giovedì 29 aprile 2010

Il perchè delle mie dimissioni irrevocabili

Stamattina alle 9 ho rassegnato le mie dimissioni. Irrevocabili. È stato un atto dovuto, dopo le polemiche degli ultimi giorni. Il mio desiderio più grande è quello di sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Se ero io il problema del Pdl, oggi il problema non c’è più. Faccio un passo indietro. Farò il Vice Presidente “semplice” del Pdl, sarò uno degli 11 vice e continuerò a lavorare per un Pdl diverso da quello attuale.

Non è accettabile che il Presidente del Consiglio chieda la mia testa solo perché ho avuto l’ardire di partecipare a una trasmissione televisiva (Ballarò). Con l’aggravante che avrei rappresentato la “minoranza” del Pdl davanti a milioni di telespettatori. Obama, Merkel, Sarkozy non avrebbero mai nemmeno lontanamente immaginato di fare una cosa del genere.

Non è accettabile che chi ponga in discussione un sistema fondato su un centralismo carismatico che non ha eguali in Occidente, debba essere cacciato o costretto ad andare via. Non è questo il Pdl che sognavamo. Non è questo il Pdl che volevamo e che vogliamo. Un partito che deve essere necessariamente la sintesi delle varie sensibilità e differenze che compongono quel popolo della Libertà che va ben oltre il 38% dei voti che abbiamo preso alle ultime politiche.

Il problema di Silvio Berlusconi è che non riesce a comprendere le dinamiche connaturate a un partito democratico. Un partito liberale di massa deve essere innanzitutto plurale e liberale al proprio interno. Senza liste di proscrizione.

Per difendere la democrazia interna, per difendere l’idea di partito plurale e liberale fui costretto a dire “no” al Presidente Berlusconi quando mi chiese (per usare un eufemismo) di non andare a Ballarò.

Silvio Berlusconi deve capire che chi viene da una storia politica antica, non ha paura delle epurazioni. Non ha paura di esporre in pubblico determinate tesi anche se non condivise. Noi non abbiamo paura. Il partito da cui provengo ha vissuto l’esclusione dall’Arco costituzionale. Ma siamo andati avanti. La mia, la nostra storia ci impone di andare avanti.

Non sono solo. Sono tanti i parlamentari del Pdl che ci esortano ad andare avanti. Lo fanno in privato, in silenzio. Il Pdl sta diventando il partito della paura, altro che partito dell’amore. Forse Silvio Berlusconi ha portato alle estreme conseguenze una famosa frase del Principe di Machiavelli: “Dal momento che l’amore e la paura possono difficilmente coesistere, se dobbiamo scegliere fra uno dei due, è molto più sicuro essere temuti che amati”. Dopo la “profonda gratitudine” al Capo del popolo, abbiamo scoperto che il Pdl si regge sulla regola del “colpirne uno per educarne cento”. Mi dispiace, ma noi vogliamo un partito della Libertà. Quella vera.

Italo Bocchino


CREDITS: GenerazioneItalia

venerdì 23 aprile 2010

Il leninismo della libertà

“Libertà di discussione, unità d’azione: ecco che cosa dobbiamo ottenere….. E’ questo un principio nuovo nella prassi del nostro partito, ed è quindi indispensabile lavorare a fondo per la sua coerente applicazione… per non violare l’unità d’azione del proletariato” (Lenin, Relazione sul Congresso di Unificazione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo – 1906)

“Il principio della democraticità del dibattito non esonera dalla responsabilità di assumere decisioni finali. E una volta che tali decisioni siano state assunte, all’unanimità o a maggioranza, esse acquistano carattere vincolante per chiunque faccia parte del PdL, sia che le abbia condivise, sia che si sia espresso in dissenso” (Autore anonimo, Mozione della Direzione del Popolo della Libertà - 2010)

Più di un secolo e non sentirlo.


CREDITS: Libertiamo

giovedì 22 aprile 2010

Il discorso di Fini: «Da oggi nel Pdl cambia tutto»

Il presidente della Camera alla direzione nazionale del partito

Ringrazio il presidente del partito e tutti gli amici della direzione nazionale e dei gruppi parlamentari, e credo che questa riunione sia un appuntamento utile e per certi aspetti indispensabile per fare chiarezza. Ce n’è necessità per il doveroso rispetto che ognuno deve a se stesso e direi ancor di più per il rispetto che tutti insieme dobbiamo agli italiani. Lo dobbiamo a quegli italiani che, e non va mai dimenticato, hanno dato fiducia al Popolo della libertà, hanno dato fiducia al governo e hanno consentito al Pdl di vincere le elezioni del 2008 e hanno successivamente consentito alla coalizione di confermare il consenso che gode nella pubblica opinione. Una riunione che serve e che deve essere, a partire da me, utilizzata per cercare di spiegare che cosa sta accadendo.

Non voglio usare espressioni che possano apparire inutilmente polemiche, ma francamente mi sembra che anche nelle regia e nell’avvio dei lavori della direzione ci sia stato un atteggiamento un po’ puerile di chi quasi vuole nascondere la polvere sotto il tappeto. Come se non dovessimo parlare esattamente di quel che è, o come se gli italiani nell’ultima settimana avessero visto un altro film, non si fossero accorti che nel Popolo della libertà sta succedendo qualche cosa.

Ma non è certo questo un motivo di polemica, e spero che non sia questo il motivo del contendere. Che cosa sta accadendo? Sta accadendo che su alcuni questioni di carattere strettamente politico – relative a quelli che sono i problemi del Paese, relative a quella che è l’azione del governo, relative a quello che è il ruolo del partito – uno dei cofondatori (ho scoperto che eravamo tanti a cofondare il Pdl) ha delle opinioni diverse rispetto a quelle del presidente Berlusconi. Il che ovviamente non vuol dire negare ciò che il governo ha fatto fin qui. Molte delle cose che hanno detto i ministri sono a conoscenza della direzione, degli italiani e sono la ragione del rinnovato consenso che gli elettori danno al centrodestra.

Avere delle opinioni diverse dal presidente del Consiglio e dal presidente del partito – la cui leadership non è mai stata messa in discussione – significa esercitare quello che credo sia un preciso diritto-dovere. E pongo, in primo luogo, una questione: è possibile derubricare delle opinioni diverse, o se volete delle valutazioni diverse, o ancora delle indicazioni diverse che non sono coincidenti con quello che il Pdl quotidianamente fa? È possibile derubicare ciò come se si trattasse di mere questioni di carattere personale?

Se fossero questioni di carattere personale non saremmo arrivati a questa direzione con la polemica che c’è stata e nemmeno con questa attesa per ciò che accadrà oggi. Non sono le mie bizze, non sono geloso di quel che il presidente del Consiglio fa, ci mancherebbe altro. Sono abituato, quando non sono d’accordo, a dire quello che penso. E, lasciatemelo dire perché evidente, non l’ho fatto di punto in bianco come se all’improvviso non mi piacesse più ciò che ho contribuito ad allestire.

È qualche mese che pongo delle questioni, ed è qualche mese che vedo queste questioni poste nella migliore delle ipotesi liquidate come delle questioni personali, o in alcuni casi, le vedo essere minimizzate. Per carità, forse non meritano tante attenzioni. Ma non credo che siano questioni poste per intralciare l’azione, men che meno per intralciare l’azione del partito, certamente non sono questioni che vengono poste per compiacere gli avversari. Vedi Bondi, è stata una certa caduta di stile, quella di citare alcune affermazioni che certamente possono essere, e in alcune casi lo sono state, polemiche nei confronti del presidente del Consiglio e dimenticare che per aver posto delle questioni nei mesi passati sono stato oggetto in molte circostanze di trattamenti mediatici e giornalistici da parte di colleghi lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio, senza che questo determinasse però una presa di posizione. Non credo che sia motivo di polemica: sappiamo benissimo quali sono le proprietà dei giornali. Sappiamo che sono gli editori che pagano i direttori. Questioni che vanno certamente tolte dal novero delle questioni di cui dobbiamo discutere oggi.

Comincio col porre le questioni. Dire che su alcune vicende, su alcuni problemi, su alcune cosa da fare abbiamo opinioni diverse è una dimostrazione di alto tradimento, al punto da meritare bastonature mediatiche, l’allestimento di roghi o addirittura licenziamenti come si fa per i dipendenti infedeli? Oppure è – e Berlusconi te lo dico in faccia come ce lo siamo detto tante volte in privato – è una dimostrazione di lealtà? Vedi il tradimento, che è nel novero dei comportamenti umani poco dignitosi, alligna in coloro che sono adusi ad applausi, alla pubblica adulazione, salvo poi dire tutt’altro quando il leader gira le spalle. Raramente il tradimento è nella coscienza di chi si assume la responsabilità di quello che pensa in privato e pubblicamente.

Io lo considero un fatto di lealtà. Hai il diritto di replica, ne prendo atto positivamente. Credo sia onesto giocare a carte scoperte, non credo sia alto tradimento dire che alcune cose le possiamo e dobbiamo fare meglio. È una dimostrazione di lealtà, a mio modo di vedere, uscire dal coro di quelli che dicono che tutto va bene. Certamente sono state fatte molte cose positive, non ci sarebbe alcuna ragione per dare un giudizio negativo di quella che è stata l’esperienza del Popolo della libertà e del governo.

Credo che sia uno stimolo con spirito costruttivo quello di chi dice che su alcune questioni si può fare di più, che su alcune questioni ci può essere anche una linea che non è al cento per cento quella che fin qui è stata seguita. È, credo, un contributo di doverosa chiarezza e lealtà che parte dal presupposto che non sono opinioni personali. Possono essere opinioni minoritarie, certamente sì, possono essere opinioni condivise da una quota non maggioritaria della nostra classe dirigente e quindi dell’elettorato. Io non ironizzo quando il presidente del Consiglio tasta il polso della pubblica opinione, cerca di capire cosa pensano gli italiani. Credo che il presidente del Consiglio, da uomo saggio qual è, per tante ragioni si sia chiesto perché sto facendo da tanti mesi qualcuno dice il grillo parlante, il bastian contrario o addirittura l’incendiario che vuole distruggere la casa che ha contribuito a costruire. Si dà il caso che gli italiani continuino a considerare alcune cose che dico meritevoli di attenzione, senza presunzione. Non è una conta, è la fotografia di una condizione che c’è: alcune opinioni, minoritarie, hanno però un determinato consenso. Allora io non credo che riconoscere la libertà di opinione in un partito possa rappresentare il venir meno a un dovere di lealtà.

Il Pdl ha dimostrato di essere un partito democratico, che discute, che vota, ma un partito democratico soprattutto nel bipolarismo europeo, in quel bipolarismo che è uno dei grandi meriti del Pdl e di Berlusconi, nel bipolarismo un partito democratico significa un partito che accetta che all’interno non c’è solo, come ovvio, la discussione e poi la votazione e quindi la linea prevalente, ma che accetta una pluralità di opinioni, di posizioni, che all’interno ci può essere qualche indicazione anche molto diversa da quella che poi va per la maggiore. E non credo che questo significhi mettere in discussione una leadership.

Bondi ha detto di venire da una tradizione che conosceva la degenerazione di alcune regole interne, era la tradizione del centralismo democratico. Anche nel Pci si discuteva e poi si votava e poi c’era una maggioranza. Attenzione però – e anche qui non voglio essere polemico – a non passare dal centralismo democratico a un centralismo carismatico.

Non contesto la leadership di Berlusconi, chiedo se sia lecito avere opinioni diverse e cercare di organizzare all’interno del partito quell’area politico-culturale che su certe opinioni si può ritrovare. Il che non vuol dire tornare all’antico, perché il bipolarismo è la novità dei tempi in cui viviamo. Le correnti erano tipiche dei partiti, non mi sento in difficoltà quando viene ricordato che proprio chi vi parla ha definito le correnti una metastasi, perché erano finalizzate ad acquisire fette di potere interno. Credo che chi in queste ore ha detto “Gianfranco vai avanti perché non hai tutti i torti” abbia messo in conto innanzitutto di perderla qualche quota di potere. Non si tratta di una corrente finalizzata a quote di potere. Si tratta d’altro, si tratta di animare un dibattito che certo poi si conclude con le votazioni ma che parte da posizioni che siano anche in qualche modo dissimili tra di loro.

Dicevo che nel bipolarismo, che è la grande conquista di questi tempi, non ci può essere l’ortodossia e quindi non ci può essere l’eresia e quindi non ci può essere colui che viene messo al rogo se ha delle opinioni diverse perché il bipolarismo è così in tutta Europa. Vogliamo guardare che cosa accade nelle grandi famiglie europee? Non solo quelle del Partito popolare ma anche quella del Partito socialista? Vogliamo guardare per un attimo qual è la dialettica interna all’Ump francese? Alla Cdu tedesca? Allo stesso movimento del partito di Aznar? O in quello di Cameron? Convivono posizioni che sono certamente distanti, ma poi c’è il dovere di una sintesi che sia il risultato di un confronto senza demonizzazioni. Un confronto basato sul rispetto che si deve a opinioni dissimili. E credo che ci sia il diritto-dovere da parte mia di precisarlo meglio questo concetto: perché siamo in una giornata che cambia le dinamiche del Pdl.

Se esiste una componente di tipo politico e culturale che su alcune questioni ha delle opinioni che sono dissimili da quelle prevalenti certamente non ha tutti i diritti: non ha il diritto, a scanso di equivoci, di sabotare l’azione di governo o di remare sempre contro. Perché ha il dovere di lealtà a un progetto che deriva da un patto tra i fondatori e gli elettori. Non ha il diritto di imporre ad altri delle opinioni minoritarie. Ha però, questo sì, il diritto di confrontarsi su come attuare bene il programma di governo, su come evitare che ci possano essere su alcune questioni posizioni che non sono in piena sintonia con l’opinione pubblica. Animare un confronto, da questo punto di vista, non può che fare bene. E quanto più questo sarà scevro da demonizzazioni e scevro dal sospetto che sia finalizzato ad impedire al governo di governare, tanto più sarà positivo per il Pdl, per il governo e per il Paese.

Certo è che oggi – e questo lo hanno capito tutti – viene meno una fase che ha rappresentato la fase costitutiva del Pdl. Oggi non ha più senso parlare di “quote”. Oggi c’è una larga parte del partito che condivide sostazialmente in toto quella che è l’azione del presidente del Consiglio, che è capo del partito, e c’è una piccola componente, chiamatela come volete – e non la corrente nel senso deteriore – che non condivide più in toto. Perché anche qui non è la pregiudiziale contrapposizione: certo che l’azione del governo è stata positiva, ma il problema non è questo. Il problema è che a mio modo di vedere, il Pdl che ha fatto grandi cose, e ha animato l’azione di un governo che sta facendo grandi cose e che non considero certo l’avversario contro cui combattere, su alcune questioni sta perdendo quella che era la sua identità primaria, la sua ragione d’essere.

Che cos’era il Pdl quando insieme l’abbiamo costruito, rinunciando ognuno a qualche cosa, dagli affetti alle organizzazioni? Era certamente un grande partito nazionale che alcuni di noi avevano sognato, pensando che si chiamasse partito degli italiani o partito della nazione, ispirato ai valori del Partito popolare europeo. Garante della coesione dell’intero Paese, capace di dare delle risposte concrete ai bisogni del lavorati, delle imprese. Difensore del senso dello Stato, che come sosteneva Falcone è un valore interiorizzato, non è una sovrastruttura almeno per una certa cultura politica. Garante della legalità dei diritti civili. Motore di un profondo cambiamento, di riforme nell’interesse generale, condivise quanto più possibili. E io ti ringrazio, presidente, per averlo detto oggi con chiarezza quando dici che le riforme si debbono fare con la più larga condivisione possibile. Non c’è dissenso su questo. Non è la corrente che aprioristicamente dice no. Se ci fossimo capiti meglio, avremmo evitato questo: perché fino a qualche tempo fa non sembrava che fosse questo l’orientamento prevalente nel Pdl. Il Pdl non ha tradito questa identità: ma su alcuni punti lo smalto si è un po’ perso.

Le elezioni le ha vinte la coalizione, certamente. Sono talmente poco prevenuto che non ho difficoltà a dire che in alcuni casi le elezioni le ha vinte personalmente Berlusconi, a partire da Roma, dove però, presidente, adesso che la campagna elettorale è finita, ma credi veramente che la lista non sia stata presentata per un complotto dei magistrati cattivi e radicali violenti? La vicenda secondo me meriterebbe di essere approfondita e un partito serio, oggi che non si vota e le elezioni sono alle spalle, la dovrebbe approfondire. Ma è un dettaglio. Le elezioni le ha vinte la coalizione, ma all’interno della coalizione il Pdl, che ha avuto il successo che meritava vista l’azione efficace governo – e lo dico senza ironia – rispetto al 2005 ha un saldo negativo e c’è uno squilibrio tra il Nord e il Sud. Al Sud il Pdl è andato bene, al Nord ha perso consensi e li ha persi da un alto per l’emergere di una tendenza astensionista – sulla quale dobbiamo riflettere e che non ha colpito solo il centrodestra ma tutta la politica, che è un segnale di stanchezza nei confronti dei partiti – ma soprattutto le cose non sono andate come pure potevano andare perché c’è stato uno squilibrio tra noi e il nostro unico, maggiore, migliore alleato: la Lega.

Senza annoiarvi, nel 2005 nell’ambito del voto di coalizione la Lega rappresentava il 16% dell’elettorato, nel 2010 rappresenta il 29%; nel 2005 la Lega non era prima in nessuna provincia del Nord, nel 2010 è prima in nove province del Nord. Non è un grande problema. Quando Berlusconi dice “ma sono i nostri alleati, bisogna tenere conto delle loro esigenze” non mi scandalizzo, non sono nato ieri, le elezioni si vincono in questo sistema con le alleanze. Ma vogliamo chiederci perché è accaduto. Sgombriamo il campo dall’equivoco “Fini dice che abbiamo perso”. Non abbiamo perso, la coalizione ha vinto, il presidente del Consiglio ha ragione quando dice ci ho messo la faccia e abbiamo vinto.

Ma per il Pdl – perché insieme abbiamo fatto un partito e ci dobbiamo occupare del benessere, della salute, dell’organizzazione del partito – vogliamo capire perché al Nord le cose non sono andate come speravamo? Ignazio La Russa ha provato a spiegarlo, ma non mi ha convinto al cento per cento.
C’è stato chi è arrivato a dire “se tu Fini sull’immigrazione continui a dire le cose che dici è di tutta evidenza che al Nord stravince la Lega”. Ma allora dobbiamo metterci d’accordo, non solo con la nostra coscienza ma anche con la nostra cultura politica perché se diciamo di essere un grande partito nazionale, che si ispira ai valori del Partito popolare europeo e che quindi parte dal valore fondante del rispetto della dignità della persona umana.

Allora non sono io il bastian contrario, che dice qualcosa per urtare il presidente del Consiglio, ma sono tanti quando – per compiacere Lega – si dà corso a ipotesi di intervento in materia di immigrazione per le quali un bambino che è figlio di un immigrato che perde il lavoro e quindi il permesso di soggiorno è cacciato dalle scuole come se si trattasse di un bambino serie b. Il rispetto della dignità umana! Non potete dire che non è vero, perché chiudere gli occhi di fronte alla verità non è saggio. E anche qui, chi c’era nell’altro governo ricorderà che ne discutemmo. Ci sarà stata una ragione per la quale all’epoca non passò l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, perché la considerazione non poteva che essere quella che c’è stata. È eretico dire che io non mi ci ritrovo nei valori del Ppe, del rispetto della dignità umana quando sento dire che i medici devono fare la spia, che quando un immigrato clandestino va in ospedale deve essere segnalato ai carabinieri?

Amici ve lo dico col cuor in mano, non fate interesse né del Pdl né di Berlusconi dicendo che sono bugie. Perché sono i problemi con i quali si confrontano in tanti casi i nostri amministratori, sono problemi drammaticamente presenti, discutiamone, cerchiamo di correggerli. Alcune questioni sono state poste in modo incauto o se volete senza prevedere tutte le conseguenze. Allora io non credo che nel Nord la questione rapporto Pdl-Lega sia la conseguenza che siccome Fini e un gruppo di eretici intellettuali dicono certe cose allora i voti li prende la Lega.

Do un’altra lettura. Ma non è che lo faccio adesso. Sono mesi che lo dico - e qui l’ironia e le le accuse. Al Nord siamo diventati la fotocopia della Lega. Presidente, molti sdi quelli che al Nord adesso dicono “per carità Fini che stai dicendo” sono gli stessi che dicono: è drammaticamente vero, qual è la bandiera identitaria del Pdl al Nord? Vi risulta che abbiamo lanciato alto il messaggio che pur c’era nel programma di abolire le province? La Lega non vuole. Vi risulta che nel Nord si sia alzata la bandiera della privatizzazione delle municipalizzate? Che sono diventate il tesoretto degli amministratori leghisti in attesa di mettere le mani sulle banche con le fondazioni? Io considero la Lega un soggetto politico di primaria importanza, con un leader Bossi che sa esattamente cosa vuole.

Non è la polemica nei confronti della Lega. E che io ho cercato di fondare il Pdl. Non di dar ad un’unica associazione con la Lega. Che sono alleati ma su alcuni valori non sono i medesimi. La Lega è un alleato strategico, ma nel Nord l’unica bandiera alzata dalla coalizione è il federalismo: contro il quale non ho nulla ma a certe condizioni. Ma vi risulta che federalismo - nella cultura leghista certamente sì - sia prevedere che l’organizzazione della scuola che mi sembra essere prerogativa sia delle regioni, che in Lombardia ci debbano essere soltanto professori lombardi? Non mi risulta che si sia discusso questo. Ciò vuole dire che l’identità della Lega è chiara, quella del Pdl meno.

Il presidente Berlusconi è il terzo statista che si trova in una congiuntura particolare e favorevole: è allo stesso tempo presidente del partito e presidente del consiglio. Credo che il partito in alcuni casi dovrebbe mettere il presidente del Consiglio nella condizione nel rapporto con gli alleati di opporsi ad alcune richieste. O se vuoi di alzare alcune bandiere.Senza andare troppo indietro nel tempo, nell’epoca in cui De Mita era presidente della Dc e presidente del Consiglio era la direzione nazionale che diceva al presidente che le richieste dei socialisti erano eccessive. È un esempio per dire che la condizione in cui si trova oggi Berlusconi è quella di utilizzare il suo partito per affermare un’identità che non sia l’identità di un soggetto certamente leale, ma leale al governo. L’interesse della Lega non coincide necessariamente con gli interessi del governo. E questo non vuol dire remare contro. E

cco un certo appiattimento sulla Lega è pericoloso, in epoca di federalismo. È pericoloso non solo al Nord, ma soprattutto nel centrosud. Il punto è: nel Sud cresce la preoccupazione perché si ha l’impressione che alcune linee strategiche del governo siano indirizzate dalla cultura leghista. Poi ciò cresce ancora quando si scopre che per risolvere una questione che sta molto a cuore alla Lega – come le quote latte – si sia fatto ricorso ai fondi per le aree sottosviluppate. Tremonti ha ragione nel porre la necessità di queste operazioni. Ma poi è vero che per altre iniziative non ci sono. Così come tanti parlamentari del Nord, caro Berlusconi, tanti del Sud vengono a dirmi che “hai ragione cerca di dirlo tu a Berlusconi” su questo tema.

Adesso i nodi vengono al pettine. Ecco voglio il luogo dove si discuta di questo. Il federalismo fiscale o è una grande opportunità, ma quando le risorse sono poche occorre fare molta attenzione per non creare squilibrio. Ma è soltanto un esempio.

La preoccupazione nel centrosud per una prevalenza anche di tipo culturale che la Lega esercita nell’azione di governo c’è e quindi Berlusconi ti dico un’altra cosa che so che ti dà fastidio, ma te lo devo dire, te l’ho detto mille volte in privato, te lo devo dire in pubblico, altrimenti non ci capiamo: così come tanti parlamentari del Nord vengono da me e mi dicono “Hai ragione la Lega ci sta egemonizzando”, altri del Sud vengono a dirmi “Hai ragione cerca di convincerlo tu Berlusconi che oggi abbiamo preso tanti voti nel Sud, che le elezioni le abbiamo vinte per il voto meridionale, ma adesso i nodi vengono al pettine”.

Nodi che voglio contribuire a sciogliere, non li voglio aggrovigliare. Ma voglio i luoghi in cui si discute voglio avere la possibilità di dire la mia. Voglio per esempio verificare se sul federalismo fiscale la pensiamo allo stesso modo. Non voglio aprire una querelle con Tremonti. Tremonti è stato ed è il migliore ministro possibile in questa fase, altrimenti ci ritrovavamo come la Grecia. Ma in un’epoca di risorse scarse il federalismo fiscale è o una grande opportunità per responsabilizzare la classe dirigente o, senza alcune cautele, senza alcuni antidoti collegati a una cultura nazionale e a un senso di appartenenza, rischia di mettere a repentaglio la coesione sociale. I decreti attuativi che deve fare il governo sono estremamente pericolosi se vengono scritti senza avere come stella polare non accontentare Lega ma garantire l’interesse nazionale.

Io non dirò mai che Bossi non è sensibile all’interesse nazionale, ma vorrei capire per il Pdl, che è anche il mio partito, i decreti attuativi del federalismo fiscale vanno fatti a ogni costo? Questa è la posizione della Lega. Io dico che vanno fatti, sì, ma compatibilmente con la disponibilità finanziaria e con i valori nazionali indiscutibili. E quindi forse sarà il caso – ed ecco la proposta, perché non voglio fare un intervento sottolineando solo che cose che non vanno, ma teso anche a dare un’indicazione – di costruire subito non nel governo ma nel partito una commissione con i nostri governatori del Nord e del Centrosud? Perché con tutto il rispetto per due alleati quali Zaia e Cota la logica dei governatori del Nord, che vogliamo capire nel rapporto con i governatori del Sud, non la possiamo ascoltare dai ministri o dai governatori alleati. Quella logica la dobbiamo definire all’interno di una dinamica di partito. Abbiamo nel Pdl parlamentari che sanno di cosa si parla quando si parla di federalismo fiscale. È provocatorio chiedere, e non in polemica con Tremonti, “Ma i costi li abbiamo previsti?”. Quando si ragionerà con la Lega dei costi del federalismo fiscale e su cosa significhi mettere le regioni del Sud nella condizione ideale, dal punto di vista teorico, del finanziamento che arriva non sulla spesa storica ma sulla spesa standard, abbiamo verificato cosa significa in termini di servizi? È compito certamente del ministro Fitto, ma è compito anche del partito. Allora credo che una commissione che lavori su una road map, sui costi, sui rischi del federalismo fiscale possa essere costituita subito.

Ma c’è anche un’altra grande questione, l’ha detto Ignazio, per far capire se siamo davvero un grande partito nazionale, consapevole della importanza di alcuni valori. Ignazio ha ricordato che siamo alla vigilia del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, allora perché non c’è stata ancora alcuna proposta di partito. È malizioso dire le risorse sono troppo scarse? Quelle risorse sono scarse anche perché la Lega su queste questioni è disinteressata. Io non dico che Tremonti è leghista, io dico che Tremonti deve tener conto delle ragioni della coalizione. Quando si sente dire che le risorse vanno destinate ad altro magari non dispiace all’alleato.

Quando la Padania, non Farefuturo, non il Secolo d’Italia, scrive, testualmente “Unità d’Italia? Ma che ci sarà mai da festeggiare” c’è un certo atteggiamento culturale. Il Pdl ha il dovere di reagire o no? Io dico che un grande partito nazionale per il 150esimo dell’Unità le risorse le trova perché quando Bossi chiede le risorse per altre questioni le risorse si trovano. Allora non credo di essere io l’eretico se dico che così l’identità rischia di affievolirsi. Il tema dell’identità nazionale non è nostalgia e non voglio annoiarvi con banalità come quelle sul tifo alla nostra nazionale.

È evidente che fra tre anni il giudizio complessivo sul governo sarà relativo a quello che è stato fatto per gestire la crisi economica, alle condizioni in cui si troveranno le famiglie e le imprese italiane. Tra tre anni, quando si arriverà alla fine della legislatura, se non avremo fatto qualcosa di reale, di concreto oltre quello che abbiamo già fatto, non credo che basterà l’ottimismo. Berlusconi ha ragione quando parla di ottimismo, ma poi accanto all’ottimismo serve la realtà.

Allora io non credo dire un’eresia se dico che il partito di maggioranza della coalizione, che esprime il presidente del Consiglio e un ottimo ministro dell’Economia, ha il dovere di riflettere su una cosa molto semplice: il programma elettorale è stato scritto in un’altra epoca, quando non c’era stata la crisi globale. Quel programma conteneva impegni che io non credo si possano mantenere al cento per cento da qui a 2013. Perché sarà molto difficile ridurre contemporaneamente il carico fiscale per le imprese e per le famiglie a invarianza di gettito e per giunta avviando quella rivoluzione che è il federalismo fiscale che, come sanno tutti, nella prima fase costa.

Allora è un’eresia chiedere che il Pdl convochi, per esempio, una sorta di stati generali dell’economia per fare il punto su ciò che è realistico fare da qui alla fine della legislatura e su ciò che prevedibilmente non sarà possibile realizzare? Ricordiamo il Fondo monetario di ieri che ha detto che il Pil è destinato a crescere meno del previsto, non me ne compiaccio, me ne addoloro, ma senza le risorse sarà difficile calare le tasse alle imprese e alle famiglie e quando arriverà la prossima campagna elettorale i cittadini ce ne chiederanno conto.

Non bisogna ritenere che sia un’eresia quella di rimodulare il programma in base a ciò che si può fare. E discutere questo non solo fra di noi ma anche con chi ne capisce? E ancora non è forse arrivato il momento di dire magari una verità scomoda: che se vogliamo far stare meglio i nostri figli domani occorre chiedere sacrifici. Abbiamo tre anni, se vogliamo portare interventi che davvero cambieranno la vita degli italiani. Dobbiamo fare ciò che è strategicamente giusto: ipotesi di riforme, non soltanto quelle istituzionali, ma quelle strutturali. Sacconi lo sa benissimo: occorre discutere di welfare delle opportunità, così come di interventi sul sistema previdenziale. È probabile che tutto ciò non sia immediatamente popolare, ma forse ti determina una quantità di risorse poi spendibile in altro. In questo modo questo potrà essere un partito che non solo aiuta l’azione di governo, ma lo indirizza anche verso altro. Che senso ha, del resto, rimanere legati a un’epoca del 2008 e a un programma che risulta datato perché scritto prima della crisi internazionale? Tremonti stesso lo ha ribadito. Di tutte queste questioni credo che debba parlare il Pdl.

Poi c’è l’altra grande questione, connessa al tema della legalità che vuol dire certamente andare fieri di quello che le forze dell’ordine fanno arrestando tanti criminali, di quel preciso e puntiglioso elenco di successi, ma c’è anche qualcosa di più. È indispensabile riformare la giustizia e combattere la politicizzazione di una parte della magistratura, non può in alcun modo mai significare, nemmeno dare la più lontana impressione che la riforma della giustizia che vuole fare il Pdl sia tesa a garantire sacche maggiori di impunità. So che non è così, ma qualche volta l’impressione c’è. L’impressione ad esempio c’è quando poi si legge che quando si ipotizzava la prescrizione breve ci sarebbero stati 600mila processi cancellati dalla sera alla mattina, un’amnistia mascherata. Ma mi spieghi che significa tutela della legalità, riforma della giustizia, lotta alla magistratura politicizzata se poi passano questi messaggi? Questo è dibattito politico, questa è la diversità culturale. Non abbiamo intenzione di essere i bastian contrari, abbiamo però intenzione di cercare di tenere fede a dei valori in cui ci riconosciamo tutti.

Infine l’ultima questione, perché ho parlato troppo, ma spero che quello che ho detto si sia capito non solo qui ma anche agli occhi dell’opinione pubblica, che è molto meno lontana di quello che può apparire. L’ultima questione è quella delle riforme. Avevo preparato un’argomentazione, ma mi taccio perché Berlusconi ha iniziato con una novità politica di prima importanza quando ha detto che le riforme servono – mi permetto di dire che una riforma essenziale, Lega o non Lega, è il restyling del Titolo V, competenze dello Stato e competenze delle Regioni definite in maniera chiara, perché con le competenze condivise rischiamo un contenzioso enorme. Riforma del Parlamento, nuova forma del governo non ne parlo più perché fa testo quello che è stato detto dal presidente del Consiglio: le riforme le dobbiamo fare nel modo più condiviso possibile.

Ma per farlo serve sapere almeno qual è la posizione di partenza del Pdl. Non voglio polemizzare con Calderoli pié veloce che porta al Quirinale la bozza. È un dettaglio, perché mi è stato detto “Quella è la bozza di Calderoli”. Ma sono eretico, sono bastian contrario se dico “Mi fate vedere bozza del Pdl, del mio partito, del partito che ho contribuito a fondare con tutti voi?”. Possiamo discutere della riforma della Costituzione se non sappiamo nemmeno noi che cosa vogliamo se non per grandi titoli? Vogliamo tradurli in una proposta? Il compito del maggior partito della coalizione, che è nato con la volontà di cambiare l’Italia, è dare agli altri le bozze su cui si discute e non di prenderle e poi magari di discuterle dopo come se fossero delle cambiali che devono essere onorate.

Ecco ho detto tutto e spero di aver dimostrato che la mia volontà non è di sabotare, ma di migliorare la qualità della politica del partito e quindi del governo, che è già meritevole di ampia approvazione. Abbiamo dato vita a un miracolo nella politica italiana, il Pdl. Ora cerchiamo di discutere su come farlo funzionare. Oggi che non c’è più la logica del 70-30, Berlusconi farà quel che vuole, dal mio punto di vista deve prendere atto che qualcosa è cambiato, ma faccia lui, non mi interessa, perché una delle cose più stupide che è stata detta è stata quella relativa all’organigramma. Mi rimetto alle decisioni del presidente del mio partito, faccia quel che vuole, ma discutiamone. Anche qui non dico un’eresia e lo sapete. Questo è un partito che ha fatto grandi sforzi. Verdini è stato bravissimo, insieme a Bondi e La Russa, ma vi siete chiesti perché non in un piccolissimo comune ma in Sicilia convivono due partiti il Pdl e il Pdl Sicilia che non è guidato da un uomo di Fini che vuole sabotare. No, è guidato da un uomo del governo Berlusconi, da Micciché. E in quella regione, che è una grande regione, è accaduto che per l’impossibilità di sciogliere i nodi politici è cambiata persino la maggioranza.

Allora non pongo un problema reale quando dico “Vogliamo discutere delle modalità anche dell’organizzazione?”. Vogliamo discutere di cosa significa garantire degli spazi, ma non degli spazi di potere, degli spazi di dibattito e di confronto per chi porta delle idee? Possono anche non piacere, possono essere proposte da buttare, ma credo che prima di farlo, se c’è la volontà – e da parte nostra c’è – di contribuire a far crescere più sana, più forte la comune creatura, allora prima di buttarle quelle idee almeno vengano esaminate.

Intervento alla riunione della direzione nazionale del Pdl, 22 aprile 2010

Fini-Berlusconi: il confronto adesso è a viso aperto

Data storica, quella di giovedì 22 aprile 2010. Per la prima volta qualcuno sfida apertamente e chiaramente Berlusconi e le sue posizioni, sancendo la nascita di una "minoranza interna" in un partito da lui guidato. Il tutto è avvenuto alla Direzione Nazionale del PdL, ed il protagonista della sfida è chiaramente Gianfranco Fini.

Ecco come racconta lo "scambio" tra i 2 co-fondatori, il web magazine di FareFuturo, attaccato dai berluscones come "clava" di Fini...

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«Non mi sembra che le questioni da te evocate abbiano una grande importanza rispetto a tutto quello che abbiamo fatto come Governo e che ci accingiamo a fare». Così Silvio Berlusconi ha affossato – forse definitivamente – il tentativo di avviare anche nel Popolo della libertà un confronto che sia degno di un grande partito europeo.

Eppure i temi sollevati dal presidente della Camera Fini non erano “leggeri” o “marginali”. Si parla del peso quasi insostenibile della Lega nell’attività dell’esecutivo e della sua influenza (soprattutto al Nord, ovviamente) nella individuazione delle linee programmatiche del Popolo della libertà. Si parla dei degni festeggiamenti del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, un’occasione per ripensare il paese e ricucirlo (mentre c’è chi racconta di non tifare, orgogliosamente, per gli azzurri). Si parla di patto generazionale e riforma del welfare per garantire una prospettiva alle giovani generazioni. Si parla di crisi finanziaria e riscrittura del programma economico della maggioranza. Si parla di federalismo fiscale. Si parla di legalità e senso dello Stato, perché «non si può dare l’impressione che la riforma della giustizia serva a garantire maggiori sacche di impunità». E, soprattutto, si parla della possibilità di esprimere valutazioni e sensibilità diverse, nel Pdl, senza dover essere bruciati in piazza, accusati di eresia o tradimento.

Ma niente. All’Auditorium romano che (ironia della sorte) si chiama della Conciliazione, va in scena la contrapposizione dura, frontale, netta. Con Berlusconi che – a Fini che ricorda i duri attacchi mediatici subiti da giornalisti «pagati da parenti del presidente del Consiglio» - sostiene «per la centesima volta» di non parlare con Feltri, e anzi confida di aver chiesto al fratello di mettere in vendita il Giornale. Poi, l’affondo: «Gianfranco, valeva la pena di fare contrappunto politico quotidiano al Pdl, al premier, al governo? Diciamocele tra noi queste cose! Ma tu alle riunioni non sei mai voluto venire e non c'eri neanche a piazza San Giovanni. Un presidente della Camera non deve fare il politico, se vuoi farlo lascia quella poltrona», dice con tono minaccioso il premier e capo del partito. «Che fai, mi cacci? », risponde la terza carica dello Stato.

Insomma, alla una cosa è certa. Nonostante il tentativo dal tono puerile di nascondere il vero scopo della convocazione, trasformandola in una sorta di spot del Governo, a via della Conciliazione si è fatta politica. Senza giri di parole e senza ipocrisia. Il resto, lo vedremo nelle prossime ore.


CREDITS: FFWebMagazine

sabato 17 aprile 2010

Lettera aperta a Silivo Berlusconi

di Gianfranco Miccichè

Caro Presidente,
le vicende politiche delle ultime ore m’inducono a fare qualche riflessione e a portare alla Sua attenzione alcune considerazioni, che, per il ruolo che rivesto, ma soprattutto per il legame (prima affettivo, poi politico) che ha sempre contraddistinto il nostro trentennale rapporto, sento il dovere di esternare.

Le fibrillazioni interne a quel grande progetto politico-partitico che doveva essere il Pdl non possono non pormi davanti a degli interrogativi, su cui credo abbiamo tutti il dovere di riflettere, con grande attenzione. Un dovere che è, prima di tutto e soprattutto, nei confronti dei milioni di cittadini che credono in noi e continuano a sceglierci, come l’ultimo, vero baluardo di libertà, oggi, come potente torcia che illumini quella difficile strada di riforme, di cui il Paese ha estremo bisiogno.

I cittadini ci scelgono, Presidente, ci scelgono da quasi vent’anni, ormai, da quando Lei decise di scendere in campo, per salvare l’Italia dalla deriva comunista, che insidiava le nostre Istituzioni fin nelle loro fondamenta di libertà e democrazia, per – ricordo le sue parole – “non vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a un passato fallimentare” .

Queste parole mi fecero subito comprendere che la Sua discesa in campo fosse animata dal solo desiderio di lottare per il bene comune della Nazione e di farlo irrompendo sulla scena con una classe politica nuova, che sapesse interpretare al meglio quel miracolo italiano, che poi effettivamente compimmo. Mi misi a lavorare, con entusiasmo e senso di responsabilità! Lei mi aveva chiamato ad un compito arduo e gravoso, cioè costruire il partito in Sicilia. E’ vero, si trattava di costruirlo dal nulla, e questo mi spaventava; ma è pur vero che si trattava di costruirlo sulle solidissime fondamenta dell’entusiasmo, mio e di chi, come me, sentiva riecheggiare nella propria coscienza il Suo richiamo al dovere, e questo mi dava forza. Ci riuscimmo, fondammo Forza Italia e, assieme ai nostri alleati, fummo per la politica italiana alternativa alla Sinistra un grande Polo di attrazione, diventammo per il Paese una grande Casa di libertà. E creammo nuova classe politica, quella stessa che ora (lo dico anche con un pizzico d’orgoglio) tiene in mano le redini della Nazione.

Ma c’è qualcosa di ancor più straordinario, di più grande nel nostro cammino, più grande delle vittorie, del potere conquistato e delle cose realizzate: il fatto che, a distanza di tutti questi anni, siamo ancora qui, al Suo fianco. Mi creda, non c’è nulla di più grande della costanza nella condivisione, non c’è nulla di più grande dell’ andare insieme, spalla a spalla, condividendo un lunghissimo cammino, sia esso in salita, sia esso in discesa. Non c’è nulla di più grande della fedeltà e della fiducia reciproca. E’ grazie ad essa se in fondo siamo ancora in cammino, verso quella meta infinita che si chiama Italia. Abbiamo stretto la presa, quando il percorso si faceva irto e insidoso; ci siamo protetti a vicenda, quando qualcuno tentava di farci inciampare; abbiamo resistito a chi, uomo o partito, lasciando proditoriamente quella presa, ha cercato di deviare il cammino e se n’è andato nella direzione opposta. Abbiamo sempre camminato insieme, anche quando quel cammino ha conosciuto tappe impreviste o poco gradite: ce lo siamo detto in faccia, ci siamo confrontati, abbiamo discusso, abbiamo litigato, anche, ma non abbiamo mai deviato, nè imboccato direzioni opposte; siamo rimasti lì, abbiamo continuato a camminare insieme a Lei, mano nella mano, aggrappati con tutto il cuore a quella rassicurante presa; e non ce ne siamo mai andati.
E che entusiamo, quando Lei, rinvigorito dal Suo stesso amore per il Paese, s’è issato su quel predellino, dando vita al Popolo della Libertà! Mi sembrava di rivivere gli entusiami della prima volta, mi sentivo bruciare della stessa passione, mi sembrava di sentire nelle Sue parole lo stesso richiamo: “Io non devo e non voglio convincere nessuno, chi deciderà di esserci ci sarà”. Ed io c’ero, come sempre, con la stessa passione e voglia di condivisione di sempre! E con me tanti altri, alleati e forzisti della prima ora, tutti convinti nel seguirLa, ancora, tutti convinti di essere, in fondo, padri fondatori di un’opera politicamente monumentale, operosi costruttori di un sogno che finalmente si reralizzava: fare di un’alleanza solida e duratura un grande, unico partito riformatore.

Ma quel sogno, purtroppo, durò poco! Presto ci svegliammo e aprimmo gli occhi a una realtà completamente diversa, capovolta. I figli si erano ribellati ai padri, ognuno di noi conobbe le sue Idi, vittima di una meschina congiura, umana e politica, architettata solo per arrivare alla Sua corte da unici privilegiati. Sono stati privilegiati! Ed è così che la corte dei miracoli s’è tristemente trasformata in corte dei traditori miracolati. Ma le Idi non finiscono mai, c’è sempre un Cesare da tradire per chi si preoccupa solo di scalare vette e arrivarci prima di chiunque altro. Questo, Presidente, è l’aspetto che più mi amareggia e più m’inquieta. Nonostante portino in bell’evidenza il più indelebile dei marchi (il tradimento), Lei li ha accolti come i più cari dei figlioli e li ha privilegiati, sulla testa di chi si è sempre preoccupato e, nonostante tutto, continua a preoccuparsi di privilegiare, invece, quel cammino, quella condivisione, quella fedeltà; ma, soprattutto, sulla testa del partito stesso e di chi davvero ci credeva, di chi, immaginandosi una nuova, meravigliosa stagione politica, ha dovuto poi fare i conti con un completo fallimento, talmente evidente, che neanche Lei e la Sua ultima affermazione elettorale riesce oggi a dissimulare.

Perchè? Questo è l’interrogativo, che non posso fare a meno di pormi e che, come me, si pongono in tanti, tantissimi. Perchè? E’ così efficace l’opera di persuasione di questi cortigiani? E’ talmente ficcante, da far passare in secondo piano la loro vera natura? Ed è giusto lasciare il partito in mano loro? E’ giusto lasciare che quell’unione, vecchia e buona, venga sfilacciata dalle nuove Penolopi della politica, che solo in apparenza tessono, ma in realtà mirano a disfare? E quando quel cammino avrà delle soste o conoscerà delle tappe diverse dalla gloria e dalle vittorie? Chi rimmarrà al Suo fianco, di chi sarà la presa che Lei a quel punto sarà cecamente fiducioso di poter stringere?

Ciò che sta succedendo in queste ultime ore come ciò che succede a me da tempo, in Sicilia, mi conferma ancora una volta quanto alto sia il prezzo che rischiamo di pagare al Pdl: la fine di quel cammino! Un rischio che, ovviamente, possono avvertire e paventare soltanto coloro che da sedici anni camminano con Lei e ci credono, ci credono davvero; non certo coloro ai quali poco importa la direzione e poco importa con chi camminare … basta che camminino.

E allora concludo questa mia lettera “a cuore aperto”, con una speranza: la speranza che Lei, Presidente, voglia considerare ed accogliere le ragioni di chi Le vuole troppo bene per dirLe sempre e solo “Sissignore!”, le argomentazioni di chi probabilmente la stima troppo per preoccuparsi solo di compiacerLa, le ragioni e le argomentazioni di chi magari è un pò scomodo, un pò rompiscatole, ma, quando Lei si volta, è certo di trovarsi al Suo fianco. E’ così da sempre! Questa è la mia speranza o un appello, se preferisce considerarlo tale: perchè quel cammino non abbia a conoscere altre soste o deviazioni pericolose, perchè quel cammino possa continuare a vederci ancora UNITI, tutti insieme, verso quella meta infinita chiamata Italia.

mercoledì 14 aprile 2010

Leggere, comprendere, imparare...

Quello che è successo ad Adro (BS), ha dell'incredibile, in un verso e nell'altro. Ricapitoliamo: il Sindaco leghista toglie i pasti della mensa scolastica ai bambini le cui famiglie (NON tutte extracomunitarie, ma la maggiorparte) nn hanno pagato i buoni.

Si scatena un can can tra chi giustifica questa azione parlando di LEGALITA' ed EQUITA', e chi GIUSTAMENTE si indigna.

Qualcuno, non solo s'è indignato, x fortuna...

Ecco la lettera dell'imprenditore che ha saldato il debito. Che amministratori, dirigenti di partito e cittadini traggano il giusto insegnamento...
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Lettera di un imprenditore al comune di Adro, che ha cacciato dalla mensa scolastica i bambini i cui genitori non avevano pagato le rette

IO NON CI STO

Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità. Ho vissuto i miei primi anni di vita in una cascina come quella del film “L’albero degli zoccoli”. Ho studiato molto e oggi ho ancora intatto tutto il patrimonio di dignità e inoltre ho guadagnato i soldi per vivere bene. E’ per questi motivi che ho deciso di rilevare il debito dei genitori di Adro che non pagano la mensa scolastica.

A scanso di equivoci, premetto che:
- Non sono “comunista”. Alle ultime elezioni ho votato per FORMIGONI. Ciò non mi impedisce di avere amici dì tutte le idee politiche. Gli chiedo sempre e solo la condivisione dei valori fondamentali e al primo posto il rispetto della persona.
- So perfettamente che fra le 40 famiglie alcune sono di furbetti che ne approfittano, ma di furbi ne conosco molti. Alcuni sono milionari e vogliono anche fare la morale agli altri. In questo caso, nel dubbio sto con i primi. Agli extracomunitari chiedo il rispetto dei nostri costumi e delle nostre leggi, ma lo chiedo con fermezza ed educazione cercando di essere il primo a rispettarle. E tirare in ballo i bambini non è compreso nell’educazione.

Ho sempre la preoccupazione di essere come quei signori che seduti in un bel ristorante se la prendono con gli extracomunitari. Peccato che la loro Mercedes sia appena stata lavata da un albanese e il cibo cucinato da un egiziano. Dimenticavo, la mamma è a casa assistita da una signora dell’Ucraina.

Vedo attorno a me una preoccupante e crescente intolleranza verso chi ha di meno. Purtroppo ho l’insana abitudine di leggere e so bene che i campi di concentramento nazisti non sono nati dal nulla, prima ci sono stati anni di piccoli passi verso il baratro. In fondo in fondo chiedere di mettere una stella gialla sul braccio agli ebrei non era poi una cosa che faceva male.

I miei compaesani si sono dimenticati in poco tempo da dove vengono. Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l’asticella dell’intolleranza di un passo all’anno, prima con la taglia, poi con il rifiuto del sostegno regionale, poi con la mensa dei bambini, ma potrei portare molti altri casi.

Quando facevo le elementari alcuni miei compagni avevano il sostegno del patronato. Noi eravamo poveri, ma non ci siamo mai indignati. Ma dove sono i miei compaesani, ma come è possibile che non capiscano quello che sta avvenendo?
Che non mi vengano a portare considerazioni “miserevoli”. Anche il padrone del film di cui sopra aveva ragione. La pianta che il contadino aveva tagliato era la sua. Mica poteva metterla sempre lui la pianta per gli zoccoli. (E se non conoscono il film che se lo guardino..)

Ma dove sono i miei sacerdoti. Sono forse disponibili a barattare la difesa del crocifisso con qualche etto di razzismo. Se esponiamo un bel rosario grande nella nostra casa, poi possiamo fare quello che vogliamo?
Vorrei sentire i miei preti “urlare”, scuotere l’animo della gente, dirci bene quali sono i valori, perché altrimenti penso che sono anche loro dentro il “commercio”.

Ma dov’è il segretario del partito per cui ho votato e che si vuole chiamare “partito dell’amore”. Ma dove sono i leader di quella Lega che vuole candidarsi a guidare l’Italia.
So per certo che non sono tutti ottusi ma che non si nascondano dietro un dito, non facciano come coloro che negli anni 70 chiamavano i brigatisti “compagni che sbagliano”.

Ma dove sono i consiglieri e gli assessori di Adro? Se credono davvero nel federalismo, che ci diano le dichiarazioni dei redditi loro e delle loro famiglie negli ultimi 10 anni. Tanto per farci capire come pagano le loro belle cose e case.
Non vorrei mai essere io a pagare anche per loro. Non vorrei che il loro reddito (o tenore di vita) Venga dalle tasse del papa di uno di questi bambini che lavora in fonderia per 1200 euro mese (regolari).

Ma dove sono i miei compaesani che non si domandano dove, come e quanti soldi spende l’amministrazione per non trovare i soldi per la mensa. Ma da dove vengono tutti i soldi che si muovono, e dove vanno?
Ma quanto rendono (o quanto dovrebbero o potrebbero rendere) gli oneri dei 30.000 metri cubi del laghetto Sala. E i 50.000 metri della nuova area verde sopra il Santuario chi li paga? E se poi domani ci costruissero? E se il Santuario fosse tutto circondato da edifici? Va sempre bene tutto?
Ma non hanno il dubbio che qualcuno voglia distrarre la loro attenzione per fini diversi. Non hanno il dubbio di essere usati? E’ già successo nella storia e anche in quella del nostro paese.

Il sonno della ragione genera mostri.

Io sono per la legalità. Per tutti e per sempre. Per me quelli che non pagano sono tutti uguali, quando non pagano un pasto, ma anche quando chiudono le aziende senza pagare i fornitori o i dipendenti o le banche. Anche quando girano con i macchinoni e non pagano tutte le tasse, perché anche in quel caso qualcuno paga per loro.
Sono come i genitori di quei bambini. Ma che almeno non pretendano di farci la morale e di insegnare la legalità perché tutti questi begli insegnamenti li stanno dando anche ai loro figli.

E chi semina vento, raccoglie tempesta!

I 40 bambini che hanno ricevuto la lettera di sospensione servizio mensa, fra 20/30 anni vivranno nel nostro paese. L’età gioca a loro favore. Saranno quelli che ci verranno a cambiare il pannolone alla casa di riposo. Ma quei giorno siamo sicuri che si saranno dimenticati di oggi?
E se non ce lo volessero più cambiare? Non ditemi che verranno i nostri figli perché il senso di solidarietà glielo stiamo insegnando noi adesso. E’ anche per questo che non ci sto.

Voglio urlare che io non ci sto. Ma per non urlare e basta ho deciso di fare un gesto che vorrà dire poco, ma vuole tentare di svegliare la coscienza dei miei compaesani.

Ho versato quanto necessario a garantire il diritto all’uso della mensa per tutti i bambini, in modo da non creare rischi di dissesto finanziario per l’amministrazione, in tal modo mi impegno a garantire tutta la copertura necessaria per l’anno scolastico 2009/2010.
Quando i genitori potranno pagare, i soldi verranno versati in modo normale, se non potranno o vorranno pagare il costo della mensa residuo resterà a mio totale carico. Ogni valutazione dei vari casi che dovessero crearsi è nella piena discrezione della responsabile del servizio mensa.

Sono certo che almeno uno di quei bambini diventerà docente universitario o medico o imprenditore o infermiere e il suo solo rispetto varra la spesa.
Ne sono certo perché questi studieranno mentre i nostri figli faranno le notti in discoteca o a bearsi con i valori del “grande fratello”.

Il mio gesto è simbolico perché non posso pagare per tutti o per sempre e comunque so benissimo che non risolvo certo i problemi di quelle famiglie.
Mi basta sapere che per i miei amministratori, per i miei compaesani e molto di più per quei bambini sia chiaro che io non ci sto e non sono solo.

Molto più dei soldi mi costerà il lavorio di diffamazione che come per altri casi verrà attivato da chi sa di avere la coda di paglia. Mi consola il fatto che catturerà soltanto quelle persone che mi onoreranno del loro disprezzo.
Posso sopportarlo. L’idea che fra 30 anni non mi cambino il pannolone invece mi atterrisce.

Ci sono cose che non si possono comprare. La famosa carta di credito c’è, ma solo per tutto il resto.

Un cittadino di Adro
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Una copia della lettera la potete trovare QUI. Con essa, c'erano anke i 10mila € sganciati dall'imprenditore x mettere fine (?!?) a questa incresciosa vicenda...

martedì 13 aprile 2010

Sulla Riforma Elettorale/1

Il fantasma di Weimar. La pentola proporzionale con un coperchio semipresidenziale?

C’è già stata nella storia d’Europa una forma di governo semipresidenziale accompagnata da un sistema elettorale proporzionale: la repubblica tedesca di Weimar. Non proprio un felice precedente. Nel modello costituzionale di cui la Germania si dotò dopo il disastro della prima guerra mondiale, il presidente del Reich – eletto dal popolo per sette anni - rappresentava il Reich nei rapporti internazionali, aveva il comando delle forze armate, poteva sciogliere il Reichstag (la Camera Bassa) ed era dotato di un particolare potere, una specie di decretazione d’urgenza con la quale era possibile addirittura sospendere alcuni diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, esercitabile in caso di pericolo dell’ordine e della sicurezza pubblica. Il Reichstag, eletto con un sistema proporzionale, concedeva e ritirava la fiducia al cancelliere (il primo ministro) ed al governo. La storia di Weimar è nota, un travagliato succedersi di 21 governi in 14 anni, dal 1919 al 1933, prima della presa del potere nazista e la dissoluzione delle speranze di un modello liberale costruito con l’ambizione di durare.
Per un sistema politico quattordici anni sono quel che per un transatlantico è il viaggio inaugurale, e come per la tragedia del Titanic il crollo di Weimar ha tante cause, alcune casuali, altre “climatiche”, come la grave contingenza economica, altre ancora strutturali. Una di queste era proprio la coesistenza del semipresidenzialismo e di una legge elettorale proporzionale. “Fortemente proporzionale – sottolinea la politologa Sofia Ventura – e quindi foriera di una profonda frammentazione della rappresentanza parlamentare. Quel sistema creava fortissime tensioni tra un presidente eletto ed un parlamento incapace di esprimere governi stabili”.

E’ evidente come le differenze tra l’attuale situazione italiana e quella della Germania del primo dopoguerra superino abbondantemente i punti di contatto, ma la suggestione di Weimar è molto forte: “Dovrebbe farci capire – continua Ventura – che i semipresidenzialismi possono essere tante cose, i dettagli sono fondamentali”. Tradotto in politichese corrente, vuol dire non si può spezzettare un modello senza aver ben presente cosa un meccanismo produce dall’interazione con gli altri meccanismi. “Ad esempio – sottolinea Luca Mezzetti, docente di diritto costituzionale a Bologna – è fondamentale che la riforma costituzionale si faccia carico di rendere coerente la forma di governo con quella di stato. Vedo i rischi di uno sbilanciamento”.

Il sistema elettorale per l’elezione del parlamento italiano è ovviamente molto diverso da quello tedesco weimariano, essendo caratterizzato da una importante componente maggioritaria, il premio di maggioranza attribuito alla coalizione vincente, e da soglie di sbarramento relativamente alte per le forze non coalizzate. Eppure, come ogni sistema proporzionale incentiva la frammentazione, a partire da quella intra-coalizione, come mostra la tornata elettorale del 2006.

La frammentazione partitica farebbe venir meno il principio cardine su cui si basa il sistema francese (ancor più da quando sono stati uniformati i mandati parlamentare e presidenziale, con la sostanziale eliminazione del rischio della coabitazione): per Ventura “il sistema di governo francese si basa sulla centralità del capo di stato, un presidente che governa e che, in quanto leader di fatto della maggioranza parlamentare, si impossessa degli ampi poteri dell’esecutivo”. Il presidente si trova a diventare il leader di una maggioranza parlamentare omogenea “grazie alla forza trainante della competizione presidenziale a doppio turno con ballottaggio, che rende necessaria la formazione, quantomeno al secondo turno, di una maggioranza assoluta”. Traducendo le parole di Ventura: è la maggioranza presidenziale il collante della maggioranza parlamentare.

Anche rispetto all’elezione del presidente della Repubblica, seguendo il ragionamento di Ventura, il doppio turno pare imprescindibile, per ridurre la forza dei partiti piccoli ed attrarli nello schema bipolare. “Proprio il doppio turno – commenta Mezzetti – permetterebbe ad esempio al centrodestra di riassorbire l’Udc o al Pd di non perdere l’aggancio con l’Idv. Ma diciamolo francamente: Berlusconi teme che l’eventuale calo di affluenza al voto per il secondo turno penalizzi soprattutto il centrodestra e possa minare la solidità dell’alleanza con la Lega”. Sul punto Sofia Ventura è molto netta: “Vogliono un turno unico per il presidente? Allora predispongano un sistema all’australiana, obbligando l’elettore ad indicare il suo ordine di preferenza dei candidati, in modo da determinare il vincitore sulla base di una maggioranza assoluta di consensi. E’ un elemento fondamentale”.

E’ bene fare attenzione a non confondere il piano delle riforme con quello dell’opportunità politica di breve periodo, quella di non scontentare la Lega Nord. Il partito di Bossi punta al colpo grosso, diciamolo con franchezza: Berlusconi insediato in un Quirinale dal sapore di Eliseo, affiancato però non da un governo “del presidente”, ma da un esecutivo condizionato da una maggioranza a trazione leghista. A parti invertite, tra centrodestra e centrosinistra, sarebbe come avere presidente della Repubblica il leader del Pd ed il governo ostaggio di Di Pietro. Se oggi il PdL accetta questo compromesso, il pasticcio sarebbe molto probabile. Ci condanneremmo per miopia politica ad uno schema in cui i partiti più grandi, capaci di esprimere i candidati alle presidenziali (una competizione maggioritaria) e a catalizzare intorno a sé le forze minori, finirebbero in parlamento ad essere fortemente condizionata da queste ultime, veri “parassiti” anti-sistemici (à la Le Pen) o centristi (à la Bayrou, leggasi Casini).

Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo. Ha scritto, con Carlo Lottieri, "Come il federalismo può salvare il Mezzogiorno" (2008, Rubbettino) ed ha curato "Dopo! - Ricette per il dopo crisi" (2009, IBL Libri).


CREDITS: Libertiamo

lunedì 12 aprile 2010

“We are today the radicals”. Cameron reinterpreta il codice genetico dei conservatori

La missione, è, brutalmente, questa qui: catapultare i conservatori al governo coi voti dei progressisti. David Cameron, leader dei Tory britannici, ci prova. A interrompere tredici anni di dominio laburista. A riscrivere il codice genetico di un partito, il suo, ereditato con le lancette ferme alla fine degli anni ’80, a contemplare le reliquie politiche della rivoluzione tatcheriana. Come se nel frattempo Blair non fosse esistito, la City londinese non fosse diventata il centro della finanza europea e Roman Abramovich non avesse comprato il Chelsea.

E’ vero, Cameron vuole vincere le elezioni del 6 maggio. E ci mancherebbe altro. Ma sa che può farlo solo con un proposta politica originale, solida nei contenuti quanto spregiudicata nel messaggio. Ci lavora da 5 anni, dal giorno in cui è succeduto a Michael Howard alla guida dei Conservatives. Oggi sfida un Gordon Brown afasico e annebbiato dalla crisi economica, e qualche giorno fa ha consegnato a un giornale avversario, il Guardian, la sintesi del nuovo profilo “radicale” dei conservatori.

“There has been a strange reversal in British politics. Labour have become a reactionary force while the Conservatives are today the radicals. Gordon Brown heaps taxes on the poor, blocks plans to improve gender equality, allows rape crisis centres and special schools to shut. He echoes the far right in demanding “British jobs for British workers”, then plays to the far left in reigniting class warfare”.

Qualcuno li ha anche definiti “Red Tories”, per il tentativo di metabolizzare dieci anni di laburismo blairiano svuotando i laburisti, per l’attenzione alle comunità locali, agli agenti intermedi della società, alla “realità” dell’economia. Rossi, ma sempre Tory, se è vero che il core del nuovo alfabeto conservatore resta l’anatema contro lo statalismo, la delucidazione contro intuitiva dell’antisocialità della spesa pubblica (”We will ask the review to consider how to introduce a pay multiple so that no public sector worker can earn over 20 times more than the lowest paid person in their organisation”) e la fiducia nelle persone.

“Now consider our party. As Conservatives, we trust people – which is why we are now the party of progress. Our policies are radical, our manifesto based on redistributing power from the centre, in politics and public services. Who can honestly say the Big Government approach is working, when inequality is rising and social mobility is stalled? Our solution is to use the state to remake society – to build the Big Society, enabling people to come together to drive progress.”

La Big Society contrapposta al Big Government. E qui Cameron marca le distanze tanto da Brown quanto dalla Tatcher. Famigerata una frase della Lady di ferro a proposito della società (“La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie”). Ma ciò che non serviva alla Tatcher (la società, appunto), è oggi fondamentale nella narrazione politica del partito conservatore post – Blair. Se la politica è dinamica, e gli individui e le società lo sono addirittura in misura maggiore, la sintesi culturale e la prolusione programmatica di un leader politico moderno non possono non tener conto dei mutamenti intercorsi, delle sensibilità maturate, del fatto che in un paese civile le riforme e i cambiamenti non sono palingenetici ma incrementali. E che non ha senso rinchiudersi nel pantheon di famiglia a rimirare fasti del passato mentre il mondo viaggia spedito verso il futuro.

Di Cameron, forse, è apprezzabile più lo sforzo a costruire un contenuto politico che il contenuto stesso. La sfida di questo quarantenne leader londinese, semi aristocratico e popolare, umanamente simpatetico e mediaticamente sbarazzino, è la sfida per tracciare la frontiera della destra europea dei prossimi 15 anni. Noi di Libertiamo, nel nostro piccolo, ci stiamo e la raccogliamo. Perciò subito dopo le elezioni voleremo a Londra per discuterne con gli animatori di BrightBlue, il think tank conservatore presentato qualche settimana fa proprio da Cameron, con l’obiettivo di rilanciare insieme a loro una fase costituente anche nel centro destra italiano. Nel frattempo, ne siamo sicuri, i Tories, forse anche grazie ai LibDem dell’intraprendente Nick Clegg, avranno dimissionato il governo Brown e gli ultimi tredici anni di laburismo al potere.

Lucio Scudiero - 23 anni, salernitano, è laureando in Giurisprudenza presso l'Università Federico II di Napoli. E' fellow dell'Istituto Italiano Privacy, con cui ha collaborato nella redazione del volume "Next Privacy", edito da Rizzoli. Tra i fondatori dell'osservatorio economico SalernoeCapitale, socio fondatore dell'associazione Scelgo l'Italia, collabora con Libertiamo dal febbraio 2010.


CREDITS: Libertiamo

mercoledì 7 aprile 2010

Pasquino racconta successi e destini della ‘Lega dei due lombardi’

La Lega corre avanti e indietro – adesso abbiamo anche i “celtici devoti” (e opportunisti) – e si prende i voti, non troppi, in verità, anche se abbastanza per crescere in potere e in cariche. È soprattutto il Popolo della Libertà che, a causa della sua identità indefinita e alquanto sbiadita, le concede libero accesso al suo territorio di caccia che, sarà il caso di sottolinearlo, non è mai stato maggioritario nel paese.
La forza della Lega dipende da tre fattori. Il primo è sicuramente la sua leadership: indiscussa. Bossi è amato, riverito, diventato persino saggio e dotatosi di qualche brandello di sense of humour, come quando ha fatto i complimenti a Berlusconi per avere resistito di fronte ad una Lega “scatenata”.

Il secondo punto di forza è la sua capacità, non da oggi, di plasmare l’agenda politica. Nessuno può credere che Berlusconi sappia che cosa è il federalismo né che possa mai diventare una sua priorità. Non sa neanche che intercorre un’enorme differenza fra l’elezione diretta del Primo Ministro (attuata esclusivamente in Israele e rapidamente abbandonata) e il presidenzialismo. Su entrambi i punti, la Lega non si cura di esprimere la sua posizione che, però, logicamente, dovrebbe essere presidenzialista. Del federalismo, la Lega ha saputo fare un feticcio che, nella sua struttura, rimane incompreso dal suo elettorato, ma viene valutato come un modo per tenersi le tasse in casa, laddove vengono pagate e, magari, per affamare Roma ladrona. Il federalismo è uno straordinario strumento di propaganda politica, destinato a durare.

Il terzo elemento di forza della Lega è che Berlusconi è la versione “ricca” (da nouveau riche) del leghismo lombardo. Su tutte le tematiche leghiste, a cominciare da Roma ladrona, dalla burocrazia costosa, oziosa e inefficiente e dall’antipolitica, Berlusconi è il “più stretto compagno d’armi del Senatur Bossi”. E di lì non si muove. Nelle regioni del Nord, i due elettorati sono assolutamente contigui tanto che l’unica vera rottura fra Bossi e Berlusconi avvenne non casualmente nel 1994 quando il capo della Lega percepì che il Presidente del Consiglio voleva erodere il suo elettorato e catturare i suoi molti parlamentari. La caduta del governo Berlusconi fu accompagnata dalla fuoriuscita, prova provata dei giustificati timori di Bossi, di un terzo dei senatori e dei deputati leghisti. Fuori usciti e fuori rimasti, poiché Bossi, giustamente, non li volle più e perché i voti ottenuti da quei parlamentari erano essenzialmente di proprietà non loro, non delle loro persone né, tanto meno, delle loro poco conosciute (e allora probabilmente inesistenti) capacità politiche, ma degli elettori leghisti.

La Lega è un partito, ovvero un’organizzazione di uomini, molti, e donne, poche, che cercano e ottengono voti per vincere cariche, attorno a pochi chiari principi politici. Quegli uomini e quelle donne sono radicati nel territorio e dal territorio conosciuti, selezionati, premiati. Parte non piccola delle candidature, soprattutto nazionali, del PdL sono reclutate da Berlusconi, quasi mai con riferimento alla loro rappresentanza territoriale, origine sociale, biografia politica. Poi, i prescelti vengono anche paracadutati, ma, selezionati e dipendenti dal capo, non hanno quasi nessun incentivo a fare attività sul loro territorio. Al massimo, continueranno la loro attività professionale, a prescindere e a scapito della attività politica. Tanto poi, se del caso, verranno riselezionati da Berlusconi stesso.

La Lega è un partito del territorio, guidato da un leader populista nato, cresciuto e impostosi sul territorio. Il Popolo della Libertà è un partito nella misura in cui lo vuole il suo leader, ma è radicato soltanto, da un lato, grazie agli ex di Alleanza Nazionale, dall’altro, grazie ai politici, soprattutto ex-democristiani e qualche socialista, della Prima Repubblica. Per di più, il PdL è un partito che non potrà strutturarsi fintantochè il suo leader sarà Berlusconi il cui, per quanto molto appannato, potere carismatico non consente, non tollera, non vuole nessuna istituzionalizzazione.

Il Popolo della Libertà ha limiti oggettivi alla sua espansione, già raggiunti ed è in leggero ripiegamento. La Lega si espande, per contagio e per imitazione. È allegramente arrivata in Toscana e nelle Marche. Trova chi raccoglie le firme per presentare le liste, individua chi è disposto a candidarsi, raccoglie voti. D’altronde, a funzionare non è soltanto la protesta che, comunque, continua ad avere ampi spazi. La Lega è anche apprezzato partito di governo, in moltissime località, non soltanto del Lombardo-Veneto, nonché a livello nazionale. È un partito a piena legittimità che attrae i delusi, non tanto dalla politica, ma soprattutto dagli altri partiti. È un partito che offre identità territoriale la quale, in assenza di una potente cultura civica nazionale, è l’unica vera identità sociale (e politica, “appartenenza alla polis”) degli italiani.

Quella della Lega non è un’espansione inarrestabile e neppure irresistibile. In parte, è legata alla figura del suo leader, ma meno di quanto il Popolo della Libertà sia legato a Berlusconi. La Lega è, oggi e domani, molto di più di quello che saranno mai i “cen-tristi” anti-bipolarismo, ovvero un numericamente indispensabile alleato di qualsiasi partito a vocazione maggioritaria. In questa fase, non vedo né le politiche né i politici in grado di contrastare la Lega, tanto meno Berlusconi. Ma neppure credo che sia impossibile farlo intorno ad un’idea di politica, di governo, di Europa del tutto chiaramente, pacatamente e serenamente alternativa a quella di Bossi e di Borghezio.

Gianfranco Pasquino - Nato a Torino nel 1942. Politologo, docente universitario e accademico dei Lincei, ha insegnato nelle Università di Firenze, Harvard, della California a Los Angeles e alla School of Advanced International Studies di Washington. È attualmente professore ordinario di Scienza Politica al'Università di Bologna. E’ stato senatore dal 1983 al 1992 per la Sinistra Indipendente e dal 1994 al 1996 per i Progressisti.


CREDITS: Libertiamo

Pdl, se ci sei batti un colpo

I rapporti di forza contano ancora. E i due partiti sono diversi, inutile negarlo

di Filippo Rossi


«Si voterà anche a Napoli. E non è detto che non ci facciamo un pensierino…». È chiaramente ironico, il ministro dell’Interno Roberto Maroni intervistato dal Corriere. Eppure anche una boutade come questa può essere un chiaro segnale politico. E in questo caso è uno dei (tanti) segnali che la Lega è passata all’incasso. Perché la strategia del Carroccio, dopo il trionfo delle Regionali che si è consumato poco più di una settimana fa, si è delineata in maniera chiara ed evidente, ormai. Il partito di Bossi, come ha spiegato lui stesso a spoglio appena terminato, ha deciso diventare il “motore” della maggioranza e di fare “da traino” per le riforme. Da timoniere del governo, in pratica. Con l’obiettivo di concretizzare il tanto sospirato federalismo, certamente. Ma non solo. Perché il disegno è di più ampio respiro e prevede anche un consistente pacchetto di riforme, dal presidenzialismo alla giustizia. E – parola di Calderoli – contempla anche la preparazione dell’arrivo a Palazzo Chigi di un premier leghista (o amico delle Lega, almeno).

“Niente poltrone ma riforme” titolava la Padania qualche giorno fa. Partecipare da protagonisti alla Grande Riforma che si attende da quindici anni almeno, è un bottino ben più sostanzioso di qualche ministero, in effetti. «La nostra vittoria rafforza il governo. Se vuole passare alla storia, non può che stare con noi», ha spiegato Maroni. E ancora: «Ci vuole qualcuno che coordini e la regia deve essere della Lega. Del resto noi siamo il vero motore e dunque il soggetto giusto» per fare la riforma presidenzialista. Segnali di forza assolutamente legittimi, beninteso. Il Carroccio fa il suo mestiere, e lo fa bene: vince le elezioni, amministra, e sfrutta fino in fondo (con buona dose di spregiudicatezza) il suo peso. Verrebbe da dire: è la politica, bellezza.

Il problema, semmai, è tutto del Pdl. La grande questione è il “sonno” di un partito nato un anno fa con l’ambizione di scrivere la storia del paese. E che adesso rischia di essere trainato dal suo alleato “minore” (i rapporti di forza parlano ancora chiaro). Perché sempre di alleato si tratta, seppur “fedele” e “leale”. Un alleato che, è sotto gli occhi d tutti, non ci mette nulla a diventare concorrente e, addirittura, “sfidante”. E allora non si capisce chi, nel Pdl, continua a non preoccuparsi dell’iperattivismo del Carroccio, come se i due partiti coincidessero in strutture, ideali, programmi. Ma così non è.

E allora il Popolo della libertà dovrebbe far pesare la propria “differenza”, dettando l’agenda del governo e impostando il cammino delle riforme. Non solo per motivi di forza numerica (che comunque hanno una loro valenza) ma anche e soprattutto perché è nato come grande partito “nazionale”, maggioritario e plurale. L’esatto contrario della Lega. Eppure «la lucidità della strategia leghista è impressionante, come impressionante è il silenzio del Pdl», ha scritto Giuseppe Valditara sul Secolo d’Italia di oggi (ieri per chi legge, NdA). È vero. Il silenzio inizia a essere insostenibile. È tempo che il Popolo della libertà batta un colpo. Per non morire tutti leghisti.


CREDITS: FFWebMagazine

giovedì 1 aprile 2010

Noi e la Lega

Cota proibisce l’RU486. Ma è un pesce d’aprile

Neppure il tempo di insediarsi e i governatori regionali troveranno ad aspettarli gli scatoloni con la kill-pill, come molti amano chiamare la RuU486. Da oggi la Nordic Pharma, su mandato dell’azienda produttrice del farmaco, la Exelgyn, aprirà gli ordini di vendita della pillola abortiva. Così, nel giro di poco tempo il farmaco approderà negli ospedali italiani. E le regioni, da chiunque siano governate, dovranno dare attuazione alle decisioni dell’Aifa, che il governo ha contestato, ma non annullato.
Il governatore piemontese Cota, per concludere la passerella post-elettorale all’insegna del “valore della vita”, ha annunciato che farà di tutto per “lasciare gli scatoloni dell’RU 486 nei magazzini”. Nella sostanza non farà nulla, prenderà tempo, eccepirà su aspetti tecnico-amministrativi relativi al prezzo e alla rimborsabilità del farmaco… Insomma, farà una sorta di resistenza passiva basata sull’auto-ostruzionismo burocratico, poi, presumibilmente, la pianterà, ben sapendo di non potere proibire in sede locale l’utilizzo di un farmaco contro cui il governo ha detto di tutto, ma non ha fatto nulla, non volendo né potendo toccare la legge 194.

Come abbiamo già scritto, sui temi della biopolitica non valgono le promesse da campagna elettorale. Non valgono perché le promesse non possono istituzionalmente essere mantenute. Se sull’aborto sta fermo il Parlamento nazionale, il Consiglio regionale del Piemonte (o della Lombardia o del Lazio) rimarrà inchiodato allo status quo. Il vero nodo che le regioni devono sciogliere è e sarà solo quello dell’efficienza. Peraltro il problema della riduzione del numero degli aborti praticati legalmente e clandestinamente è un problema di efficienza, prima che di principio, visto che servono campagne pervasive di informazione e profilassi, a partire dal bacino delle giovani (e meno giovani) straniere, non anatemi contro la cultura della morte.

La “battaglia per la vita” (che in Italia è divenuta una battaglia per l’aborto chirurgico contro quello farmacologico) è manfrina politicista, di puro posizionamento. Tutti i governatori dovranno accettare l’inserimento del farmaco nel prontuario regionale e disciplinarne l’utilizzo in base a quanto ha stabilito il Consiglio Superiore di Sanità, secondo cui l’unica modalità di somministrazione compatibile con la legge 194 è quella del ricovero ordinario. Tutto il resto è spettacolo, rappresentazione, teatrino della politica.

Simona Nazzaro - Nata a Roma nel 1980. Laureata in Scienze della Comunicazione, a La Sapienza, ha curato le campagne politiche e di comunicazione dell’Associazione Luca Coscioni. Collabora con diversi settimanali e quotidiani. La sua grande passione è il basket, e da anni concilia questa con il lavoro: conduce infatti una trasmissione radiofonica di approfondimento sportivo. Collabora da Luglio scorso con Libertiamo.

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Lega: libertaria ieri, balena verde oggi, laburista domani?

Il partito di Bossi è stato la grande speranza di chi voleva allentare la morsa delle burocrazie statali sulla libertà individuale. Mostra purtroppo segni di trasformazione in una versione regionale della DC ed in prospettiva rischia di finire come quel partito, sbarcando armi e bagagli a sinistra, degenerato nel socialismo campanilista più netto.

La Lega, negli anni ‘90, cercava di pescare in due serbatoi elettorali su cui era tagliata a pennello l’allora Forza Italia, almeno al Nord: il popolo delle partite IVA e la cosiddetta borghesia produttiva. La propaganda leghista illustrava la secessione come una soluzione ai problemi derivanti dal peso eccessivo della tassazione e della regolamentazione burocratica, che limitavano la libera scelta individuale e il rinnovamento del tessuto produttivo. Il tema più generale della libertà individuale veniva ignorato, ma le conseguenze delle politiche leghiste potevano ampliarla. La Democrazia cristiana ed il pentapartito in generale avevano invece convogliato i voti di tali ceti verso politiche collettiviste, sfruttando la minaccia comunista e millantando l’assenza di possibili alternative ad una deriva socialista.Buona parte della base leghista, dopo quindici anni, potrebbe ancora avere a cuore tali temi, come vorrebbe l’amico Mondopiccolo. La sua dirigenza, tuttavia, sembra averli abbandonati, esattamente come fece la Democrazia Cristiana: una volta scoperto quanto semplice sia comprarsi i voti con un apparato clientelare e con un’apparato propagandistico adeguato, è facile sbandare a sinistra; ai produttori non rimane che la scelta fra il male minore, ossia una Lega – ed un PdL, purtroppo – che almeno non paiono programmaticamente ostili.

Il programma di Zaia e la sua definizione della Lega come “Partito Laburista” sono per ora ambigui, ma si ricollegano alle note simpatie di sinistra di esponenti leghisti quali Maroni. La prudenza fiscale, presupposto di una riduzione delle imposte e dell’intrusione statale, è in contraddizione con un programma economico composto di sussidi per tutti i gruppi sociali favoriti, a spese del contribuente che si ritrova a pagare il conto, oltre che le spese per l’intermediazione politica di tali trasferimenti. Il tema della sicurezza serve per sviare l’attenzione generale, mentre quello federalista appare sempre più uno strumento per diminuire la fetta di estorsione fiscale spartita con il governo centrale, non un mezzo per ridurre tale estorsione. Anche se a parole i leghisti sono rivoluzionari, la Lega rischia di diventare una Balena Verde, dove l’attenzione forse involontariamente liberale all’individuo viene sostituita dall’irreggimentazione burocratica, devastante nel lungo periodo anche quando efficiente nel breve termine.

Viene aiutata, in questo, dall’insipienza di un PdL che non può o non vuole, a livello dirigenziale, mostrare che il re è nudo, ossia che la Lega rischia di danneggiare il proprio elettorato storico pur di sfondare a sinistra. L’unico modo per mantenere entrambi i partiti fedeli alle proprie promesse liberali e conservatrici sarebbe quello di una sana competizione per la parte centrale del proprio elettorato; al contrario, l’impressione è quella di un patto scellerato, dove entrambi i maggiori partiti di destra si dedicano all’elettorato del’altra sponda, privando di rappresentanza i ceti che li hanno portati alla ribalta.

Per colpa delle proprie mancanze e, forse, per inseguire le nostalgie di troppi suoi dirigenti ex-socialisti, il PdL si sta lasciando cannibalizzare dalla Lega, più abile anche in questo esercizio di schizofrenia politica. Il rischio è che quando le partite IVA comprenderanno l’errore di continuare a credere alla retorica leghista, che ormai cerca di conciliare elementi opposti, il PdL sarà screditato quanto il partito di Umberto Bossi, che nel frattempo sarà tuttavia riuscito a trasformarsi in principale partito “di sinistra” nel Nord Italia. Lasciando, di nuovo, una delle parti migliori del paese priva di rappresentanza politica adeguata; lasciando, di nuovo, l’intera nazione priva delle riforme liberali tanto disperatamente necessarie per riprendere il sentiero dello sviluppo.

Questa degenerazione non è inevitabile, soprattutto se il Popolo delle Libertà ricomincerà ad essere quello che avrebbe sempre dovuto essere: il veicolo per la riforma liberale in Italia. Grazie a Silvio Berlusconi ed al positivo risultato elettorale, è possibile affrontare il problema da un posizione privilegiata. Facciamolo, per il bene dell’Italia, del PdL – e della Lega.

John Christian Falkenberg - John Christian Falkenberg è il tenutario del blog The Mote in God's Eye; collabora con Tocque-ville.it e Giornalettismo.com . Il suo alter ego in carne ed ossa è laureato in Economia e fra poco festeggerà dieci anni di sopravvivenza in svariate sale operative, passati a districarsi fra default, titoli tossici e bolle di ogni ordine e grado.
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L’asse Berlusconi-Lega è una garanzia per il presente, non una polizza per il futuro del centro-destra

Una bruttissima campagna elettorale, dominata da faccende di liste non presentate e firme mancanti, dalle intercettazioni, dall’ingiustificata soppressione delle trasmissioni di informazione Rai, dalla chiamata a raccolta dei “buoni” contro i “cattivi” (dall’una e dall’altra parte).

Le questioni di politica pubblica, le riforme – economiche, del welfare, della giustizia, delle istituzioni, della legge elettorale – necessarie per il Paese, una seria riflessione sul “federalismo” finora realizzato e su quello da realizzare, la bancarotta del sistema sanitario in una parte del paese, la valutazione delle diverse esperienze di governo regionale, tutto ciò è rimasto sullo sfondo, anzi così sullo sfondo che nessuno lo ha visto.
Soltanto la vittoria del centrodestra in Lazio e in Piemonte ha evitato il proseguire dell’ “abbiamo vinto noi, no abbiamo vinto noi” già cominciato nelle prime ore dopo la chiusura delle urne. Ma nessuno si aspetta che si ricominci a parlare seriamente di politica e di politiche, nemmeno nelle rinate trasmissioni di informazione Rai, che probabilmente non avrebbero arricchito di grandi contenuti la campagna, ma la cui censura costituisce una brutta pagina della nostra democrazia.

Ciò detto, vale la pena di proporre alcune considerazioni sparse, per cominciare a comprendere le conseguenze di queste elezioni, che hanno confermato la presa del centrodestra – ma non necessariamente del Pdl – su buona parte del territorio italiano, fatta eccezione per il centro “rosso”.

Partiamo dall’astensione. Quasi il 36% degli italiani non è andato a votare e vi è stato un calo della partecipazione del 7,8% rispetto alle precedenti regionali. L’Udc, con Adornato, e alcuni rappresentanti dei “nanetti” hanno già parlato di una disaffezione dell’elettorato verso l’attuale sistema, di una crisi del bipolarismo. Wishful thinking, e ognuno della propria irrilevanza si consola come può, ma le cose stanno un po’ diversamente.

Innanzitutto, se è molto probabile che una parte dell’astensione sia legata ad una delusione verso la classe politica, ciò non comporta automaticamente una critica verso il bipolarismo in quanto tale. In secondo luogo, la stessa importanza del dato dell’astensione va ridimensionata: non solo esso si colloca in una più generale tendenza che coinvolge anche altre democrazie, ma in una tendenza di lungo periodo del nostro paese.

Certamente, a questa tendenza non è estranea la bipolarizzazione del sistema, che condiziona fortemente il comportamento elettorale incentivando la scelta attorno a due principali opzioni; tuttavia, anche queste elezioni mostrano che la stragrande maggioranza degli elettori si è adeguata a questo modello e che le posizioni centriste non pagano e possono sopravvivere solo grazie al permanere nel nostro sistema politico di leggi elettorali proporzionali (in Francia François Bayrou con più voti dell’Udc ha solo 4 deputati e nessun potere di coalizione).

Se il bipolarismo regge, ciò non significa che i due poli godano di ottima saluta e siano senza problemi. La sinistra e il Partito democratico non riescono chiaramente a riprendersi da una crisi di idee, progetti e strategie che priva il nostro sistema di una seria opposizione e alternativa futura. A parte la Puglia, dove ha svolto un ruolo centrale la fascinazione carismatica di Vendola, peraltro non del Pd, e la presenza di un terzo candidato molto popolare, la sinistra riesce ormai a vincere solo sulla dorsale appenninica. Ma anche a destra emerge una territorializzazione del voto.

Il successo al Nord si è infatti accompagnato con una netta avanzata della Lega, che ha anche goduto di un flusso di voti provenienti dal Pdl. L’affermazione del partito di Bossi costituisce un’ulteriore tappa di una tendenza già evidente da diversi anni. E non è irrilevante il fatto che ormai stia conquistando spazi importanti sotto al Po. In Emilia Romagna la Lega è passata dal 7, 76% delle politiche del 2008 all’11, 08% delle europee del 2009, grazie anche alla penetrazione di zone tradizionalmente bastione della sinistra, come le province di Reggio Emilia e di Modena. In queste elezioni, la Lega, a fronte di un Pdl al 24, 55%, ha conquistato il 13,67%.

E’ vero che, se il Piemonte e il Veneto saranno ora guidati da governatori leghisti, la regione più ricca d’Italia, la Lombardia, rimane saldamente nelle mani di Roberto Formigoni, ma Formigoni non è solo Pdl, è anche – e forse soprattutto – Comunione e liberazione. E il Pdl in questa occasione ha raccolto circa 300 mila voti in meno rispetto alla somma ottenuta da Forza Italia e Alleanza Nazionale nel 2005, mentre la Lega ne ha conquistati altrettanti in più.

Le cause di questo fenomeno sono molteplici. Da un lato la “forza” della Lega: la presenza sul territorio, un’organizzazione solida, una rete di buoni amministratori, la capacità di intercettare voti di “protesta” e di disaffezione verso i due maggiori partiti italiani, Pd e Pdl. Dall’altro la difficoltà del Pdl di radicarsi sul territorio e probabilmente l’indebolirsi della sua spinta riformista, della sua capacità di presentarsi come un partito capace di innovare seriamente e rispondere alle domande di un ceto produttivo in difficoltà. Questa situazione rischia di accentuare la parziale meridionalizzazione del Pdl, già evidenziata negli anni passati dagli studi di Ilvo Diamanti.

In che misura, all’interno del Pdl, ciò è avvertito come un problema? Forse più di quanto i suoi dirigenti vogliano ammettere. Tuttavia, non è scontato che sia un problema per Silvio Berlusconi. Il suo asse con Bossi gli garantisce ciò che probabilmente a lui più interessa, ovvero una maggioranza “presidenziale” o, più correttamente, “primo-ministeriale”, che gli consente di rimanere alla guida del governo.

D’altro canto, non bisogna nemmeno dimenticare che più volte il premier ha manifestato una certa insofferenza nei confronti del suo stesso partito e ha dato espressione concreta a questa insofferenza non solo con esternazioni, ma anche con la creazione di strutture parallele, come i recenti “promotori” guidati dalla fedelissima Michela Vittoria Brambilla.

Paradossalmente, dunque, il risultato più che buono della destra a queste elezioni regionali rende ancora più evidenti i problemi del Pdl, del suo consolidamento, della sua durata, della sua capacità di mantenersi come forza davvero nazionale. La leadership di Berlusconi e l’asse con la Lega garantiscono il presente. Da cosa sarà garantito, invece, il futuro?

Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.


CREDITS: Libertiamo

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