottato questo sistema, si diceva che «uno di Trento era eletto a Reggio Calabria» e viceversa. Ma di certo, quel signore di Trento doveva comunque sostenere una battaglia, farsi giudicare dagli elettori. Non come adesso, dove è eletto prima ancora di essere votato; dove si guadagna il posto con l'inevitabile servilismo verso i pochi che decidono.



La questione è delicatissima e non merita dogmi. Ad esempio, c'è chi predilige le preferenze, e va ascoltato. L'importante è decidere, e non ripetere l'errore di pensare che una legge elettorale possa bastare da sola. L'anima della democrazia sono i partiti, che hanno bisogno di tempo, pazienza, amore. Almeno per quelli, la logica dell'emergenza non funziona.



17 febbraio 2010

lunedì 15 febbraio 2010

Dell'Anarchia Etica del PdL

Il Cavaliere sbaglia se pretende di imporre un’etica obbligatoria

Susanna Turco intervista Benedetto Della Vedova per L’Unità del 10 febbraio 2010 pag. 11


Per misurare la distanza (parecchia) che resta tra quel che pensa il Berlusconi che si «dispiace» per non aver salvato Eluana e il Fini che si dispiace per il mancato silenzio «che avrebbe evitato strumentalizzazioni», non c’è che far parlare Benedetto Della Vedova.
Il radicale del Pdl, indicato ieri dallo stesso Fini come l`interprete della sua linea, sta infatti facendo di tutto perché, sulla legge sul biotestamento in discussione alla Camera, si trovi quella via mediana che consenta di evitare lo scontro finale.
Con l`opposizione, ma anzitutto all`interno del Pdl. La battaglia, per ora, non ha dato grandi frutti. Ma tant’è.
Restando alla cronaca: cosa pensa del dispiacere di Berlusconi?
«Il suo può essere un rammarico personale, ma non politico».
Sbaglia, dunque?
«Penso che sia sbagliato il punto di partenza: in gioco non era salvare o no Eluana, ma mandarle o meno via decreto i carabinieri per obbligarla a restare artificialmente in vita. La sorte ha finito per risparmiare all`Italia questa scena, e credo sia stato un bene che non sia accaduto».
Ma lei non confidava nella “laicità” del Cavaliere?
«Prima dell’accelerazione finale, lui disse che non pensava che il governo dovesse occuparsi della vicenda Englaro. Credo che avesse ragione quel primo Berlusconi, e che il suo istinto più autentico sia quello».
Di fatto il fondatore del Pdl la pensa in un modo, e il co-fondatore in un altro. Come si combinano le due visioni?
«In un grande partito ci sta che si abbiano visioni diverse su un tema del genere. L’errore è ipotizzare che il legislatore possa decidere a maggioranza, imponendo per legge una visione etica di alcuni su tutti. Dentro un partito prima, nel Paese poi».
Pare però, visto l’iter della legge, che proprio questo stia avvenendo.
«E’ il grave errore della linea Sacconi-Roccella: e Berlusconi sbaglierebbe se volesse guidare il Pdl su questa strada».
Insisto: è quel che sta avvenendo.
«Lo so, il testo sta uscendo dalla commissione della Camera così come vi è arrivato dal Senato. Se oggi questo è un problema per me, e magari per Fini, è destinato però a diventare un problema per il partito. Mi auguro Berlusconi lo capisca».
Fini oggi dice «meglio nessuna legge che il testo Calabrò».
«O si trova il modo di fare una legge più umana, o è meglio niente». Roccella dice che entro l’estate la legge si può fare. Continua a confidare in una sorpresa nel voto alla Camera?
«Credo che se si vorrà andare a una conta nel Pdl si farà un errore, ma sono fiducioso che l`Aula, a partire da parti importanti del mio partito, non voterà questo testo»

CREDITS: L'Unità & Libertiamo
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Il voto si conquista con le idee, non con la fede
- da Il Giornale del 5 febbraio 2010 -


Il bell’articolo di Giordano Bruno Guerri di mercoledì scorso ha aperto una discussione sul “voto cattolico” particolarmente salutare per il centrodestra, come testimonia la risposta di Eugenia Roccella, che vorrebbe affidare la vittoria di Renata Polverini nel Lazio all’idiosincrasia cattolica contro la radicale Emma Bonino.
Ammetto di trovare surreale il tentativo di imporre nell’Italia del 2010 uno scontro elettorale giocato sulla fede, anzi, di più, sull’ortodossia dottrinaria.
Ma al di là di questo, il fatto è che – comprensibilmente – i cattolici da tempo, se non da sempre, distribuiscono il loro voto su tutto lo spettro politico, grosso modo come gli altri elettori. Secondo l’indagine condotta dall’Ipsos per le Acli sulle ultime lezioni europee, ad esempio, i cattolici praticanti (circa un terzo dell’elettorato) hanno votato al 50,4% le forze centrodestra, contro un dato generale del 45,5%. Secondo le rilevazioni di Termometro Politico lo scarto sarebbe anche significativamente inferiore. Dovrebbe bastare questo a spostare, in Italia come nel resto dell’Europa cristiana, il centro della discussione politica su altri temi. Ma, come evidenzia la riflessione proposta da Eugenia Roccella, non basta.

L’equivoco sta nel pensare che la passione che anima la discussione bioetica segni il perimetro degli schieramenti politici. Il che, oltre a non essere giusto, non è neppure vero, visto che esistono milioni di elettori berlusconiani, cattolici e non cattolici, che non pensano che Eluana sia stata “uccisa” o che la diagnosi pre-impianto sia un’aberrazione eugenetica.

Il pensiero cattolico impregna la cultura della sussidiarietà e dell’auto-organizzazione sociale che è uno dei contenuti più solidi e moderni della proposta politica del Pdl. Ma non si può usare la dottrina morale della Chiesa come un prontuario legislativo, fingendo non di vedere che su ogni tema sensibile le divisioni che attraversano la società dividono anche il mondo cattolico. Se Possenti, che non è certo un cattolico “del dissenso”, scrive, come ha fatto di recente su Paradoxa, “reputo importante che lo Stato non diventi un monopolista etico su questioni di fine vita che attengono alla sfera gelosa della propria vita” una qualche lampadina dovrebbe accendersi anche nella testa di chi vuole farsi banditore dell’ideale cattolico.

Ma davvero crediamo a milioni di credenti pronti a votare il PdL perché fa la faccia feroce contro le coppie di fatto etero e omosessuali e la loro famiglia “innaturale”? Alle elezioni regionali la famiglia si difenderà contro le coppie gay o facendo una proposta innovativa e intelligente sul welfare domiciliare per minori, anziani e disabili?

Io sono cresciuto alla scuola dell’anticlericalismo “religioso” di Pannella, ma come altri radicali ho avvertito e denunciato i limiti di un ideale anticlericale dal sapore ottocentesco. Anzi, proprio per questo, sono stato considerato un radicale atipico. Altri hanno vissuto un anticlericalismo militante animato dalla convinzione che la Chiesa fosse un potere secolare, votato ad un progetto di dominio sui credenti e sui non credenti. Ora, divenuti paladini del cattolicesimo, sembra che abbiano semplicemente cambiato campo, ma non l’idea che avevano della Chiesa.

Renata Polverini, da cattolica qual è, non vincerà nel Lazio scommettendo su un referendum laici-cattolici, ma dimostrando di essere la leader giusta per un centrodestra innovativo e un governo europeo e pragmatico della Regione, che ospita il cuore della cattolicità, ma da tempo è aperta ad una felice convivenza tra culture diverse.

Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.


CREDITS: Il Giornale & Libertiamo

venerdì 12 febbraio 2010

Il "sinistro" Balducci

Balducci, l’arrestato con più accuse era stato scelto dalla sinistra e nominato da Di Pietro
Il Fazioso | 12 febbraio 2010

Lo scandalo dell’inchiesta sulla Protezione Civile e il G8 a La Maddalena è la prima notizia dei giornali da 2 giorni. E come sempre i media la stanno rigirando, per fini politici, facendo di Bertolaso il colpevole assoluto e il centrodestra come mandante occulto di questa situazione, delle eventuali corruzioni, del sistema malato ecc

La sinistra chiede le dimissioni di Bertolaso (ma quando indagati erano Prodi, Bassolino, De Luca ecc le chiedeva?) e accusa il governo di qualsiasi presunta nefandezza dei membri della protezione civile. Ma non fa riferimenti a certi particolari che le imporrebbero di tacere.

Prendiamo per esempio Balducci, presidente del consiglio superiore dei lavori pubblici, arrestato e praticamente protagonista assoluto nel male nell’inchiesta. A lui sarebbero arrivati favori di tutti i tipi in cambio del suo ok agli appalti per vari imprenditori

Balducci è un uomo della sinistra che anzi era stato ridimensionato dal centrodestra

L’ex provveditore ai Lavori pubblici del Lazio che il governo di centrosinistra, e più esattamente l’ex vicepremier Francesco Rutelli, aveva elevato a incarichi di alto prestigio presso la presidenza del Consiglio e come commissario straordinario in diverse Grandi Opere, il nuovo corso politico l’aveva bruscamente ridimensionato: fu sostituito alla Maddalena nel giugno del 2008 senza spiegazioni, ma oggi si dice che fu per colpa dei preventivi di spesa lievitati troppo, passati da poco meno di trecento milioni di euro ad oltre seicento; così come fu avvicendato nel ruolo di commissario straordinario ai Mondiali di Nuoto di Roma non appena s’insediò il sindaco Gianni Alemanno.

Nello specifico (ovviamente omesso dai manettari del Fatto) è stato anche nominato nel 2006 da Di Pietro

Balducci infatti rimane ai vertici dei lavori pubblici grazie ad Antonio Di Pietro. Il Consiglio dei Ministri n. 13 del 31 agosto 2006, infatti, proprio su proposta dell’allora ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, come recita il comunicato ufficiale, nomina il dirigente di 1ma fascia ing. Angelo Balducci a Capo del Dipartimento per le infrastrutture statali, l’edilizia e la regolazione dei lavori pubblici.

Ricordiamo anche un suo importante ruolo durante la legislatura di sinistra 1996-2001

Per lo stesso Ministero (Lavori Pubblici) diventa responsabile per le zone terremotate dell’Umbria e delle Marche. Nel 1998 e’ riconfermato Provveditore alle opere pubbliche per il Lazio e nel 2001 per l’Umbria.

Può quindi la sinistra additare il centrodestra per questo scandalo (con molti punti oscuri tra l’altro…) quando uno dei principali protagonisti è legato a vari esponenti sinistri? Può giurare che quanto successo non sia accaduto anche negli anni precedenti quando Balducci aveva ruoli persino più importanti?

Insomma la solita superiorità morale a intermittenza della sinistra si dimostra propaganda da 4 soldi, aiutata da giornali amici che pompano le inchieste per colpire i propri avversari politici e coprire certe responsabilità….
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L'amico "Fazioso" ha ragione sulla "supposta superiorità morale della sinistra". Ciò nn toglie ke cmq il centrodestra e il suo leader in primis dovrebbero essere più accorti nel fare certe sperticate difese "a prescindere". Soprattutto, il 'se uno ha fato il 100% e un 1% "discutibile", questo va tralasciato' nn mi pare un buon esempio...

mercoledì 10 febbraio 2010

10 febbraio - Giornata del Ricordo

W l'Italia, W Fiume, Istria e Dalmazia tricolori!

Addio fratelli...



martedì 9 febbraio 2010

Commemorazione della Repubblica Romana

Di Luca Bagatin

Anche quest’anno passerà sotto silenzio la commemorazione della Repubblica Romana, proclamata il 9 febbraio del 1849.
Giuseppe Mazzini ne fu il il propugnatore ed ispiratore politico e fu grazie al valore militare ed al sangue versato dai garibaldini (come Goffredo Mameli) e dal popolo romano, che i moti insurrezionali ebbero successo ed il Papa Pio IX si vide costretto a fuggire a Gaeta.
Passerà sotto silenzio in quest’Italia scarsamente democratica e per nulla liberale, che purtuttavia alla Repubblica Romana dovrà le basi della sua stessa libertà di pensiero, parola ed azione.
La Repubblica Romana, guidata dal trimunvirato: Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini, una volta scacciato il Papa, si dotò infatti immediatamente di una Costituzione liberale la quale, agli Articoli I e II, stabiliva che la sovranità spettasse unicamente al Popolo, il quale si dava per regola tre principi fondamentali: l’eguaglianza, la libertà e la fraternità, senza riconoscere alcun privilegio di casta o di titolo nobiliare.
In tutto il Documento si può peraltro notare come essa ricalcasse perfettamente i principi della Costituzione democratica degli Stati Uniti d’America redatta alla fine del ‘700, ovvero quanto gli USA avevano scacciato il tirannico regime monarchico inglese. Inoltre si può notare quanto fosse liberale e tutt’altro che antireligioso lo spirito di tale Costituzione, la quale, all’Articolo VIII dei Principi Fondamentali stabiliva che al Papa sarebbero comunque state concesse tutte le “guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale” e, all’Articolo precedente, si stabiliva la piena libertà religiosa dei cittadini della Repubblica.
Oggi certa storiografia clericale, leghista e dunque mistificatrice, tende a descrivere i risorgimentali mazziniani di allora come dei “briganti atei ed antireligiosi”. Nulla di più falso e calunnioso, al punto che lo stesso Giuseppe Mazzini ha sempre fatto riferimento nei suoi scritti e discorsi a Dio, inteso come Divinità universale antidogmatica, al di sopra di ogni Potere costituito.
Nella fattispecie la bandiera della Repubblica Romana: il tricolore verde, bianco e rosso, recava al centro la scritta “Dio e Popolo” (che per molti versi ricorda l’iscrizione posta sul Dollaro statunitense “In God We Trust”, adottato circa un secolo dopo, ovvero nel 1956), per rimarcare la fede mazziniana e repubblicana nel Popolo sovrano e nella Divinità Universale (e ciò ci rimanda per moltissimi versi al teismo illuminista e volteriano), la quale non può ritenersi privilegio esclusivo della Chiesa cattolica e del Vaticano.
La Repubblica Romana, purtroppo, durò solamente cinque mesi: soffocata nel sangue il 3 luglio 1849, dopo un mese di assedio, dai soldati francesi di Napoleone III alleati con il Papa. Purtuttavia essa fu un evento storico fondamentale e di svolta nelle lotte risorgimentali per l’unità d’Italia nonché per gettare il seme della speranza verso la creazione di uno Stato laico, civile e repubblicano.
Uno Stato libero dall’influenza della Chiesa e di Casa Savoia, entrambe ree di aver gettato gli italiani, specie i popolani e le classi sociali meno abbienti in generale, nel più nero sottosviluppo.
Oggi, a scuola, di tutto ciò si insegna poco o nulla ed è normale che, raggiunta l’età adulta, si sia poco consapevoli non solo della propria storia e quindi delle proprie origini, ma anche dei propri diritti e doveri.
Se, quantomeno nella scuola pubblica, ovvero in quelll’istituzione per la quale i mazziniani si batterono con maggiore tenacia per garantire a tutti l’elevazione intellettuale, morale e spirituale, si studiasse la Costituzione della Repubblica Romana e i “Doveri dell’Uomo” di Giuseppe Mazzini, sono certo che molti giovani comincerebbero a diventare veramente consapevoli del ruolo politico attivo che ricoprono nella società.
Oggi, invece, si preferisce dimenticare o mistificare.
Denigrare la democrazia e la libertà per erigersi a custodi del nuovo dogma: presunte radici cristiane (in realtà greco-romane), recupero del dialetto (pur non conoscendo bene l’italiano), lotta senza quartiere al “diverso” (in quanto frustrati e annoiati da sè stessi).
Un dogma che si fonda sull’ignoranza, sul pecorume, su una massificazione di cervelli assai poco inclini all’approfondimendo.
Anche per questo – a quasi 150 anni dall’Unità d’Italia – non va dimenticato lo spirito della Repubblica Romana ed i principi mazziniani che in essa trionfarono.
Principi ancor più attuali oggi di ieri: democrazia, emancipazione, comprensione del “diverso”, fratellanza in quanto riconoscimento del principio universale del “siamo tutti nella stessa barca” e fonte di un’unica origine: il ventre di Madre Natura.


CREDITS: Luca Bagatin

giovedì 4 febbraio 2010

Mani Pulite e la mafia, secondo il metodo Di Pietro-Travaglio



di Fabrizio Rondolino



Applicando il metodo Di Pietro-Travaglio alle notizie pubblicate oggi dal Corriere, la conclusione è semplice: sul finire del ’92 il Pm Antonio Di Pietro, esponente di spicco del pool Mani pulite della Procura di Milano, strinse un accordo con la mafia per lasciarla fuori dalle inchieste che si stavano moltiplicando, e che inesorabilmente avrebbero toccato prima o poi anche il nodo politica-appalti-Cosa nostra. In cambio, e diversamente da Borsellino, ebbe salva la vita.



È stato lo stesso Di Pietro a rivelare di essere stato informato dai Ros, alcuni giorni prima della strage di via D’Amelio, di un imminente attentato contro di lui e contro Borsellino. C’è però una differenza, che il metodo Di Pietro-Travaglio suggerisce come decisiva: a Borsellino l’informativa fu inviata per posta, e mai recapitata. A Di Pietro invece la nota fu consegnata insieme ad un passaporto di copertura (a nome Mario Canale), con il quale il Pm milanese andò in Costa Rica con la moglie. Borsellino saltò in aria, Di Pietro tornò al lavoro.



Il 15 dicembre del ’92 Di Pietro cenò in una caserma dei carabinieri di Roma con i vertici dei servizi segreti, con Bruno Contrada e con un rappresentante della Kroll, la più grande agenzia d’investigazione d’affari del mondo, giunto dall’America per consegnargli un premio. Di quella cena sono ora spuntate alcune foto. Nove giorni dopo Contrada sarà arrestato per mafia.



Perché, si chiederebbero Di Pietro e Travaglio, la cena è stata nascosta a tutti, compresi i magistrati di Milano e di Palermo? E’ mai possibile, insisterebbero Di Pietro e Travaglio, che l’allora paladino di Mani pulite non sapesse chi era Contrada, al centro di numerose inchieste già in corso all’epoca della suddetta cena?



In quei giorni Di Pietro non lavorava soltanto su Craxi, ma anche sulla Sicilia; e andò persino a Rebibbia con l’allora capitano De Donno per incontrare Vito Ciancimino. Ma dell’incontro non resterà traccia. Come mai?, domanderebbero Di Pietro e Travaglio. Fatto sta che, a sorpresa, Tonino interrompe ogni rapporto con la procura di Palermo (e con le indagini sugli appalti di mafia) perché dopo la morte di Borsellino “non mi ritrovavo – sono parole pronunciate nel ’99 al processo Borsellino-ter – nel metodo d’indagine degli altri magistrati”. I quali peraltro ignoravano gli incontri eccellenti del loro collega milanese.



È andata davvero così? Non ne ho idea. Di Pietro e Travaglio, invece, non avrebbero dubbi. Forse si potrebbe chiedere un parere a Massimo Ciancimino, che di trattative e di accordi sembra sapere molte cose. Magari in una prossima puntata di Annozero. Il metodo Di Pietro-Travaglio è infallibile: una volta avvicinata al ventilatore, la merda sfugge ad ogni controllo.





CREDITS: TheFrontPage

La destra europea rifletta sull’Europa

Le destre europee non hanno mai avuto un rapporto unico e coerente con il processo di integrazione europea. I motivi sono vari a seconda della tradizione storica del paese, del sostrato statale e dell’humus culturale, sui quali non mi soffermerò. C’è una radice comune, che va a ritroso nel tempo: la cultura conservatrice, come la conosciamo ora in tutte le sue gradazioni, si è formata sulle basi del patriottismo ottocentesco, che vedeva la nazione come un sentire comune basato su una lingua, su una genia, su una religione, su una terra e la difesa dei suoi confini. Tant’è che “l’internazionalismo”, la predicata unione transnazionale degli operai, fu una bandiera delle sinistre socialiste contrapposto al “nazionalismo borghese e capitalista”. Successe che quel concetto di cittadinanza internazionale e cosmopolita, che era stato originariamente un concetto liberale e kantiano, che affondava le sue radici nel desiderio di andare già oltre gli stati nazionali che si andavano costruendo, affinché si garantissero la pace internazionale e la realizzazione dell’individuo oltre le dimensioni statali o proto-statali, veniva preso e ribaltato dal marxismo, che lo trasformò in uno strumento per minare “l’ordine capitalista e borghese”.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale tutto questo cambiò. Le classi dirigenti cristianodemocratiche e liberali, che traghettarono l’Europa fuori dalle macerie postbelliche, si resero conto che era necessario disinnescare anche la mina del nazionalismo; il che comportava non solo la rimozione delle cause economiche della guerra, ma una vera e propria “riforma” dei valori nazionali e il recupero del cosmopolitismo liberale anche in contrapposizione all’internazionalismo comunista. Rimanendo sui paesi più grandi, questo processo si realizzò in diversi modi. In Germania attraverso la decentralizzazione della struttura statale, il bando di tutto quel sistema di valori germanici che era stato alimentato fin dall’epoca guglielmina, e la creazione di un patriottismo basato non più sui concetti di Heimat, Mund, Blut und Boden, (patria, lingua, sangue e suolo) ma su Freiheit, Einigkeit und Recht (libertà, unità, diritto) come valori portanti dell’essere tedeschi. In Italia, invece, ciò avvenne perché, nel bene e nel male le due forze principali erano state essenzialmente “antipatriottiche” ed internazionaliste. Per la Francia fu diverso, sia perché non era stata investita dell’ondata autoritaria e nazionalsocialista come gli altri due paesi fondatori, sia perché aveva vinto la guerra (anche se solo de iure), sia perché aveva una tradizione nazionale più consolidata. Nell’epoca postcoloniale, Charles De Gaulle cercò di rifondare un modo di sentire la patria. Cercò di proporre un modello di Francia che, in virtù della sua grandezza come modello giuridico, politico ed ideale, avrebbe dovuto traghettare l’Europa e il mondo intero verso un “modello francese” diverso dai modelli sovietico e statunitense. In questi nuovi patriottismi, era comunque compresa la volontà di creare, nel lungo termine, un’Europa unita e coesa. La divisione era soprattutto sul come: criterio federalista o criterio intergovernativo.

Ora, specialmente in seguito a questa crisi e alle tensioni che ha provocato, sembra che il centrodestra europeo abbia perso la bussola e sia meno coeso che mai. Se suddividessimo i vari partiti di centrodestra in Europa secondo uno spettro che va dai federalisti ai sovranisti, noteremo che c’è una discrepanza molto elevata. Le forze più liberali si porrebbero nella metà più federalista dello spettro, mentre invece le forze più conservatrici si porrebbero a metà: talvolta si spostano verso il federalismo, talvolta verso il sovranismo. Tranne alcune importanti ma sparute eccezioni, il più delle volte è quest’ultimo a prevalere. Fanno eccezione le forze conservatrici ceche e britanniche, che hanno invece optato in pieno per la difesa della sovranità statale e l’avversione alla costruzione europea, federale o intergovernativa che sia.

Qual è il punto ? Il fatto che il pensiero della destra europea liberale, moderata e popolare, che ha sostenuto la marcia verso la creazione dell’Unione Europea, sia stato e sia tuttora incapace o nolente di pensare ad un concetto di identità europea, che vada oltre i confini e le dimensioni nazionali. Non è stato in grado di concepire e strutturare un sentire comune europeo come, nel caso italiano, furono in grado di fare i grandi autori risorgimentali. E’ la riproposizione dell’antico principio volontaristico dell’essere nazione: attraverso il risorgimento gli italiani, che in quel momento ancora non avevano coscienza di sé, affermarono la volontà di essere popolo italiano.

Come affermò più volte Benedetto Croce, se infatti una persona è parmigiana (come lo sono io) o di qualsiasi altra città in Italia, ciò non esclude che possa sentirsi anche Italiano e sentire “un qualcosa” in comune con un veneto o un siciliano. Lo stesso fatto di essere italiani non esclude il fatto di potersi sentire anche europei. Per anni si è cercato di insegnare alla generazione di italiani nata dopo il Trattato di Roma, il principio “sono italiano, quindi sono anche europeo”. Anche in tutti gli altri paesi europei dove c’è stata questa volontà politica lo si è fatto, ma forse non è bastato.

Da alcuni mesi, in Francia è stato dato al via un dibattito sull’identità nazionale. Ma poco è stato detto su come si inserisce o si debba inserire l’identità francese all’interno dell’identità europea. Sarkozy e l’UMP (salvo alcune eccezioni) sono tuttora fra i principali sostenitori dell’integrazione, ma in casa, al proprio elettorato si continua a parlare di patriottismo francese, di identità francese, di “achetez français” e patriottismo economico francese. Lo stesso problema dell’integrazione e della cittadinanza degli extracomunitari viene trattato come un problema che coinvolge essenzialmente la République, non come di un problema di dimensione europea che coinvolge lo stesso principio di cittadinanza europea.

Per questo, dispiace leggere affermazioni quali: “Significa continuare a subire l’Europa unita (perché l’abbiamo subita, non voluta) senza cedere all’appiattimento che l’Ue vuole imporre a tutti i popoli europei per formarne un altro, gigantesco e astratto, senza radici e senza coscienza di sé” come ha scritto Giordano Bruno Guerra su Il Giornale alcuni giorni fa, parlando del dibattito sull’identità nazionale. In quella frase, non solo sembra mistificato il progetto europeo, ma rischia di essere sminuita l’eredità storica della destra italiana che, fin da Einaudi e De Gasperi, ha avuto come obiettivo la costruzione di un’Europa unita; nella quale l’Italia avesse un suo giusto spazio e nella quale ogni italiano si sarebbe potuto sentire a casa sua in Bassa Sassonia così come in Belgio o in Provenza, senza essere oggetto di odio o di aggressioni come fu in più di un’occasione.

Se vogliamo creare veramente una forza europea che sia liberale e popolare, dobbiamo soprattutto impegnarci a creare un’identità europea che integri le identità nazionali, le accomuni e le apparenti più di quanto non lo siano già. Il risultato non sarà un minestrone, come qualcuno ci vuol far credere, ma un’Europa dove un italiano ed ogni altro europeo si possa sentire cittadino a casa sua; in Lettonia così come in Portogallo e possa realizzare la propria vita nella sua pienezza, senza costrizioni o limitazioni di natura etnica o nazionale.

Francesco Violi - Nato nel 1988, è studente di Economia e Finanza presso l'Università di Parma. Nel 2009 ha vinto una borsa di studio offerta dalla Fondazione Einaudi per una tesina su "Le nuove prospettive liberali per l'integrazione Europea"ed è successivamente diventato coordinatore della Scuola di Liberalismo di Parma.


CREDITS: Libertiamo

lunedì 1 febbraio 2010

Nel PdL è centrale la leadership e occorre parlarne anche al futuro

Penso che Sandro Bondi, nel suo intervento pubblicato mercoledì scorso sul Giornale, abbia detto una cosa sacrosanta: è necessario legare il futuro del Pdl ad una leadership forte, valorizzando il contributo e la forza di novità che Berlusconi ha portato nella politica italiana.

Condivido con Bondi la convinzione che il successo della nostra scommessa dipenda dalla capacità di consolidare il quadro bipolare: il solo che consenta e di fatto imponga, nei due versanti del sistema politico, l’esistenza di grandi country party animati dall’ambizione di rappresentare, in modo inclusivo, il complesso della società italiana e non invece, in modo divisivo, specifiche “nicchie di interesse” culturale, economico e civile. La debolezza del Pd e lo smottamento elettorale democratico verso le posizioni “resistenziali” suggerite dall’alleato dipietrista assegnano, da questo punto di vista, al PdL una responsabilità ancora più forte.

Rispetto al problema della leadership, l’alternativa che il Pdl ha dinanzi non è quella tra il berlusconismo e l’anti-berlusconismo, ma tra i diversi modelli di “funzionamento” che dovranno supportare la vita politica del partito nel futuro post-berlusconiano del Paese. La scommessa del PdL, come hanno sottolineato da tempo numerosi analisti, non è dissimile da quella che vide impegnata la Francia gollista in vista del dopo-De Gaulle. Dopo avere vissuto la straordinarietà di una leadership fondativa, il PdL deve organizzare il passaggio alla normalità, che non significa affatto il “ritorno al passato”. Da partito “prodotto” da una leadership eccezionale, deve divenire partito capace di “produrre” una leadership riconoscibile e riconosciuta da parte di un popolo che, nei suoi caratteri politici di fondo, continuerà ad esistere ben oltre il termine di questa legislatura.

Da questo punto di vista, il PdL sarà destinato a divenire un partito più simile alle grandi forze politiche del PPE, ma non per questo più scialbo e incolore di oggi. Il modello dovrà essere quello della CDU della Merkel, e dell’UMP di Sarkozy (o, per altro verso, dei Conservatori inglesi di Cameron), leader vincenti prodotti da partiti vitali, capaci di grandi scontri e di grandi compromessi, di grande senso della tradizione e di forte capacità di innovazione.

Questo sforzo comporterà un cambiamento delle modalità di funzionamento e del profilo ideale e politico del PdL? E’ probabile e anche auspicabile. La scommessa del PdL si può perdere nel giro di poco tempo (la vicenda del Pd, da questo punto di vista, è un monito da tenere a mente). Ma si potrà vincere solo nel giro di qualche lustro, ed è questo l’orizzonte a cui la sua classe dirigente deve guardare.

Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.


CREDITS: Libertiamo

Per le regionali, meglio tornare alla strategia ed abbandonare la tattica

Ultimamente si fa un gran parlare di alleanze. Casini con il centrodestra in alcune regioni e con il centrosinistra in altre (forse); Di Pietro che alla fine rimane alleato del PD; il PDL che sembra pronto ad un’alleanza con Storace, e tutta una serie di partiti e partitini che invece decide di regione in regione con chi andare.

Per vincere le elezioni non basta avere l’alleanza che su carta disponga della percentuale più alta, anche perché come dimostra la realtà di ogni singola elezione, sono quasi sempre gli indecisi a fare la differenza. Ciò nonostante i partiti politici, sempre più attenti ai sondaggi di opinione, non sembrano tener conto di questo elemento. Se infatti in una fase pre-elettorale, quando il governo (nazionale o locale) è ancora in carica ma la campagna elettorale ancora non ha avuto inizio, i sondaggi di opinione offrono un quadro chiaro di quella che è la rappresentatività di ogni singolo partito, con l’apertura delle danze elettorali il cambiamento si inizia subito a palesare attraverso un costante aumento del numero degli indecisi.

Un primo fattore che potrebbe incidere sull’indecisione di parte dell’elettorato è senz’altro legato al leader candidato alla presidenza. Sembrerebbe innegabile una certa influenza di questa scelta sull’elettorato. Come affermano eminenti sociologi o politologi, si possono affermare diverse tipologie di leader e di leadership a seconda del periodo storico-politico che la società vive.

Altro elemento che potenzialmente incide sulla scelta finale dell’elettore è la coalizione partitica che affianca il candidato alla presidenza. Se è vero che molto spesso sono gli indecisi a fare la differenza, e se è vero che ogni elettore è un essere pensante, allora bisognerebbe chiedersi cosa porta quest’ultimo a votare per uno schieramento piuttosto che per un altro.
Come appena accennato, un primo elemento è la leadership del candidato alla presidenza. Leadership non necessariamente carismatica, burocratica, economica o di derivazione militare, ma soventemente rispecchiante il periodo storico che la società sta vivendo.

Un secondo elemento determinante nella valutazione dell’elettore “chiave” sta nella valutazione della coalizione che sostiene il leader. Nell’ambito di questa coalizione l’elettore pensante considera i partiti alleati sotto un profilo oggettivo e sotto un profilo soggettivo. Da entrambi i punti di vista egli valuterà quale siano i partiti compatibili con la coalizione, con il suo punto di vista politico e con il programma. Egli valuterà oggettivamente la compatibilità tra il programma e la coalizione che sostiene un candidato presidente, e soggettivamente quello che è il suo giudizio su ogni singolo partito facente parte della coalizione stessa.

Il nostro amato elettore valuterà poi quali siano i partiti incompatibili e dannosi per la coalizione sotto entrambi i profili. Se da un punto di vista soggettivo questa incompatibilità può essere intesa come disprezzo per un certo partito e per la sua classe dirigente, da un punto di vista oggettivo questa incompatibilità può essere vissuta come incompatibilità tra i programmi o i leader (proviamo ad immaginare un’alleanza tra PDL e PD).

Un elettore di centrodestra proveniente da una realtà in cui l’antifascismo è molto sentito difficilmente voterà una coalizione di centrodestra che includa di partiti come La Destra o Forza Nuova. Allo stesso modo un elettore simpatizzante per il centrosinistra farà valutazioni secondo quelli che sono i suoi parametri soggettivi, rifiutandosi, ad esempio, di votare la coalizione qualora ne faccia parte Di Pietro. Sia tuttavia chiaro che non vi è sempre coincidenza tra l’elemento soggettivo e quello oggettivo.

Un esempio interessante può essere quello delle elezioni comunali del 2007 nella città di Roma. In quell’occasione nonostante l’attuale dindaco fosse sfavorito dai sondaggi, uscì poi vincitore dalle urne. C’è chi attribuisce quella vittoria alla scelta coraggiosa del sindaco di escludere taluni partiti dalla coalizione (anche in fase di ballottaggio) e chi invece l’attribuisce alla debolezza del candidato Rutelli e alla disomogeneità della coalizione di cui era a capo. Probabilmente concorsero entrambi gli elementi al successo di Alemanno, che di fatto vinse alleandosi con diverse liste civiche ed un partito storicamente antifascista come il PRI, formazione di cui mi onoro di far parte.
Al di là di quelle che possono essere teorie su come l’elettore decida di votare, chi fa politica dovrebbe avere chiaro che l’elettore ha un cervello. Sono pochi quelli che ormai vivono l’appartenenza politica come si poteva vivere il legame con gli USA o con l’URSS ai tempi della guerra fredda. Se la guerra fredda era il periodo di una sorta di antitesi dualistica, questo è il periodo di una sorta di sintesi centrista in cui la moderazione sembra essere dominante.

Venendo all’attualità non v’è dubbio che chi voglia vincere le prossime regionali dovrà iniziare a fare scelte non più partendo da valutazioni tattiche, ma muovendo il proprio agire da considerazioni strategiche. Se è vero quanto ipotizzato sopra rispetto a leadership ed alleanza, pare altrettanto chiaro che a determinare la vittoria di una coalizione non sarà solo la sommatoria delle percentuali, ma la capacità di offrire una sintesi credibile ed una visione politica coerente. Sarà forse il caso che gli allenatori prima di decidere quale sia la squadra da mandare in campo facciano valutazioni prima qualitative e poi quantitative?

Io credo di si. Ad ogni modo i giochi sono aperti. Vinca l’Italia.

Vito Kahlun - Responsabile delle Politiche Giovanili del Partito Repubblicano Italiano, consultore della comunità ebraica di Roma, opinionista de "La Voce Repubblicana" e vicepresidente della Onlus Ben Yehuda


CREDITS: Libertiamo