domenica 31 gennaio 2010

Intervista a Miccichè - L'Espresso del 29 gennaio

LE PAROLE DI MICCICHE’

Qui di seguito i tratti salienti dell’intervista rilasciata dall’onorevole Miccichè al settimanale 'L'Espresso'.


Sulle elezioni regionali:
“Quella di candidare un leghista in Veneto è una scelta che pagheremo caramente. Ho già manifestato la mia forte perplessità sul quadro complessivo delle candidature, sul fatto che al nord le candidature siano andate alla Lega e al sud ad An. Sembrerebbe quasi come se dopo 16 anni dalla nascita di Forza Italia non ci sia una classe dirigente tale da proporre dei propri candidati alla presidenza delle regioni; cosa che non è, perchè so che questa classe dirigente esiste ed è di elevata qualità. L’impressione è che ci sia il divieto di candidare qualcuno che proviene da Forza Italia, come se esistesse un interesse a farla sparire. Chi è il responsabile? Purtroppo con la nascita del Pdl stanno emergendo posizioni correntizie: oggi in Veneto Sacconi e Brancher non voglio che si candidi Galan, come in Sicilia un anno e mezzo fa Alfano e anche Brancher non vollero Miccichè … alla fine Berlusconi, per liberarsi dalle scocciature dei veti incrociati, sceglie gente terza. Scommetto, comunque, che il Pdl si rammaricherà di aver candidato in Veneto un esponente della Lega, al posto di Galan, cui si è rinunciato con imbarazzante leggerezza. Del resto, quattro mesi dopo le elezioni in Sicilia, Berlusconi mi disse: Che minchiata che mi hanno fatto fare!”



Sul partito:
“Abbiamo messo a capo del partito un lupo, un agnello e un cane pastore, che dovrebbe difendere il gregge, ma di fronte al lupo … La Russa non perde un colpo per ottenere quello che interessa ad An, mentre Bondi e Verdini non riescono a gestire questa lotta intestina. E il risultato è che ci stiamo facendo del male, ho l’impressione che si stia dissolvendo tutto. La fusione nel Pdl c’è stata, ma nel senso che Forza Italia è fusa, sparita.”




Su Berlusconi:
“Quello che vorrei ottenere da Berlusconi è il cambio dei coordinatori, è che lui mi guardi negli occhi e mi dica cosa vuole fare, se veramente vuol far finire Forza Italia. Se invece non è così, come auspico, allora deve prendere dei provvedimenti”



Sulla situazione politica in Sicilia:
“La Sicilia era nostra, non c’era nessun motivo al mondo perchè la si cedesse all’Mpa. L’abbiamo fatto e adesso ci si accorge del grande problema Lombardo! Il fatto è che ci sono divisioni correntizie e il coordinamento nazionale, invece di gestirle con equilibrio, ne sposa una in ogni regione, tentando di sopprimere l’altra: quando la corrente è fatta da uomini deboli, questi si fanno sopprimere; mentre quando è fatta da uomini forti, si arriva a spaccare il partito. Se davvero vogliono evitare che il nostro Pdl Sicilia crei un precedente e si trovino presto a dover gestire 20 Pdl in 20 regioni, evitino di mettere a capo del partito regionale il capo di una corrente, schierato con violenza contro l’altra corrente. Di questo ho parlato con Berlusconi più volte e ogni volta mi ha dato l’impressione di capire qual è il problema. Tuttavia, i tempi cominciano ad accorciarsi un pò troppo: o si trovano soluzioni in tempi brevi o temo che il danno sarà irreversibile”




Sul rapporto Fini – Berlusconi:
“Rompere con Fini mi sembra un’ulteriore stupidaggine. Anche se penso che la fesseria sia stata fatta all’inizio: quando c’è una fusione, un leader fa il presidente e l’altro il segretario del partito; sono rimasto molto deluso che Fini non l’abbia fatto”



CREDITS: SUD Blog di Gianfranco Miccichè

Grande Guzzanti!

venerdì 29 gennaio 2010

Altro ke Signorini & Co., questa è la maniera di trattare il gossip!



Berlusconi "nomina" Bertolaso Ministro

Annuncio dato nella conferenza della Protezione Civile in quel de L'Aquila.

mercoledì 27 gennaio 2010

Grande Senatore!

Chi di Puglia ferisce...

LEGGETE QUI

Da "farefurista" convinto, non sono certo un fan di Giorgio Stracquadanio. Il che, però, non m'impedisce di trovarmi perfettamente d'accordo con lui in questa circostanza...

La lezione pugliese che il Pdl non ha imparato
Anche senza i sondaggi – del tutto veritieri nonostante le polemiche di Francesco Boccia – si poteva avvertire con anticipo che Nichi Vendola avrebbe trionfato alle primarie pugliesi del centrosinistra anche solo ascoltando le ultime dichiarazioni dei due candidati.

di Giorgio Stracquadanio



Ai microfoni di Sky Tg 24, che poneva ad entrambi la domanda di rito (“Per quale motivo un elettore di centrosinistra dovrebbe votare per lei?), Francesco Boccia rispondeva con freddezza: “La scelta non è tra Boccia e Vendola, ma tra due concezioni del centrosinistra, tra un progetto che unisce le forze della sinistra e quelle di centro per costruire, anche a livello nazionale, un'alternativa alla destra”. Il trionfo della politica politicante, del calcolo di partito, del gioco di palazzo, dove la Puglia è al massimo un “laboratorio politico”, un luogo dove altri – D'Alema e Casini – utilizzano una cavia, Francesco Boccia, per trovare un modo, tra tre anni, di sconfiggere Silvio Berlusconi. Una risposta pedagogica, senza neppure la larvata intenzione di accendere un sentimento.
Quel sentimento, caloroso, che sgorgava dalle parole di Vendola: “Noi vogliamo ridurre la distanza tra i sogni, le passioni, i progetti che abbiamo alimentato e le cose che abbiamo realizzato, per dare, sopratutto ai giovani, la possibilità e la speranza di una Puglia migliore”. Parole di un combattente, capace di evocare sogni, speranze, passioni; capace di riconoscere che c'è ancora una distanza da colmare tra i sogni e la realtà; capace di indicare – qui ed ora – l'idea di una Puglia da desiderare, una Puglia migliore.
Parole ben interpretate dal regista barese Alessandro Piva, secondo il quale “Vendola è un Berlusconi rosso e li ha fregati con lo stesso metodo che il Cavaliere usa da anni. E´ bravo a far la vittima, quello contro il sistema, quello che si è fatto da solo. È più moderno, è un comunicatore, si rivolge direttamente al popolo ed è capace di emozionare. Con lui gli avvisi di garanzia funzionano alla rovescia. È un combattente e ha dimostrato di avere nove vite come i gatti. È come Berlusconi”. Un paragone di cui Vendola si compiace e che conferma la stoffa da leader di Nichi, il quale con il leader del centrodestra ha sempre mantenuto un rapporto rispettoso. Tanti ricordiamo che, nel settembre 2005, all'inaugurazione a Bari della Fiera del Levante, quando il governo Berlusconi era da poco uscito dal rimpasto a cui l'aveva costretto l'Udc di Follini e Casini dopo la dura sconfitta delle regionali, Vendola fu l'unico dei tre rappresentanti delle istituzioni locali ad avere parole di sincera accoglienza per il premier, mentre il presidente della provincia Divella e il sindaco di Bari Emiliano non avevano fatto mistero del loro antiberlusconismo. E in quella occasione Berlusconi ebbe modo di ringraziare altrettanto sinceramente il giovane governatore comunista, gay e con l'orecchino.
Che Vendola non piaccia innanzitutto a sinistra è un fatto testimoniato dalla campagna che gli ha scatenato contro D'Alema. Nella regione che, almeno fino a domenica, considerava come un protettorato personale, il leader Maximo prima ha tentato lo sfondamento con Emiliano, poi ha cercato di forzare con l'accordo dell'Udc sul nome di Boccia, infine – una volta costretto alle primarie – ha tentato la demolizione dell'immagine di Vendola, con una campagna martellante in cui l'accusa era la stessa rivolta a Berlusconi: “populista”. Mentre la procura, inspiegabilmente “intima” di Boccia, inventava un avviso di garanzia a orologeria contro Vendola.
Vendola, però se lo aspettava. Basta leggere cosa pensa dei dirigenti ex-comunisti del Pd: “Hanno un rapporto nevrotico con la modernità e non hanno mai davvero chiuso i conti col passato. Ma di tutta la grande narrazione politica comunista, quelli come D´Alema e Bersani hanno conservato un solo tratto, il fascino supremo del comando. L'illusione di poter imporre alla base qualsiasi scelta, per quanto impopolare, in nome del fine superiore del partito. Soltanto che questo fine superiore non esiste più. E alla lunga, senza un'utopia, una trascendenza, la gente prima o poi si stufa di obbedire”. Forte di queste convinzioni il “Berlusconi rosso” ha stravinto, con il 73% in tutta la regione e risultati stupefacenti in città simbolo: il 95% a Bari, la città di Boccia, l'80% a Fasano, la città di La Torre, il 77% a Gallipoli, il collegio elettorale di D'Alema. Chissà cosa avrebbe preso a Piacenza.
Una bella lezione per tutti, non c'è che dire. Una lezione che il Popolo della Libertà non vuole imparare. E per la seconda volta in cinque anni. Il gruppo dirigente del partito, infatti,, di fronte alla crisi del laboratorio pugliese di D'Alema e Casini non ha saputo che rinserrarsi nella sua ridotta. Ha prima evitato che l'ufficio di presidenza della scorsa settimana assumesse un orientamento preciso e poi ha forzato i tempi per giungere a una candidatura “ufficiale” a urne delle primarie ancora chiuse, come se fosse la stessa cosa confrontarsi con Francesco Boccia e la coppia D'Alema – Casini piuttosto che con Nichi Vendola.
E così ne è scaturita una candidatura tutta di apparato, resa pubblica con parole degne di un politburo, non di un partito carismatico: “I Coordinatori Nazionali del Pdl, sentito il Presidente Silvio Berlusconi, d`intesa con il Coordinamento Regionale della Puglia e con il Ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, ha designato Rocco Palese quale candidato per la Presidenza della Regione Puglia”. Ma come? Berlusconi, il monarca, il leader, l'unico in grado di raccogliere milioni di voti in tutta Italia e stato solo sentito? E invece è stata necessaria l'intesa con il Coordinamento Regionale pugliese e il ministro Raffaele Fitto, sponsor dell'amico Rocco Palese? E da quando in qua il ministro degli Affari Regionali conta più del primo ministro? Forse perché è pugliese e quella regione è il suo protettorato personale secondo logiche dalemiane? Misteri dei partiti.
Misteri che rendono legittima una domanda: quale scopo si prefigge il gruppo dirigente del Pdl, vincere le elezioni o affermare la supremazia di apparato? Scelte così al ribasso, a cui si è giunti con il metodo del fatto compiuto, chiariscono perché nella riunione dell'ufficio di presidenza di qualche giorno fa era stata avanzata l'ipotesi “dadaista” del giornalista del Tg1 Attilio Romita. E anche perché nella tavola rotonda al convegno di Arezzo proprio Raffaele Fitto, rispondendo ad una domanda di Bianca Berlinguer sulla candidatura Romita per la Puglia, si era “avvalso della facoltà di non rispondere”.
Già, proprio il convegno di Arezzo, quel convegno che era nato per segnare le distanze tra Gianfranco Fini e la maggioranza degli ex-An e che, invece, durante la strada, è diventato il luogo di formazione di una anomala squadra di “colonnelli” del Pdl, di un partito che – mentre i partiti pedagogici e novecenteschi sono polverizzati dalla spinta popolare come è accaduto in Puglia – cerca di diventare proprio come quelli che in questi diciassette anni Berlusconi ha sconfitto. Gruppi di dirigenti autoreferenziali, che le elezioni le perdono perché vivono di veti più che di proposte. E più perdono le elezioni, più stringono il controllo sul partito. Così è sembrato il Pdl ad Arezzo, un partito che ha evocato il suo leader carismatico con la stessa passione con la quale il PRI evocava Mazzini.
Così, mentre Vendola viaggia verso il 28 marzo sull'onda della spinta popolare (”Con il Vendola in poppa” titola il manifesto) e Casini evita di affondare insieme D'Alema aggrappandosi ad Adriana Poli Bortone, il Pdl non entra nemmeno in partita pur di non rischiare l'equilibrio interno raggiunto ad Arezzo.
Se così stanno le cose, è meglio che il Pdl non nasca mai. Anzi che muoia presto. Perché a noi, che crediamo ancora nella sovranità del popolo, nella forza del popolo, avrebbe fatto piacere leggere un comunicato più o meno di questo tenore: “Il presidente Silvio Berlusconi, d'intesa con i coordinatori nazionali, sentiti il coordinamento regionale pugliese ha chiesto a Tizio Caio di candidarsi alla presidenza della Regione Puglia con il sostegno del Popolo della Libertà”.
Qualche mese fa, in Abruzzo e in Sardegna si è fatto così. E si è vinto anche contro quel Soru che doveva diventare il nuovo leader del Pd e invece è andato a picco abbracciato stretto a Walter Veltroni. Altri tempi. Speriamo che tornino.

26 gennaio 2010


CREDITS: Il Predellino
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Da cui segue...

Rocco chi?
È la nuova etichetta che i falchi del premier si appuntano sul petto in nome del sogno berlusconiano che le nomenklature stanno picconando. In Puglia con Rocco Palese, una candidatura che Silvio Berlusconi ha subito, e non poco. Ma anche altrove.

di Alessandro De Angelis da il Riformista



Rocco chi? Nel Pdl è l'ora dei notabili, ovunque. Giorgio Stracquadanio - uno che per custodire il culto del Predellino gli ha dedicato una testata online - parla tutto d'un fiato: «La vittoria di Vendola è una lezione per tutti, ma il Pdl non vuole imparare per la seconda volta in cinque anni. Di fronte alla crisi del laboratorio pugliese di D'Alema e Casini il Pdl si è rinserrato nella sua ridotta forzando i tempi per giungere a un nome ufficiale a urne delle primarie ancora aperte. E così ne è scaturita una candidatura tutta buona per affermare la supremazia dell'apparato più che per vincere le elezioni, peraltro resa pubblica con parole degne di un politburo, non di un partito carismatico. Se così stanno le cose è meglio che il Pdl non nasca mai».
Il Capo tace. Ma i suoi vogliono uno scatto. Un segnale per dire che lo spirito del '94 non può tramontare così. Mario Valducci, col premier dai tempi della discesa in campo, non ha voglia di parlare: «È proprio necessario?». Poi però sbotta: «In questa fase siamo poco aperti, poco innovativi. Vedo uno stanco riproporsi di metodi da partito novecentesco, che invece andrebbe rottamato. Imporre una candidatura, come in Puglia, a urne aperte e senza convocare l'ufficio di presidenza è un metodo che non corrisponde all'anima vera di Forza Italia. Quell'anima invece deve tornare a pulsare. Paradossalmente, nella diversità dei contenuti, il berlusconismo l’ha interpretato più Vendola sotterrando in nome del popolo le strategie di palazzo di D'Alema e Casini».
Già, Casini. Nel suo forno i falchi temono di rimanere arrostiti: «Se non riflettiamo un po' di più ora -prosegue Valducci - rischiamo che la sera delle elezioni Casini ci dirà: avete vinto dove eravate con noi, altrove avete perso». È l'incubo che si è materializzato tra gli azzurri della prima ora dopo la candidatura di Rocco (Palese). Sotto accusa quel correntone doroteo del Pdl che si sta consolidando in nome del sottogoverno locale: triumviri, capigruppo, capicorrente. Con Berlusconi impegnato su altri dossier sono loro a gestire le trattative. Sopra il tavolo si condanna «l'opportunismo casininiano» ma sotto il tavolo si chiudono accordi. A Casini la Polverini darà le infrastrutture, e non solo. E di assessorati già si parla anche in Campania e Calabria. Non è un caso che i big del Pdl in questa fase non tollerano molto le voci critiche. Tanto che ieri alla Camera il capogruppo Fabrizio Cicchitto, di fronte a una decina di parlamentari, ha richiamato all'ordine Stracquadanio, che le sue considerazioni le ha scritte nero su bianco sul suo sito: «Non hai capito niente - gli ha detto Cicchitto - proprio niente. Finché giochi con Granata è un conto. Ma la Puglia è tutt'altro. Abbiamo raggiunto un difficile equilibrio tra An e Forza Italia. Tu, con la Puglia che c'entri?».
Per molti tutto questo è l'opposto dello spirito berlusconiano delle origini: il leader da un lato, il popolo dall'altro. In mezzo solo devoti apostoli della Causa. Dice Jole Santelli: «Il Pdl funziona se c’è il Principe che ha un rapporto diretto col popolo. Perché Berlusconi è uno che ci mette la faccia, si assume le responsabilità, rischia. Quando poi una nomenklatura in suo nome si mette a recitare la parte del Principe qualcosa non va. La nostra innovazione funziona quando è trainata da un'immagine carismatica. D'altronde anche la vittoria di Vendola contro gli apparati dimostra che dal '94 la politica è cambiata. Vedremo la sera delle elezioni come va a finire. Berlusconi sta lasciando lasciando fare anche se il suo verbo nell'altrui bocca funziona poco. È chiaro che chi sbaglia andrà a casa. Questo è lo spirito del '94».
Vecchi leoni e giovani promesse. Comunque chi è nel cuore del Cavaliere l'amaro calice della vecchia politica non vuole mandarlo giù. È indigeribile. Nunzia De Girolamo è alla sua prima legislatura. E nella sua Campania la trattativa con l'Udc è chiusa, con la benedizione di Ciriaco De Mita. Ma manca ancora la ratifica del premier. Lei non usa perifrasi: «Casini va scaricato, messo ai margini senza tanti giri di parole. Siamo per il bipolarismo o no? Non si può tollerare che scelga le alleanze in base a chi vince. O ci dobbiamo raccontare la storiella degli accordi sui programmi e sui candidati? Bisogna dire basta alla politica dei due forni in Campania e altrove». È il berlusconismo di seconda generazione. Poche chiacchiere. E tanta voglia di regolare i conti. Con tutti: «Quando leggo di correnti, correntoni e nomenklature nel Pdl mi viene l'orticaria. È roba che ho letto sui libri di storia al capitolo sulla crisi dei partiti. Ma sono certa che anche questa volta Berlusconi recupererà l'entusiasmo scendendo in mezzo al popolo. Come sempre».

27 gennaio 2010


CREDITS: il Riformista & Il Predellino

Non mettiamo il burqa all’Islam

Ferve in molti Paesi la discussione sul “velo” islamico. I musulmani sono numerosi ed il dibattito sull’Islam è ingombrante, foriero di sicuri conflitti. Se il dibattito sul “velo” ha portato ad interventi statali che lo hanno interdetto nella scuola pubblica (Svizzera, Francia) ed ai funzionari pubblici (Svizzera, Germania), la questione del “velo integrale” ripropone, in tutta la sua problematicità, la questione del rapporto fra l’Europa e l’Islam.
Al fine di non tediare i lettori, tendo subito a precisare di essere favorevole ad una norma che, in Italia, vieti il velo integrale, non per manie persecutorie nei confronti degli amici musulmani, o per una particolare predilezione nei confronti della laïcité statalista alla francese, ma soltanto perché, a mio avviso, non dovrebbe rientrare fra i giustificati motivi previsti come eccezione dalla legge 22 maggio 1975 n. 152 (divieto di “uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico”) quello dovuto alla circostanza “culturale” o “religiosa”. Sarebbe bene in questo caso intervenire per legge, senza lasciare un ampio margine di discrezionalità all’interprete in merito alla clausola del giustificato motivo. Qualsiasi misura dovrebbe comunque rispettare i principi costituzionali ed europei che proteggono la libertà religiosa degli individui.

Detto questo, credo che il dibattito cui stiamo assistendo si concentri sui dettagli senza badare alla questione principale. Prima di passare all’analisi ripercorriamo per sommi capi le vicende di ieri alla luce del dibattito europeo.
Le raccomandazioni della commissione francese sono ormai note a tutti: si suggerisce di vietare il velo integrale in tutte le scuole, gli ospedali, i trasporti pubblici e gli uffici statali. Il burqa, dice il rapporto della commissione, “offende i valori della Repubblica”. Ovviamente sono partite subito le polemiche. Le Monde ha organizzato nel pomeriggio un dibattito online con Mohamed Colin, direttore di Saphirnews.com. Sono così emersi tutti i dubbi ed i problemi che gravitano attorno all’iniziativa francese. Secondo Colin le donne che indossano il burqa, se sono già in situazione di emarginazione, non usciranno sicuramente più rafforzate da questa legge, che probabilmente le indurrà a restare in casa. Oltretutto la decisione sembra indirizzarsi contro una specifica comunità. Rispetto alla fonte dell’obbligo di indossare il burqa o il niqab si è evidenziato come non esista una prescrizione religiosa in tal senso, ma si tratta di un’interpretazione data in alcuni paesi come l’Afghanistan e l’Arabia Saudita, ma ad esempio estranea all’Islam magrebino.

Sbaglieremmo a considerare la questione soltanto come meramente francese. Il dibattito imperversa in tutta Europa. Il governo inglese ha addirittura risposto sul sito ufficiale ad una petizione presentata da 2370 cittadini inglesi dichiarando di non voler seguire la linea francese. Anche l’Economist, Bibbia per molti liberali, ha avanzato molti dubbi sull’iniziativa francese. Si discute, e molto, anche in Olanda, in Danimarca, in Austria ed in Belgio.
E a casa nostra? Non sono mancate anche da noi le reazioni rispetto all’iniziativa francese. La Lega esulta, il PD reagisce in ordine sparso, all’interno del PDL le posizioni non sembrano univoche. Mi preme segnalare che in Parlamento sono state già depositate delle proposte di legge che mirano ad introdurre il divieto di “velo integrale” e che, nel mese di novembre, la Commissione Affari Costituzionali ha già tenuto le prime audizioni, per cui il dibattito è destinato a riaccendersi nei prossimi mesi.

E Libertiamo? Non credo di dire nulla di sconvolgente affermando che, nelle scorse settimane, Libertiamo ha più volte tentato di aprire una breccia nel muro di silenzio che la Lega Nord ha fatto calare, ormai da tempo, sul dibattito concernente i rapporti fra le comunità islamiche e la società italiana (certo, anche alcune comunità islamiche non sono state particolarmente collaborative negli anni scorsi). Contatti con esponenti ministeriali avevano confermato interesse per alcune piccole, e certo non decisive, proposte che Libertiamo aveva sviluppato per affrontare le tematiche dell’integrazione guardando ad essa non sono dalla prospettiva della sicurezza e della repressione, ma anche da quella dell’integrazione e del rispetto dei valori fondamentali della Repubblica.
Purtroppo, il dibattito pubblico appare al momento appaltato alla Lega che, se da un lato martella con facili slogan, dall’altro – nell’assenza di una legge generale – s’incunea a macchia di leopardo con i provvedimenti amministrativi dei sindaci. Grazie a titoloni, interviste, talk show, l’opinione pubblica si forma e si sedimenta: resta sul fondo una sensazione di intolleranza diffusa pronta a riemergere al prossimo sussulto o al prossimo straniero da prendere a calci.

Si può decidere di mettere il burqa sull’Islam. Di far finta che il problema non esista.
D’altronde la botte non può dare che il vino che ha, ma un dibattito sull’opportunità di vietare il burqa non può esser usato come diversivo per evitare di affrontare l’argomento più importante ovvero quello che riguarda i rapporti fra le comunità islamiche e lo Stato italiano. Lo abbiamo già scritto: urge una politica religiosa. Urge adesso.

Pasquale Annicchino - Nato a Maratea (PZ) il 13 Dicembre 1982, vive a Siena. E’ dottorando di ricerca in Jus Publicum Europaeum presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Siena. Presso la stessa università è anche junior fellow nell’ambito del Law and Religion Programme coordinato dal Prof. Marco Ventura. Fa parte dell’Organizing Committee della International Summer School in Law and Religion.


CREDITS: Libertiamo

Per non dimenticare...







martedì 26 gennaio 2010

Decreto Romani: libertà del web in pericolo?

L’avvento di Internet ha rappresentato una delle innovazioni più importanti degli ultimi anni, non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche e soprattutto da quello sociale e culturale.



La sua struttura a rete, la sua vocazione bottom-up, il suo carattere di immaterialità e di aterritorialità sono stati degli elementi che in modo decisivo hanno fatto del web un’oasi di libertà in un mondo dove la politica pretende di regolare e di irregimentare tutto.

La novità di Internet ha colto i governi impreparati ed il ritardo con cui i politici hanno cominciato a prendere in considerazione la Rete ha regalato alla società civile un insperato spazio di libertà. Su Internet, in assenza delle regolazioni stringenti che colpiscono altri ambiti dell’economia e della società, un mondo diverso, anarchico ma tutt’altro che caotico, ha potuto crescere e prosperare.

Il rischio, tuttavia, è che questo terreno “tutto nostro”, che questo spazio di libera interazione che finora eravamo riusciti a tenere al riparo dall’ingerenza dello Stato cominci anch’esso ad essere vittima di visioni dirigiste.



Il recentissimo Decreto Romani rappresenta, da questo punto di vista, un tentativo della politica di entrare a gamba tesa nell’ambito dei servizi telematici introducendo una serie di norme che potrebbero colpire seriamente il web in Italia.

Il Decreto tocca vari ambiti, ma da cima a fondo sembra animato più che altro dall’ossessione del controllo. Le motivazioni sono come sempre encomiabili: evitare programmi che possano “nuocere allo sviluppo fisico, mentale o morale dei minorenni” o “che incitino all’odio basato su distinzioni di razza, sesso, religione o nazionalità”. Nei fatti però il decreto, così com’è, assoggetterebbe persino le webtv alle norme in vigore per le tv tradizionali, sottoponendole a necessità di registrazione e di autorizzazione ministeriale, attribuendo all’Agcom una vera e propria funzione di “sceriffo del Web” e responsabilizzando sempre di più i provider in merito ai contenuti immessi dagli utenti.



Evidentemente un simile aggravio regolatorio comporterebbe nei fatti la morte delle webtv italiane, la maggior parte delle quali sono tra l’altro poco più che amatoriali, magari espressione di piccoli gruppi ed associazioni.

Anche le norme che si vorrebbero introdurre sul copyright appaiono per molti versi draconiane, al punto che si verrebbe a vietare il caricamento in rete di frammenti di pochi minuti tratti da programmi televisivi.

Si andrebbe in tal modo a colpire mortalmente un sito come Youtube che invece, con il suo ricchissimo database, ha una fondamentale valenza culturale e documentativa offrendo gratis un servizio che nessuna televisione offre neppure a pagamento.

Si badi bene che non si parla del diritto di “piratare” l’ultimo successo cinematografico o la diretta di Inter-Milan, bensì piuttosto del diritto di “salvare” e di rendere disponibili su Youtube una miriade di piccole cose – da un frammento di una finale del mondiale di curling ad uno spot pubblicitario anni ‘90, da un discorso di un politico a cui si è affezionati ad una gag divertente – che realisticamente nessuna tv rimetterà più a disposizione in nessuna forma e che senza Youtube sarebbero “perse”.



Quello che è particolarmente insidioso, tuttavia, è affermare il principio della responsabilità del provider sui contenuti immessi in rete. Evidentemente per i provider l’overhead reso necessario dal controllo di tutti i contenuti sarebbe insostenibile, tanto che probabilmente sarebbero costretti semplicemente ad inibire tout court molti dei servizi telematici messi a disposizione.

Un’applicazione coerente e stringente di quanto il sottosegretario Romani propone rischierebbe di essere la fine dell’internet come l’abbiamo conosciuta in questi anni.



Siamo certo ancora in tempo per una correzione di rotta. In primis quello che sarebbe opportuno è che il governo si prendesse il tempo necessario per verificare con cura le possibili conseguenze di quanto sembra interessato a portare avanti, anche attraverso un serrato confronto con i providers, i fornitori di servizi e con le associazioni che si occupano delle tematiche digitali.

In ogni caso non fa piacere che le parole d’ordine del centro-destra, purtroppo non solo su questa questione, siano ormai “regulation, regulation, regulation”. Ci sembrano perdenti ed anche un pochino “tafazziane”.



Marco Faraci - Nato a Pisa, 34 anni, ingegnere elettronico, executive master in business administration. Professionista nel campo delle telecomunicazioni. Saggista ed opinionista liberista, ha collaborato con giornali e riviste e curato libri sul pensiero politico liberale.





CREDITS: Libertiamo

lunedì 25 gennaio 2010

Cara Renata, fai come Angela Merkel

- di Benedetto Della Vedova, da il Secolo d’Italia del 23 gennaio 2010 -

La candidatura di Emma Bonino alla guida della Regione Lazio è certamente il segno della drammatica debolezza del Partito Democratico. Ma ha poco senso, a questo punto, chiedersi se la mossa di Pannella, che ha messo il PD di fronte al “fatto compiuto” della candidatura di Emma, sia un gesto di arroganza politica, che umilia e indebolisce Bersani, oppure se abbia paradossalmente rappresentato una ciambella di salvataggio per un partito dilaniato dagli scontri e dalle invidie interne. Il risultato è che l’incursione pannelliana ha fatto scaturire dalla debolezza del PD una candidatura forte per la sinistra.

Emma Bonino è una donna nota, che gode di credito all’estero e in Italia, con buone referenze e solida credibilità istituzionale, per le esperienze di governo a Bruxelles e a Roma. E’ una politica navigata (era in Parlamento già nel 1976), ma la sua immagine non è usurata. Con lei la coalizione “progressista” scommette su di una fisionomia netta, socialmente innovativa, che guarda alla sinistra delle altre capitali europee, da Parigi a Berlino. E soprattutto scommette sull’esistenza di un voto di opinione diffuso, capace di premiare il candidato migliore e non quello più rappresentativo degli interessi costituiti e delle lobbies, che “intermediano” tradizionalmente il consenso elettorale.

E’ una coincidenza – se lo è – fortunata, dunque, che il centrodestra avesse già scelto nel Lazio una candidata come Renata Polverini. Non sono mai stato un “donnista”, ma registro con soddisfazione e come segno di positiva evoluzione della politica italiana il fatto che una delle sfide più importanti del prossimo turno elettorale sia tutta al femminile, e che questa scelta non sia maturata in omaggio al principio delle “quote rosa”, ma in base ad una valutazione onesta delle qualità dei possibili candidati.

La Polverini ha saputo rompere il monopolio sindacale della trimurti CGIL-CISL-UIL imponendo la presenza del sindacato “di destra”, grazie alla vague politica dell’ultimo quindicennio, naturalmente, ma anche o soprattutto al suo approccio pragmatico e aperto. Anche chi, come me, non nutre una particolare simpatia per il sindacato italiano complessivamente inteso, riconosce a Renata Polverini una storia di successo, carisma e leadership.

L’ex leader dell’UGL è ora chiamata ad un salto di qualità, che le consenta di guidare uno schieramento moderato e liberale, maggioritario nel Lazio come nel paese, dove le istanze tipiche del sindacato storico della destra hanno un posto probabilmente non marginale, ma certamente non maggioritario. La vittoria di Renata Polverini sarà tanto più sicura quanto più all’insegna di una “modernizzazione tranquilla” delle istituzioni, dell’economia e della società.

Trasporti locali, sanità, assistenza e istruzione: su questi temi una proposta del centrodestra improntata alla sussidiarietà, al mercato, all’efficienza, al risparmio, alla semplificazione burocratica e ai tagli fiscali è più credibile e innovativa di quella che un centrosinistra impannucciato sulle sue “coperte di Linus” ideologiche potrà proporre, nonostante la Bonino, agli elettori. Anche nel Lazio, il centro-sinistra non sembra in grado di esprimere una cultura di governo diversa e migliore di quella che, ormai, gli assicura la supremazia solo negli storici feudi rossi, governati con il pugno di ferro della cooptazione sociale ed economica, nonché in alcune aree del mezzogiorno, piagate da un clientelismo inconcludente.

Su questo sarà la sfida: sulla capacità di giocare la carta “lombarda” della concorrenza e della trasparenza anche nella gestione del sistema dei servizi, di rompere l’identificazione ideologica del “pubblico” con lo “statale” o con il “regionale”, di favorire uno sviluppo affrancato dalla servitù dell’intermediazione politica.

Fossimo nella Polverini, invece, non ci attarderemmo nella caccia al presunto voto cattolico. Prima di tutto perché abbiamo troppo rispetto, oltre che qualche conoscenza, degli elettori cattolici, che sono stati educati al “Non chi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli”, cioè a diffidare delle troppo esibite professioni di fede e si attendono che chi li governa dia prova di responsabilità politica e non di ortodossia dottrinaria. Come ha detto monsignor Salvatore Del Ciuco, il vicario del vescovo di Viterbo, al Foglio: “Qui la gente non si divide sui temi etici. Qui alla gente non importa nulla di questi argomenti”.

In generale, poi, se la Polverini venisse trascinata in una guerra ideologica, che facesse delle regionali un insensato referendum laici/cattolici, avrebbe, in questo, molto più da perdere che da guadagnare, rispetto alla Bonino.
Non sono in discussione le convinzioni personali, né ovviamente auspico atteggiamenti disattenti o ostili nei confronti degli elettori credenti. Ma penso che Polverini debba e sappia interpretare il ruolo di leadership in modo inclusivo, in una chiave europea, alla Sarkozy o alla Merkel, sapendo che la constituency moderata e liberale è fatta in uguale misura di credenti e non credenti e che non occorre armare, ma disarmare, una possibile guerra degli uni contro gli altri.

La Polverini deve vincere per rimettere in piedi un’istituzione dall’immagine degradata, in una regione che ha tutti i mezzi per guardare con fiducia al futuro. Questo è il suo nuovo mestiere. Non quello di esorcista contro il “diavolo” Bonino.

Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.


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sabato 23 gennaio 2010

Renzo Bossi, il bamboccione di famiglia alle Regionali

Si rincorrono da qualche giorno le voci di una candidatura del 22enne Renzo Bossi alla Regionali in Lombardia, forse addirittura nel listino blindato di Formigoni. Non solo: “nei corridoi leghisti – così scrive Il Giornale di lunedì 18 gennaio – si parla addirittura di una promozione immediata in giunta e di un assessorato da assegnare al rampollo per il quale sembra davvero arrivato il momento di cominciare a farsi le ossa”. Sarà vero? Di certo, solo le anime belle non hanno avuto un pensiero malevolo quando lo hanno visto fare sempre più spesso capolino alle spalle del padre durante le interviste televisive: l’unica ragione plausibile di questa strategia dell’immagine è la volontà del Senatur di rendere “familiare” ai telespettatori il viso di suo figlio.
Da parte nostra, non abbiamo dubbio alcuno sulla passione politica del giovane, né escludiamo a priori che l’ereditarietà genetica del carisma. In un paese in cui troppi figli di avvocati fanno gli avvocati, in cui capita di andare dal dentista e ritrovarsi sotto i ferri del neo-laureato figlio di papà, in cui le farmacie sono di fatto ereditate né più né meno che le cattedre universitarie, non c’è molto da stupirsi se il buon Umberto pensi al futuro dei suoi figli al punto da trasmettere il “mestiere” a Renzo.

Non ci stupiamo, eppure sentiamo il dovere di criticare e, nel nostro piccolo, avversare questa eventuale candidatura. Renzo Bossi non ha meriti per essere eletto consigliere regionale, se non quello di essere il figlio del leader (le due bocciature rimediate alla maturità non depongono esattamente a suo favore). Quanti giovani militanti leghisti meriterebbero quella chance più di Renzo? E poi, la Lega Nord si vanta – e non a torto – di avere una buona classe dirigente nei comuni e nelle province italiane: quanti sindaci, consiglieri comunali o provinciali avrebbero molti più titoli della “trota”(così Umberto chiamò Renzo all’indomani della seconda bocciatura)?

Ci sono due tipi di bamboccioni: da un lato, i “bamboccioni per necessità”, coloro per i quali la conquista dell’indipendenza economica è resa difficile dai bassi salari, da un mercato del lavoro chiuso che premia quasi solo l’anzianità, dalla difficoltà di accedere al credito e da un sistema di formazione iniquo perché drammaticamente egualitario; dall’altro, ci sono i “bamboccioni per scelta”, quelli che vivono nella bambagia perché hanno genitori in grado di offrire loro una protezione dal mondo reale, uno schermo dalla competizione basata sul merito. Se davvero Renzo Bossi sarà candidato alle regionali, apparterrà sicuramente alla categoria dei “bamboccioni per scelta”.

In Francia la candidatura di Jean Sarkozy, figlio di Nicolas, alla testa dell’istituto pubblico di pianificazione del quartiere d’affari parigino La Defense scatenò polemiche feroci: il giovane laureando 23enne rinunciò, ma per Monsieur le President la figuraccia era ormai rimediata. Ad Umberto Bossi suggeriamo di evitare alla Lega, al centrodestra e all’Italia una brutta pagina di familismo.

Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo. Ha scritto, con Carlo Lottieri, "Come il federalismo può salvare il Mezzogiorno" (2008, Rubbettino) ed ha curato "Dopo! - Ricette per il dopo crisi" (2009, IBL Libri).


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venerdì 22 gennaio 2010

Perchè il GOP ha vinto nel Mugello democrat del Massachusetts

In Massachusetts, il Mugello del Partito Democratico, hanno vinto i Repubblicani, con un candidato semi-sconosciuto, Scott Brown, in quello che era il collegio senatoriale di Ted Kennedy. E tutto questo avveniva nel giorno in cui Obama festeggiava il suo primo anniversario alla Casa Bianca.
I Democratici, formalmente, hanno accettato la sconfitta: Barack Obama stesso ha telefonato a Brown per complimentarsi. Ma politicamente stanno reagendo nel peggiore dei modi, mostrando tutta la loro mentalità dirigista. Fa sempre impressione constatare come l’ala liberal del Partito Democratico, quella che dovrebbe essere la parte più progressista dello spettro politico americano, sia la più autoritaria. Ma poi, se andiamo a vedere le loro origini storiche e filosofiche (a partire dai socialisti del decennio rosso di Roosevelt) possiamo vedere che sono sempre stati autoritari: loro agiscono per il bene del popolo, non sempre attraverso il popolo stesso. Perché è questo il carattere della reazione di Barack Obama, Nancy Pelosi e del portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs alla sconfitta nel Massachusetts.

Questa, infatti, non è solo e non è tanto una battuta d’arresto locale, ma è una sconfitta della riforma sanitaria: fu Ted Kennedy (per il cui seggio, lasciato vacante dopo la sua morte in agosto, si correva in queste elezioni) a promuovere e sponsorizzare la riforma; è il seggio in Senato in palio in queste elezioni che garantiva ai Democratici una maggioranza di 60 voti a prova di ostruzionismo; tutta la campagna nel Massachusetts, compreso il discorso di Barack Obama, era incentrata sulla riforma sanitaria. Il Massachusetts non è neppure il primo segnale lanciato dall’opinione pubblica contro la Obamacare. E’ il primo segnale elettorale, ma nei mesi scorsi, dall’estate in poi, tutti i sondaggi mostrano come la maggioranza degli americani sia contraria.

Sostanzialmente, la riforma della sanità costa tanto e non è mai bello aumentare il debito pubblico e/o le tasse (anche se Obama nega che si debbano alzare) in un periodo di crisi economica. E poi, evidentemente, agli americani basta e avanza il sistema privato attuale, fondato su assicurazioni non obbligatorie. Il motivo del malcontento sulla sanità statunitense, oggi come oggi, è dovuto ai prezzi alti dei premi assicurativi. Rendendo obbligatorie le assicurazioni, come vuole Obama, i prezzi potrebbero addirittura salire, nessuno garantisce che scendano.

Ebbene, come reagiscono i Democratici dopo la sconfitta del loro disegno di riforma? Affermando di andare avanti a tutti i costi e rimproverando al popolo di essere ignorante. Nancy Pelosi: “La riforma sarà portata a termine, in un modo o nell’altro”. Robert Gibbs: “L’opinione pubblica ignora i benefici di questa riforma”. Fonti dalla Casa Bianca affermavano ieri che Obama avrebbe risposto a questa battuta d’arresto con “un round da combattimento”. Quindi: se ti bocciano la riforma, la tua legge è buona, è la gente che non la capisce ed è la gente (e non la legge) che va corretta.

Se queste sono le conseguenze delle elezioni nel Massachusetts per i Democratici, quali lezioni hanno appreso i Repubblicani? Per quali motivi i vincitori credono di avere vinto? Scott Brown, oltre ad apparire bene (era stato fotografato nudo su Cosmopolitan non tantissimo tempo fa), si presenta come un uomo del popolo. Contrariamente all’ex procuratrice generale Martha Coakley, che invece è una figura di apparato, contestata per alcuni casi giudiziari controversi, bollata come “grigia” anche dagli stessi commentatori liberal. Anche questo riflette un trend: il Partito Repubblicano è sempre più quello di operai, idraulici, sciampiste, fattori e piccoli imprenditori contrariamente a un Partito Democratico di attori, artisti, intellettuali, professori e burocrati.

I Repubblicani hanno puntato sul loro carattere popolare e hanno vinto anche in una roccaforte del Partito Democratico, in uno stato dove non ottenevano un seggio al Senato sin dal 1972. Ma non solo. Hanno smussato la loro destra religiosa. Nella convention pre-elettorale Scott Brown ha invitato Rudolph Giuliani, sindaco di New York, pro-matrimoni gay in uno stato, come il Massachusetts, in cui i gay hanno la loro piccola roccaforte a Cape Cod. Nella stessa convention, invece, non si sono neppure palesati Mitt Romney e John McCain, troppo conservatori sulla famiglia.

La destra religiosa è in declino: il 71% degli americani, rivela un sondaggio, non vuole nemmeno vedere Sarah Palin in corsa per la Casa Bianca. Sulle idee economiche, invece, il voto nel Massachusetts è la prova che gli americani sono ancora “conservatori”: oltre a concentrare la sua campagna contro la riforma della sanità, Scott Brown, d’estate, aveva partecipato al suo bravo “Tea Party” (la protesta anti-fiscale) locale e nell’ultima settimana ha fatto campagna contro la nuova tassa sulle banche voluta da Obama. Dal Massachusetts i Repubblicani potrebbero sintetizzare il loro futuro candidato: meno conservatore sulle libertà personali, più conservatore su quelle economiche. In sintesi: più vicino al libertarismo.

Stefano Magni - Nato a Milano nel 1976, laureato in Scienze Politiche all’Università di Pavia, è redattore del quotidiano L’Opinione. Ha curato e tradotto l’antologia di studi di Rudolph Rummel, “Lo Stato, il democidio e la guerra” (Leonardo Facco 2003) e il classico della scienza politica “Death by Government” (“Stati assassini”, Rubbettino 2005).


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Ridurre le tasse si può e si deve

di Benedetto Della Vedova da www.loccidentale.it

Il Ministro Tremonti, nell’intervista al Sole24Ore di domenica scorsa, ha ribadito che quella fiscale è “la riforma delle riforme” e che il tempo per farle inizierà dopo le regionali. Forse era meglio dirlo subito, evitando il fraintendimento su tempi più accelerati evocati dal Presidente del Consiglio. Ma tant’è: la questione resta centrale e ulteriori rinvii minerebbero la credibilità del PdL (a tutto vantaggio dell’alleato/competitore leghista).

Il punto è questo: una semplificazione ed una drastica riduzione del numero e del livello delle aliquote della tassazione del reddito è considerata una scelta strategica per accompagnare l’Italia fuori dalla crisi e ridare slancio all’economia? Se sì, si tratta di lavorarci come ad una vera priorità, anche prendendo qualche rischio, abbandonando la strada dei “correttivi”.

L’obiettivo della tenuta dei conti pubblici non è in discussione, naturalmente, ma di per sé non può esaurire l’orizzonte della politica economica e fiscale. Come prevedibile, la crisi non ha avuto alcun nuovo effetto palingenetico, e le grandi questioni della crescita e della competitività si ripropongono per il nostro paese esattamente come negli ultimi quindici anni: se non si è competitivi non si cresce, se non si cresce non si crea occupazione e non si produce nuovo gettito fiscale.

Prima di tutto si deve procedere ad una drastica semplificazione del sistema tributario. Oggi le norme sono costruite al fine di tentare di impedire gli abusi, cioè l’elusione e l’evasione fiscale. Il fine non viene raggiunto e nel frattempo si finisce per rendere letteralmente impossibile la vita dei contribuenti leali.

Penso che si debba ribaltare l’impostazione: il fisco va disegnato per essere amichevole nei confronti di chi paga. Chi non paga va sanzionato in altro modo, possibilmente più efficace. Lo spostamento dell’imposizione dalle “persone cose”, ergo dal lavoro al consumo, potrebbe servire anche in questa direzione.

Si è detto spesso, al di là di ogni discussione sulla curva di Laffer, che aliquote e modalità di pagamento delle imposte più ragionevoli sono il primo passo per rendere credibile la lotta all’evasione fiscale: se ci si crede fino in fondo bisogna procedere senza indugi, giacché un’evasione fiscale così diffusa rappresenta un elemento di corruzione non solo dell’economia nazionale ma anche del tessuto civile ed istituzionale.

In questi giorni in molti hanno sottolineato come in Germania i sondaggi mostrino un’opinione pubblica restia ad appoggiare riduzioni fiscali perché spaventata da possibili tagli allo stato sociale. Un segnale importante, ma che dice poco sul nostro paese, giacché le condizioni di partenza sono completamente diverse. In Germania la pressione fiscale negli ultimi lustri anni è diminuita ed è attualmente inferiore a quella italiana che invece nel frattempo è aumentata; la percezione dell’efficacia della spesa pubblica per i tedeschi è, a ragione, decisamente migliore di quella che hanno i contribuenti italiani della spesa pubblica nostrana; il livello di evasione fiscale è in Germania più basso che da noi. Ciò non di meno, alle ultime elezioni il successo del centrodestra tedesco è stato assicurato dalla vittoria dei liberali “antitasse”.

Da ultimo i conti pubblici e il problema del debito. Nel programma del PdL (scritto, come è stato ripetuto, nella consapevolezza della crisi) è previsto un piano di aggressione del debito pubblico per via patrimoniale e non reddituale (cioè senza considerare diminuzioni di spesa e avanzi di bilancio), cioè con un grande piano di valorizzazione e alienazione di una parte del patrimonio pubblico: questa è la strada per rendere ancor più credibile, anche nel breve periodo, una grande riforma fiscale, mettendola al riparo da eventuali momentanei cali nel gettito.

Un lavoratore dipendente che paghi tutte le tasse, non solo quelle sul reddito, oggi lascia allo Stato almeno due terzi del suo costo aziendale (compresi naturalmente i contributi previdenziali, la cui gestione rientra di fatto nella sovranità di Governo e parlamento). E’ troppo, e non solo in considerazione di cosa i contribuenti ottengono in cambio.

Se qualcuno ha altre ricette si faccia avanti, ma resto convinto che ridurre le tasse si può, ma soprattutto si deve: per amore dell’Italia libera e del suo futuro.

Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.


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Musso non ha votato il processo breve e ha spiegato molto bene il perché

Questa è la trascrizione dell’intervento del senatore Enrico Musso in sede di dichiarazione di voto finale sul disegno di legge: GASPARRI ed altri. – “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

“Signor Presidente, devo questa sofferta dichiarazione di voto prima di tutto agli elettori, ma certamente anche al mio Gruppo e ai colleghi della maggioranza, cui sono legato da amicizia e vicinanza politica, che non metto certamente in dubbio. La devo al presidente Gasparri e al vice presidente Quagliariello, che sono stati anche molto pazienti nella interlocuzione con me su tale questione. La devo al presidente del Consiglio Berlusconi, cui devo la mia candidatura e, stante la legge elettorale, di fatto la mia presenza qui. Voglio anche che sia evitata ogni possibile strumentalizzazione.
Credo molto francamente che la maggioranza abbia fatto un errore grave, che è quello di non ammettere pubblicamente che c’erano due obiettivi: quello, condiviso da tutti qui dentro, della ragionevole, certa e breve durata dei processi, e quello, che è diventato una specie di agenda nascosta, della tutela del presidente Berlusconi.
Credo però che l’opposizione abbia fatto l’errore di non ammettere che la tutela del Presidente del Consiglio e dell’Esecutivo dalle persecuzioni della magistratura non è un problema solo di questo Presidente del Consiglio, ma del Paese, atteso che tre delle ultime cinque legislature si sono concluse anticipatamente per via giudiziaria.
Credo anche che non abbia ammesso che la lunghezza eccessiva dei processi in questo Paese non è frutto soltanto dalla mancanza di risorse, ma anche della scarsa produttività delle risorse esistenti.
Allora, sulla base di tutto ciò e anche in considerazione del fatto che tecnicamente mi pare che il provvedimento produca degli effetti diversi dagli obiettivi, preannuncio, non volendo votare contro e per evitare strumentalizzazioni, la mia astensione. Quindi, non parteciperò alla votazione.”


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Nel breve intervento con cui ha motivato il “non voto” al disegno di legge sul cosiddetto processo breve, pensiamo che il senatore Enrico Musso abbia detto cose molto serie. Della sua scelta, dentro e fuori il Pdl, si rischia di discutere (o più probabilmente di non discutere) come di una dissociazione politica e di una renitenza alla leva “antigiustizialista”. Eppure, se ne dovrebbe parlare prendendo per buone, se non le sue intenzioni, perlomeno le sue parole, che non concedono nulla a un’interpretazione malevola.
Berlusconi non è un imputato come gli altri e non potrebbe esserlo neppure se volesse. Attorno alla sua figura e alla sua storia, solo in parte personale, si è catalizzato, fino ad esplodere, uno scontro di cui nessuna persona in buona fede, oggi, può pretendere una soluzione “giudiziaria”, né nel senso della colpevolezza, né dell’innocenza.

Ma le leggi che lo riguardano e lo interessano, secondo un’agenda che è forse nascosta ma non inconfessata, devono essere leggi come le altre, che non si possono giudicare solo in base alle conseguenze che comportano per Berlusconi. Tra le emergenze di una politica scandita da un interminabile calendario di udienze e i rimedi con cui il legislatore appronta la legittima difesa delle istituzioni deve esistere una relazione esplicita e reale, dichiarata e perciò responsabile. Ed è davvero complicato sostenere che questo sia avvenuto nella legge sul cosiddetto processo breve che, in termini sistemici, non abbrevia alcunché, e manca clamorosamente l’obiettivo primo, ma assolve scrupolosamente all’obiettivo “secondo”, di chiudere i processi del premier.

Quando Musso mette in discussione il rapporto troppo disinvolto tra fini e mezzi, ci sembra che renda un buon servizio di intelligenza e di lealtà a quanti vogliono sciogliere il nodo, che ancora impicca la politica all’albero della giustizia.

Carmelo Palma - 41 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it


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martedì 19 gennaio 2010

Benedetto (Bettino) Craxi_19 gennaio 2000 - 19 gennaio 2010

Avevo circa dieci anni, qdo scoppiò Tangentopoli.

Ero poco più ke un bambinetto, ma già ero curioso di sapere quello ke accadeva, attento al mondo ke mi circondava.

Ricordo che sarà stato circa un anno prima qdo ho sentito x la prima volta un "discorso di politica"; mio padre, uomo di quella destra "mistica" più solstizi ke particole, più Tolkien ke Del Noce, discerneva del nuovo "fenomeno del cambiamento", la Lega Nord.

Era quella Lega che durò fino al ribaltone del '94 - '95, quella federalista, liberista e filoamericana. Tutto il contrario di adesso, insomma...

In TV, ricordo i TG di Fininvest/Mediaset cavalcare l'onda del "cambiamento". Ricordo Mentana bava alla bocca e Brosio ke praticamente viveva davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, pronto a scattare sull'attenti ad un cenno di Fede (memorabile qdo il Di Pietro simpatico guascone di allora gli passa in fianco, nn proferisce parola, e gli frega un block notes...).

Tutti gridavano "ladri, ladri", uscivano leggende e barzellette di tutti i tipi sui politici, specie su Craxi e i socialisti.

Il "mondo tutt'intorno" ti "costringeva" a tifare x il Pool, a odiare Craxi e ad essere schifato dal "sistema".

Venne Amato e il suo decreto bocciato x volontà di Borrelli, Davigo, ecc., le dimissioni, il primo governo tecnico della storia repubblicana (presieduto dall'allora Governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi), le elezioni col Mattarellum, la "gioisa macchina da guerra" di Occhetto, la "discesa in campo" di Berlusconi e la Seconda Repubblica che non è ke abbia gettato via il bambino con l'acqua sporca. Ha getto solo il bambino...

Gli anni passavano anke x me, ovviamente (e tristemente...hihi).

Cominciarono a venir fuori gli "scheletri nell'armadio" di Di Pietro, che poi si butta in politica, cominci a vedere ke "ma perchè se rubavano tutti, vanno in galera solo certi?!".

I giudici diventano nemico di chi li ha "cavalcati" o ispirati, e magari amico di chi li temeva.

Nel frattempo il "capro espiatorio" è andato via...

Si è autoesiliato ad Hammamet, x qualcuno portandosi dietro anke una fontana di Milano abbandonata invece in un magazzino.

Lì, nonostante provi a dire la sua, finisce praticamente nel dimenticatoio, nonostante, x quello ke ha rappresentato, sia una persona storiograficamente e giornalisticamente interessante. Oltre ovviamente al fatto ke sarebbe nn trascurabile sentire la sua versione dei fatti.

Perchè, dato ke quello ke disse alla Camera il 3 luglio del 1992 era la Verità, se tutto "rubavano" e tutti lo sapevano, magari anke lui aveva una sua tesi e degli elementi x spiegare cm mai la cosa è venuta fuori solo in quel momento (e perchè proprio in quello?!?) e perchè ha colpito solo alcuni.

Il ke, si badi bene, nn sminuisce gli errori di Craxi, ma se nn altro gli restituirebbe quella dignità ke dire calpestata è poco.

Per il resto, a suo merito parlano la sua grande azione politica di stampo riformatore, dal "decreto sulla scala mobile", agli euromissili, al "caso Sigonella". C'è tanto altro, ma già questo basterebbe x far invidia a QUALUNQUE premier venuto dopo di lui, e a TANTI ke l'hanno preceduto.


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La storia di Craxi ha tanti capitoli, che non meritano un uguale giudizio

Dalla vittoria del Midas alla sera delle monetine al Raphael, la parabola del craxismo non ha seguito un’unica traiettoria ed è stato un insieme complesso di azzardi e di paure, di rotture e di suture, di spirito riformista e di opposizione al cambiamento, di modernizzazione culturale e di affermazione di un “primato della politica” concepito secondo categorie ottocentesche, di idiosincrasia per il conformismo politico-costituzionale di stampo “resistenziale” e di incapacità di concepire la politica italiana fuori dallo schema dei grandi partiti consegnati alla storia italiana dalle vicende del dopoguerra.
Craxi ha giocato molte e diverse partite e i vari capitoli della sua storia politica non meritano un uguale giudizio.

E’ stato un leader socialista capace di affrancare il PSI dalla subalternità culturale e strategica al PCI, in un paese in cui molta parte della sinistra liberale e post-azionista continuava a ritenere ingiustificata la discriminazione di questa forza politica non solo democratica, ma – come si diceva – “costitutiva” della democrazia italiana.

Dal 1976 al decreto di San Valentino e anche oltre, lo schema dell’“alternativa di sinistra” è stato soppiantato da quello della “alternativa a sinistra”, che il socialismo craxiano ha imposto come terreno di scontro all’interno del fronte progressista. Da questo punto di vista, Craxi ha sdoganato gli spiriti animali dell’iniziativa privata e lo spirito anticonformista dell’individualismo liberale in una sinistra che, anche nelle sue componenti socialiste, rimaneva ancorata alla rigidità del collettivismo marxista e del perbenismo dottrinario.

Questo Craxi, compreso tra la conquista del partito e la prima fase dell’azione di governo come Presidente del Consiglio, è stato probabilmente quello “migliore”, in una prospettiva liberale e riformatrice. Se aveva visto con chiarezza che i socialisti non potevano rimanere truppe di complemento del PCI, mentre in tutta Europa stava per entrare in crisi lo stesso paradigma social-democratico e per prendere avvio la stagione delle rivoluzioni conservatrici, Craxi non è stato altrettanto acuto nel prevedere le conseguenze rovinose che il modello partitocratico, sia pure disancorato dal bipartitismo imperfetto DC/PCI e dalla logica consociativa, avrebbero comportato per la società italiana e per lo stesso sistema politico.

Il sistema che Craxi ha difeso fino all’ultimo (prima contro gli oppositori della deriva oligarchica del Caf, poi contro i referendum, infine contro gli homini novi dell’autoproclamata “società civile”) all’inizio degli anni ’90 non era più un “argine democratico” al PCI. La sua immagine era divenuta assai meno lusinghiera, anche presso settori di elettorato che, in mancanza di alternative, continuavano inerzialmente a votare per i partiti di governo (ed è accaduto fino al ‘92, pochi istanti prima del crollo).

L’immagine dell’Italia politica, che era stata dalla parte giusta del Muro di Berlino e non se l’era visto crollare addosso, era stata lentamente consumata: finì per strapparsi quando la bancarotta finanziaria del Paese, seppellito da una montagna di debito pubblico accumulato per comprare consenso e pagare la manutenzione della macchina partitocratica, e la degradante condizione di illegalità in cui era caduta l’amministrazione pubblica, divennero per larghissima parte dell’elettorato costi insostenibili e soprattutto inutili.

Così prima se ne andò il Nord, seguendo i pifferai della Lega, e quindi l’intero Paese, trovando i partiti di governo disarmati e inermi (e il PSI più degli altri), alle prese con i conti che la storia riversava loro addosso e con la stessa “giustizia ingiusta” che, dopo avere bivaccato per decenni alla mensa del re democristiano, era più che disponibile ad intronare i rappresentanti del popolo ex comunista.

Il corso degli eventi compresi tra la fine degli anni ‘90 e il 1993 non consente però di sostenere che la fine della Prima Repubblica abbia avuto un’origine giustizialista e che l’ipotesi “cospirazionista” sia quella confermata dalle più solide prove storiche. L’Europa, i mercati finanziari, i partners internazionali dell’Italia stavano per suonare la fine della ricreazione. E gli elettori avevano già lanciato il primo avvertimento, plebiscitando nel 1991 un referendum, quello sulla preferenza unica, che andava inteso come un’esplicita messa in mora del sistema politico, mentre i maggiorenti della partitocrazia italiana lo intesero invece come un’intemperanza senza conseguenze.

Quando Craxi, nell’aprile del 1993, si alzò in Parlamento a difendere orgogliosamente il sistema dei partiti e ad ammettere i finanziamenti illegali come pratica diffusa e comune, sfidando i colleghi a dissociarsi dalla chiamata di correo, la Prima Repubblica era già morta. Non per mano di Di Pietro e delle consorterie politico-giudiziarie che intendevano lucrare su questa morte (anche se a guadagnare lo scettro del comando fu il più craxiano e il più nuovo di tutti, Berlusconi). La bolla del consenso era scoppiata e nel listino della borsa politica italiana, i titoli dei partiti del primo cinquantennio repubblicano erano in caduta libera.

Craxi fu certamente il capro espiatorio di un sistema politico sbandato, che si piegò un culto ideologico della legalità dopo avere coltivato, in tutte le sue componenti, una pratica spregiudicata dell’illegalità. Ma, altrettanto certamente, “tangentopoli” non fu un’invenzione delle procure, né un’espressione tutto sommato fisiologica della costituzione materiale del Paese.

Il rischio è che oggi si onori la memoria di Craxi come se n’era, da ultimo, maledetta la persona in vita, senza misura e senza senso della realtà. Non mi sembra onesto, ma forse è inevitabile, quando si imbastiscono questi imbarazzanti processi postumi, per riscattare la figura di un politico, che un processo uguale e contrario aveva condannato da vivo alla damnatio memoriae.

Carmelo Palma - 41 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it

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Craxi, i nodi irrisolti e i tabù della politica italiana

Non so quale giudizio gli storici, tra molti anni, daranno della complessa vicenda di Mani Pulite, delle cause scatenanti la fine della cosiddetta Prima Repubblica, dell’incidenza che, su questa fine, ebbe la corruzione diffusa e dei rapporti tra politica e magistratura negli anni ’90. Non lo so e non credo nessuno lo possa sapere, perché quegli eventi appartengono ancora al presente.
Quello di cui però sono certo è che la figura di Bettino Craxi verrà collocata, nella storia di questo paese, in un orizzonte che travalica di gran lunga quel periodo. Per due ragioni. La prima, più ovvia, riguarda il significato “di sistema” di alcune scelte politiche: la rottura dell’asse DC-PCI, la scala mobile, il Concordato, la responsabilità civile dei giudici, le scelte in materia radiotelevisiva, la politica europea e quella internazionale. La seconda ragione è meno ovvia, ma altrettanto importante, perché la rilevanza “storica” di una politica non consiste solo nei risultati ottenuti (che certo debbono esserci), ma anche nella capacità di mettere a fuoco dei nodi strutturali del vita politica nazionale, scoperchiando alcuni tabù e suscitando degli interrogativi “epocali” che rimangono consegnati anche ai successori.

Nel caso di Craxi i nodi strutturali sono tre e sono tutti, ancora, estremamente attuali.

Il primo riguarda la questione della della c.d. governabilità e dell’ammodernamento istituzionale. Questione imposta concretamente all’attenzione politica, e non solo accademica o pubblicistica, proprio dall’iniziativa socialista alla fine degli anni ’70.

La seconda questione riguarda il profilo politico della sinistra in Italia. La sua identità, i suoi metodi, le sue visioni. Su questo terreno la triste vicenda del PD dimostra che ancora molta strada dev’essere fatta. E, forse, non solo di aggiustamenti si tratta. Nel confronto tra Psi e Pci negli anni ottanta e nei primi anni novanta si condensano tutti i nodi irrisolti della costruzione di un’area riformatrice (?), progressista (?) socialdemocratica (?). Anche le parole sono ormai consumate.

Certo fa molto effetto vedere nelle immagini di repertorio, più di vent’anni fa, Craxi che incontra due giovani leader del PCI di allora: Massimo D’Alema e Walter Veltroni. O leggere nell’autobiografia politica di Giorgio Napolitano l’amarezza con la quale egli ricorda gli attacchi subiti da Gerardo Chiaromonte ad opera di quello stesso D’Alema sull’Unità per il solo fatto di aver dialogato con il PSI. Segno di divisioni profonde, culturali, politiche, ideologiche. Dell’eterna alternativa tra riformismo e massimalismo, tra idealismo e pragmatismo. Come non pensare alla scelta di Veltroni che, nelle elezioni del 2008, dice sì a Di Pietro e no ai socialisti?

La terza questione irrisolta è quella della cultura del conflitto propria di una democrazia dell’alternanza. Anche su questo i problemi sono ancora davanti a noi. La strategia craxiana ha rotto, provocatoriamente, anche molto provocatoriamente, un certo clima unanimista che affonda le sue radici lontane nella cultura ciellenista e che transita nella storia italiana lungo tutti i decenni. L’idea della convergenza tra culture nel patto nazionale e nella progressiva inclusione di tutti nella vita dello stato. Mito straordinario e importantissimo, ma che può avere senso come mito fondativo, non come idea del governo quotidiano.

Questa difficoltà di conciliare l’unità sui fondamenti della convivenza con una sana cultura della competizione tra proposte politiche contingenti è il grande, enorme macigno che ci separa, pur dopo tanti progressi, dalla normalità delle democrazie mature. E non si può dubitare che la leadership craxiana abbia, con tutte le contraddizioni, sollevato per prima il tema dell’alternanza e della rottura consociativa, tema che Aldo Moro non era riuscito ad affrontare compiutamente perché la sua “terza fase” (come dimostra l’intervista postuma a Scalfari su Repubblica nel 1978) rimase allo stato di progetto irrealizzato e appena abbozzato a causa della tragica morte.

Piuttosto che cimentarsi in giudizi storici che non competono loro, credo gli attuali protagonisti della vita pubblica potrebbero rendere un sincero e adulto omaggio alla vicenda politica di Bettino Craxi, ripartendo da qui. Dalle stesse parole di Napolitano: “La considerazione complessiva della sua figura di leader politico (…) Non può dunque venir sacrificata al solo discorso sulle responsabilità sanzionate per via giudiziaria”. “Il nostro Stato democratico non può consentirsi distorsioni e rimozioni del genere”.

L’auspicio è dunque che non si rimuovano e che si affrontino quei nodi irrisolti, strutturali, antichi, che anche Craxi (dopo altri) ha prepotentemente imposto all’agenda politica, non solo della nostra cronaca, ma anche della nostra storia.

Giovanni Guzzetta - Nato a Messina nel 1966, è un costituzionalista italiano. Presidente nazionale della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) dal 1987 al 1990, attualmente è professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso l'Università degli studi di Roma "Tor Vergata", nonché titolare della cattedra Jean Monnet in Costitutional Trends in European Integration nel medesimo ateneo. Presidente del comitato promotore dei referendum costituzionali, ha elaborato gli attuali quesiti referendari ed è stato, nel 1993, l'ideatore, insieme a Serio Galeotti, dei quesiti per il referendum sulla legge elettorale. È coautore di un manuale di diritto pubblico italiano ed europeo, nonché autore di diverse monografie.


CREDITS: Libertiamo

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A Bettino Craxi, che ha abbattuto muri senza guerre

di Sergio Talamo


Oggi che sono 10 anni, oggi Bettino voglio raccontarti di una sera romana di pochi giorni fa. Lo sai com’è Roma, no? Certe volte, tra la gente e i tavolini, tra i monumenti e un freddo dolce da alzarsi il bavero, c’è un’aria elettrica, un’emozione senza nome. È il 14 gennaio, e al cinema Capranica va una stranissima prima: il film Benedetto Craxi. In pratica sei tu che per un’ora ritorni in Italia. Tu che per vent’anni sei stato vietato ai minori, oggi torni e ricordi, sorridi e poi piangi senza lacrime.

Quando te ne andasti, il 19 gennaio 2000, eri solo. Oggi per rivederti ci sono tutti. Hanno nel viso e sui capelli 20 anni di più, ma gli occhi sono i loro. De Michelis e Martelli, Signorile e Cicchitto, Dell’Unto, Marzo e mille altri che con te diedero anima e nervi alla Prima Repubblica. In prima fila c’è anche tuo figlio Bobo, uno che era gentile anche quando il potere ce l’aveva, e che oggi sembra ringraziare tutti per essere venuti alla festa del padre. In giro anche molti nomi dell’oggi. Pierferdinando Casini, che mai cedette alla demagogia del nuovismo, Italo Bocchino che davvero si sente fra amici, i ciuffi liberi di Sgarbi e Barbareschi, il sacrilego Minzolini che dice in tv quello che da anni tutti sanno.

Gli ex big del Psi si salutano con affetto sincero: pacche sulle spalle, sguardi che si aprono e si scaldano. Ma è solo un attimo. E sai perché, Bettino? Perché non c’è un domani. Non hanno più nessun appuntamento da darsi. Hanno perso, e ancora non hanno ben capito perché.

Hanno perso, e abbiamo perso anche noi che non c’entravamo niente perché non abbiamo neppure giocato. Noi ex giovani, intendo. Mentre al microfono va Luca Josi, e sfodera il suo stile sobrio e sarcastico e la rabbia di chi ti ha voluto bene senza fronzoli, penso che questa assemblea doveva avvenire 15 anni fa. Era allora che i capi di un partito che stava crollando avrebbero dovuto avere il coraggio e l’umiltà di ascoltare chi aveva 30 e 20 anni. Dovevano ascoltare, e poi accettare di ringiovanire e rilanciare un partito che valeva più delle loro persone. Non lo fecero, non l’hanno fatto mai. Ascoltano ora che è tardi, ora che è inutile.

Quando Luca era segretario dei giovani socialisti, io ero il presidente e il capo dell’altra parte, quella che stava con Signorile e poi anche con Martelli. Credevo (lo credo ancora) che tu, Segretario, stessi sbagliando politica, che non sentissi i nuovi fermenti nel paese, che sottovalutassi il degrado del partito, che cercassi nella Dc quello che non aveva più. Ma e io Luca avevamo la stessa passione, la stessa illusione. Eravamo una generazione che ci provava, che non ebbe spazio, soprattutto non ebbe tempo. Poi, quando si scoprì che contro Craxi e il Psi non c’era lotta politica ma guerra di distruzione, ognuno di noi dovette scegliere fra la convenienza e la coerenza. Oggi sono contento di ascoltare Josi, perché parla anche a nome nostro.

Ecco, la luce si spegne. Arrivi tu. Racconti la storia di un ragazzo che amava la spiritualità, voleva farsi prete e poi convertì questa pulsione nella febbre politica. I primi passi nel socialismo milanese, i carri armati russi del 1956 e la scelta di vita: noi di qua, i comunisti di là. Con Nenni in minoranza, a temprare il cammino di uno che vincerà perché non vuole vincere subito; perché vede lontano. Cambia scena, ed eccoti sotto un grande albero tunisino. Occhi persi sul sole che tramonta e la tua voce: «Da piccoli le mangiavamo, le carrube». In sala un fremito, forse perché si coglie come avevano ridotto il capo dei socialisti, il presidente del consiglio di tante vittorie: a parlare di carrube.

La tua gioventù. I fiori sulle tombe dei partigiani milanesi. I fiori anche a piazzale Loreto, dove la democrazia appena rinata si macchiò dell’infamia di Benito, Claretta e gli altri a testa in giù. E la tua rabbia, la tua grinta? «Extraterrestri, ecco cosa sono! “Dov’eri in questi anni? Sulla luna”. E invece sono terrestri. Terrestri e bugiardi!». Ma dura poco. Il tuo tempo corre verso la fine eppure sei sereno. Non c’è più il Segretario. Appena messo piede ad Hammamet, insieme alla giacca e alla cravatta hai lasciato da parte i galloni.

Conta solo la dignità dell’uomo. La tua storia, le tue parole sono gonfie di umanità. I vincitori di oggi sono gelidi, paurosi, pronti a vendere tutto per il vantaggio di un istante. Tu invece accetti di morire pur di non accettare quelle che consideri menzogne e violenze. «Credono che io mi stia zitto, che non reagisca? Io reagirò fino all’ultimo». Poi, con un sorriso amaro che non ci ho dormito la notte: «Certo. non è che io creda ormai di poter ottenere nulla. So che è un’illusione. Ma lasciatemi questa illusione». E la sferzante autoironia: «Hammamet! Hammamet! I fax di Hammamet!».

Guardi il mare e racconti ancora. I soldi dati ai dissidenti dell’Est, ai palestinesi, a Solidarnosc, «ma senza passare per la Banca d’Italia», dici con un ghigno. Infine un’immagine lontana. È il 1973, Santiago del Cile, Salvador Allende è appena stato ucciso. Sei lì con altri leader dell’Internazionale Socialista per portare un fiore sulla sua tomba, ma le guardie vi fermano e vi minacciano. Siete bloccati in un campo, tu chiedi di fare pipì. Uno dei caporioni dice a un soldato di controllarti. Mentre tu fai pipì e lui ti guarda che la fai, gli chiedi: «Complicata la vita, eh?». E lui: «Abbastanza». Il film si chiude con te che ridi.

Bettino, oggi che sono 10 anni, oggi voglio dirti una cosa. Tu non puoi immaginare quanto ci manchi, perché sei il simbolo di quando noi e la politica eravamo giovani e migliori. Ma se siamo ancora qui che ci crediamo, se scrivo su questo giornale e questo giornale ospita me e te con amicizia e ammirazione, è anche un po’ merito tuo. Perché tu i muri li hai abbattuti prima di tutti e senza guerre.

Che la terra tunisina ti sia lieve, che l’Italia ti dedichi buona politica e non vie né targhe.

19 gennaio 2009


CREDITS: FFWebMagazine

Questa è la mia Destra...

Ecco, dal WebMagazine di Fare Futuro, alcuni interessanti spunti sulla Destra, dove sbaglia, e come migliorarla...



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Tutto sta nel definire cosa sia, questa destra. Per noi è aperta, laica e umana

Caro Gasparri, ecco perché siamo a destra anche noi



di Filippo Rossi




Maurizio Gasparri, in un’intervista pubblicata oggi sul Riformista, si domanda se noi di Ffwebmagazine siamo abbastanza “di destra”. Almeno, dice, se siamo di destra quanto lui. E allora, premesso che – come sa chi ci legge – cerchiamo, quando è possibile, di ragionare oltre di una categorizzazione politica che si delinea ancora sulle fratture novecentesche, proviamo a rispondere. Dicendo innanzitutto che, tanto per chiarire le cose, noi siamo e ci sentiamo pienamente “a destra”.



Certo, tutto sta a definire cosa sia questa “destra”. Calando nella realtà una parola astratta, declinando nella concretezza del tempo e dello spazio quella che è solo un’etichetta. Ebbene, la nostra destra parte dalla centralità dell’individuo. Dalla dignità della persona, dal rispetto della sua sfera di autonomia, di autodeterminazione, di libertà. Che sia libertà dai dogmi imposti, da uno Stato padrone, dal pensiero unico. E, per forza di cose se si crede nella libertà dell’individuo, si deve credere e praticare il rispetto delle differenze. Come in un mosaico, policromatico ma allo stesso tempo armonico, che non annulla le diversità ma le inserisce in un contesto, unitario e molteplice allo stesso tempo.



La nostra destra crede in una politica “prospettica”: una politica fatta di “visione”, che guarda al futuro, immaginandolo e costruendolo. Una destra “eroica”, e una politica che non si trinceri in un eterno presente fatto di paura e di difesa, che non si nutra di perpetue emergenze, che non si serva dei “valori” e delle “identità” come fossero vessilli da sbandierare per spaventare presunti nemici. E allora questa destra non può che essere “aperta”, umana. Caritatevole, per usare una bella parola che viene dal lessico cristiano.



La nostra destra crede nel principio della “laicità”. Serena, positiva e non battagliera, certo. Ma sempre e comunque laicità. E non solo quando si parla di rapporti tra fede e politica. Ma anche quando laicità significa obiettività e flessibilità di giudizio: crediamo in una destra, per capirci, che non si lancia nella difesa “a prescindere” di un poliziotto che sbaglia.



La nostra destra crede anche nella pacatezza. Intanto, perché quando si hanno idee non c’è bisogno di gridare. E poi perché la responsabilità (parola che fa senza dubbio parte del bagaglio politico e culturale della destra) implica la moderazione e la ricerca del dialogo. Perché parlare con l’“avversario”, quando c’è da disegnare il futuro del paese, non vuol dire cedere all’inciucio, tradire o svendere le proprie convinzioni. Vuol dire, semplicemente, avere a cuore il destino di una nazione: una destra che sia davvero patriottica, insomma.



E la nostra destra crede ancora – per quanto demodé ciò possa sembrare – nella moralità. Una moralità vera e praticata quotidianamente, fatta di buon gusto e di buon senso, di etica e di decoro. Attenzione, niente a che vedere con quei fumosi “valori” declamati alla bisogna, e agitati come un corpo contundente da chi, alle volte, li calpesta per primo.



Si potrebbe continuare ancora. Ma sono questi, in sostanza, i cardini su cui impostiamo questa nostra destra. E pazienza se per qualcuno non è “destra” abbastanza. A noi basta, e piace, così.



19 gennaio 2010



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C'è il rischio che il sogno di un partito liberale di massa diventi un ricordo "Nessun nemico a destra!".

E così il Pdl rinnega se stesso



di Filippo Rossi




Nessun nemico a destra, sembra essere questa la nuova, perversa, vulgata di un partito che dovrebbe essere maggioritario, che dovrebbe essere equilibrato, che dovrebbe essere liberale. Solo così, infatti, si possono capire gli infiniti sbracamenti psicologici e ideali verso un’idea del fare politica estrema, chiusa, arrabbiata. Verso una politica che si riempie la bocca di popolo ma che in realtà pensa sempre a qualche fazione.



Niente nomi, oggi. Non ce n’è bisogno. Chi vuole capire capisca. È purtroppo evidente, però, che il sogno di un grande partito liberale di massa, di questo passo, rischierà di diventare un ricordo. O, peggio ancora, di tramutarsi nell’incubo di un grande partito estremista di massa. Un partito che invece di parlare a tutti, trasversalmente, con orgoglio, si riduce a lanciare slogan “duri e puri” nella convinzione che sia questo quello che vuole la gente. Un partito che sale sulle barricate convinto di avere tutto un “popolo” – battagliero e fremente – alle spalle.



Ma è una convinzione appesa nel vuoto, perché anche i sondaggi, se ben interpretati, dicono in realtà l’esatto contrario: dicono che la maggioranza assoluta degli italiani non ne può più di una politica urlata e arroccata nel ridotto psicologico di fortini e trincee che sono solo nella testa di qualche leaderino senza seguito.



Eppure la cultura e l’azione politica di troppi esponenti del Pdl sembra ormai tutta destinata a rincorrere pulsioni e istinti che in qualsiasi altro paese occidentale sarebbero, semplicemente, di “estrema destra”: xenofobia, semplificazione quasi barbarica, dogmatismo retorico, rappresentanza di minoranze arrabbiate, localismi di ogni genere, qualunquismo…



Ma un Pdl di tal fatta, in realtà, organizza, e senza neanche rendersene conto, il suo lento suicidio politico. Perché abdica al suo destino di grande partito della nazione e degli italiani. Di grande partito in cui tutti possono riconoscersi e di cui tutti possono fidarsi. Rinuncia – per miopia di molti e forse calcolo di qualcuno – a una missione storica, perde l’occasione di fare una rivoluzione benefica. Una rivoluzione necessaria, per il centrodestra italiano e per tutto il paese.



18 gennaio 2010



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Diagnosi pre-impianto: c'è anche chi arriva a parlare di deriva eugenetica...

Quanto non ci piace la "destra paternalista"



di Sofia Ventura




Una sentenza del Tribunale di Salerno ha autorizzato una coppia fertile, ma portatrice sana di una grave malattia genetica che condanna il neonato a una vita brevissima (circa un anno) e di dolore, a ricorrere alla diagnosi pre-impianto (diagnosi che era possibile prima dell’approvazione della restrittiva e in parte incostituzionale legge 40 del 2004), nella speranza di dare alla luce un figlio sano. Questo avvenimento ci ha fornito una volta di più l’occasione per capire la differenza tra una destra liberale, laica e pragmatica – la destra che vorremmo, simile a quelle che già esistono in Europa – e una destra antimodernista, tradizionalista e ideologica – quella che non vorremmo e che rischia di fare di noi una triste eccezione tra le democrazie europee.



A illuminarci è la reazione del sottosegretario al ministero della Salute, onorevole Eugenia Roccella, alla sentenza di cui sopra. Roccella difende il divieto alla diagnosi pre-impianto evocando lo spettro dell’eugenetica. Un comportamento individuale considerato legittimo dal senso comune – evitare di dare alla luce un bambino condannato a una vita tanto breve quanto contrassegnata dalla sofferenza – è assimilato a piani di manipolazione dell’essere umano su larga scala, allo scopo di delegittimare il primo attribuendogli tutta la mostruosità dei secondi. In altre parole, si prefigurano scenari inquietanti e terrorizzanti per liquidare sbrigativamente la modernità e difendere una politica paternalistica attraverso la quale si vuole imporre un proprio modello di società. Intendiamoci, è chiaro che come esseri umani abbiamo il dovere di riflettere sui limiti che dobbiamo porre a noi stessi nell’uso delle applicazioni della scienza. Ciò, però, non può che avvenire partendo dalle nostre sensibilità, profonde e condivise, non da una ideologia imposta dall’alto.



Ingannevole è anche il continuo ricorso ai concetti del “diritto alla maternità” e del “diritto al figlio sano”, diritti che si ritiene da parte di Roccella e di quanti condividono le sue posizioni non esistenti. Si può convenire sul fatto che essi, in effetti, come diritti soggettivi non esistano. Ma ciò che in un contesto liberale e non autoritario dovrebbe essere riconosciuto, non è il “diritto”, bensì la “libertà” di fare ricorso alle applicazioni della scienza per potere condurre, per sé e i propri cari, ciò che si ritiene essere, soggettivamente, una vita più dignitosa.



L’ideologia uccide la libertà e una grande forza politica di destra che si piega alle logiche della prima e attraverso il potere politico tenta di imporre un modello teorico di “buona società” non può che umiliare la seconda. E non ci stancheremo mai di ripeterlo.



18 gennaio 2010

lunedì 18 gennaio 2010

Berlusconi e Tremonti: sulle tasse, indietro tutta. Il ‘94 è lontano anni luce

Ora che ci siamo lasciati alle spalle (molto più rapidamente che in passato) l’ennesima suggestione di una riduzione della pressione fiscale, è opportuno compiere alcune riflessioni su questo tema carsico, che ipnotizza gli italiani da ormai oltre un quindicennio. Il dato ormai acquisito è che questa maggioranza di centrodestra non ha il “coraggio” per procedere alle riforme di cui il paese necessita, preferendo di gran lunga la gestione di una quotidianità fatta di interventi al margine, come quello assolutamente necessitato (nel breve termine) dell’estensione della cassa integrazione, presentati come epocali e determinanti per la sopravvivenza del paese.

Oppure come i grandi annunci, a prevalente contenuto onirico, sulle “Grandi Riforme” che avverranno in un futuro che continua a spostarsi più in là, per motivi che tendono ad essere attribuiti a cause di forza maggiore esterna, oppure ad una “opposizione” proteiforme, identificata di volta in volta con chiunque obietti sulla razionalità e sull’efficacia delle misure adottate dal governo. Il perimetro di questa opposizione è ormai vastissimo, spaziando “dalla Cgil alla Banca d’Italia”, per usare l’espressione usata dal ministro del Lavoro. Banca d’Italia arruolata tra le fila dell’”opposizione” per il solo fatto di aver tentato di delineare, in un paper di ricerca, quale potrebbe essere una definizione di inoccupazione più ampia di quella tradizionale, che presenta molti limiti metodologici, quali il non considerare gli scoraggiati (cioè il tasso di attività) e il numero dei cassintegrati. Sappiamo perfettamente, infatti, che non tutti i lavoratori in cig torneranno al lavoro, men che meno in un quadro congiunturale come l’attuale, dove la profondità della crisi costringerà a profonde e dolorose ristrutturazioni.

In un contesto dove anche la ricerca accademica è accusata di essere diventata espressione di sentimento antinazionale, per usare l’espressione di Ilvo Diamanti, restano assai pochi argomenti suscettibili di essere trattati in un pubblico dibattito. Ipotizzando che il fisco possa essere tra quelli (non è dato sapere fino a quando, però), è utile confrontare le tesi contenute nel Libro Bianco sul fisco del 1994, elaborato da Giulio Tremonti, con l’attuale mainstream della maggioranza. Diciamo subito che il Libro Bianco era un modello a cui ispirarsi, per modernità e razionalità delle scelte. Lo spostamento della tassazione dalle persone alle cose, la riduzione della pendenza della curva delle aliquote, la drastica semplificazione del numero dei tributi sono tutti capisaldi di una strategia offertista che abbiamo sempre condiviso e che perseguiamo politicamente. Quello che è accaduto negli anni successivi, al comune sentire ed all’estensore di quel Libro Bianco, sarà valutato dai posteri, ma per parte nostra possiamo già trarre alcune inferenze e valutazioni.

In primo luogo, nel corso degli anni il dibattito sul fisco è degenerato, nel centrodestra, da grande visione riformista a intervento spot ed incoerentemente populista. L’esempio palmare è quello della soppressione dell’Ici sulla prima casa. Un’imposta che doveva essere riconvertita in uno dei pilastri del federalismo fiscale prossimo venturo, responsabilizzando i comuni (ai quali doveva essere attribuita anche la gestione del catasto). Invece si è scelta la scorciatoia della sua eliminazione tout court, a furor di campagna elettorale. Può non piacere, ma il fisco non è fatto solo di imposte personali sul reddito, ma anche di imposte sulla proprietà e sul patrimonio, combinate in modo da stimolare la crescita o almeno da non disincentivarla. E’ così in tutti i paesi con i quali ci confrontiamo. Abolendo l’Ici sulla prima casa si è compiuta un’operazione regressiva, si è aumentata la dipendenza della finanza locale da trasferimenti compensativi dal centro, cioè il suo carattere “derivato”, e in sintesi si sono violati i principi contenuti nel Libro Bianco del 1994.

L’Italia, comparativamente agli altri paesi Ocse, presenta una maggiore aliquota media di tassazione del lavoro (cioè l’incidenza di imposte dirette e contributi sociali rispetto al reddito da lavoro dipendente così come misurato in contabilità nazionale), una tassazione d’impresa lievemente superiore alla media europea (per aliquota nominale) ed una tassazione delle attività finanziarie dei residenti inferiore. Questi sono i caratteri persistenti del nostro sistema fiscale, queste le aree sulle quali occorre intervenire, soprattutto quella sul lavoro. Nulla di tutto ciò è stato fatto, dal 1994 ad oggi. O meglio, per essere più equi, dal 2001 (anno di vero inizio di governi di legislatura del centrodestra) ad oggi.

Oggi Tremonti parla della necessità di studiare attentamente in quali aree intervenire, per evitare di fare “macelleria sociale”. Innegabile, ma forse ha già avuto lunghi anni a disposizione per farlo, stando al governo ed all’opposizione. Il punto è che lo stesso Tremonti ha avuto una profonda evoluzione (o meglio, una involuzione) nel corso di questi tre lustri abbondanti. Da liberalizzatore antistatalista a difensore del primato dell’intervento pubblico micro-regolatore, in base alla fallace premessa che “il liberismo ha fallito”. Non è certo il liberismo quello che ha fallito in Occidente in questi anni, quanto il centauro fatto di cattura regolatoria e abdicazione dello stato dal ruolo di regolatore (senza discrezionalità) dell’infrastruttura di mercato. C’è motivo di temere che il Tremonti di oggi, che usa il termine “etica” un numero inquietante di volte, non riscriverebbe più quel Libro Bianco, preferendo dedicarsi alla scrittura di norme fiscali volte non alla massimizzazione del gettito ed alla minimizzazione delle distorsioni che la tassazione esercita sul mercato, quanto a microgestire l’economia secondo discrezionali giudizi di valore, morale e moralistico, socialmente invasivi. Il tutto moltiplicando le imposte e frenando crescita e gettito.

Ma forse siamo noi a sbagliare. Forse in questo paese, al dunque, la maggioranza degli elettori resta conservatrice dello status quo. Anche per effetto di slogan come quelli sulla “macelleria sociale”, che negli anni sono serviti solo a mummificare l’Italia e a farla scivolare indietro nelle classifiche internazionali di crescita economica. La paura del cambiamento è una potente leva degli orientamenti politici ed elettorali. Forse è questa la ragione del successo bipartisan dei sindacalisti in politica. Sfortunatamente, agli elettori non viene detto che la conservazione dello status quo non è un’opzione realmente praticabile. La storia giudicherà il berlusconismo (ed il tremontismo) soprattutto su questo.

Mario Seminerio - Nato nel 1965 a Milano, laureato alla Bocconi. Ha oltre quindici anni di esperienza presso istituzioni finanziarie italiane ed internazionali, dove ha ricoperto ruoli di portfolio manager ed analista macroeconomico, ed è attualmente portfolio advisor. Ha collaborato con le riviste Ideazione ed Emporion e con l’Istituto Bruno Leoni. Giornalista pubblicista, è stato editorialista di Libero Mercato.


CREDITS: Libertiamo

sabato 16 gennaio 2010

Se Danielona nn dispiace solo a me...

Quelli che seguono, sono due interventi, legati l'uno all'altro, su perplessità verso la Santanchè.

Le ritengo importanti, soprattutto, perchè vengono da altre donne "di destra"...


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Quello che le donne (del Pdl) non dicono

di Alessandra Mussolini


«Maometto era un pedofilo». «Avremo la bava alla bocca». «Silvio è ossessionato da me: non gliela do». «Silvio vede le donne solo orizzontali». «Tranne me, le altre donne della politica sono tutte strumento di uomini». È un bouquet di perle di saggezza motivo per le quali noi, donne del Pdl, dovremmo essere felici e soddisfatte se un certo personaggio entrerà nel governo. Probabilmente questo personaggio ha cambiato idea o è successo qualcos'altro che gliel'ha fatta cambiare e noi, donne del Pdl, non ce ne siamo accorte. A soli 18 mesi, da quando questo personaggio si autocandidò con un partito non suo contro Berlusconi e il Pdl - vabbè, ma questo forse è solo un dettaglio… - assistiamo alla conversione sulla via di Damasco: così come San Paolo era uno dei più agguerriti avversari dei cristiani anche il personaggio appariva "incazzata" (per dirla come lei) contro il Pdl.
Poi, la conversione. Non c'è che dire: meno male che Silvio c'è! E di fronte a una conversione, in fondo noi, donne del Pdl, soddisfatte dovremmo esserlo davvero. Noi, donne del Pdl, abbiamo lavorato sodo, in tutti questi mesi, per costruire una casa politica solida, credibile e accogliente: è giusto dare ospitalità ai pellegrini della politica. Noi, donne del Pdl, abbiamo sacrificato simboli e posizioni personali per il bene comune: è giusto, quindi, dare un posto all'ultimo arrivato come al figli prodigo. Noi, donne del Pdl, abbiamo sperato in un partito aperto e plurale, auspicando una apertura a personalità importanti e di peso: è giusto, così, che si accolga un personaggio che magari è di peso per i bijoux. Noi, donne del Pdl, abbiamo fermamente creduto e operato affinchè la meritocrazia e la affermazione di una democrazia paritaria fossero al centro dell'azione politica del Pdl: è giusto, allora, che aumenti la componente femminile al governo con una donna proveniente da un altro partito. Tutto ciò per noi, donne del Pdl, dovrebbe essere fonte di felicità e soddisfazione. Ma allora perché ci sentiamo così infelici, insoddisfatte?


16/01/2010


CREDITS: Secolo d'Italia

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Alcune perplessità femminili sul forse prossimo sottosegretario al welfare
Santanché. E una conversione che non dà felicità

di Cecilia Moretti


Per presentarla, Alessandra Mussolini, preferisce non usare parole sue, ma citare lei stessa, offrendo un florilegio di citazioni che la persona in questione ha dispensato nelle occasioni più varie: dibattiti, incontri, interviste, salotti televisivi, spesso. «Maometto era un pedofilo». «Avremo la bava alla bocca». «Silvio è ossessionato da me: non gliela do». «Silvio vede le donne solo orizzontali». «Tranne me, le altre donne della politica sono tutte strumento di uomini». Queste le affermazioni selezionate.

Il copy right è di Daniela Santanché, il soggetto sottinteso non tanto misterioso del corsivo della Mussolini, tutto dedicato a lei, sul Secolo di oggi. Proprio nei giorni in cui circola sempre più insistente la voce che vuole la ex leader de La Destra prossimo sottosegretario al welfare. È esattamente su questa «conversione sulla via di Damasco» che la Mussolini si concede qualche riflessione, facendosi portavoce delle donne del Pdl e dei loro non detti sottintesi.

«Come San Paolo era uno dei più agguerriti avversari dei cristiani, anche il personaggio appariva “incazzata” (per dirla come lei) contro il Pdl». (Il personaggio, ça va sans dire, è la Santanché).
Poi la folgorazione, «a soli 18 mesi da quando questo personaggio si autocandidò con un partito non suo contro Berlusconi e il Pdl». E fu, allora, meno male che Silvio c’è. Con convinzione, senza ombra di dubbio, proclami. Quasi questa fosse l’indefessa fede di sempre.

«Probabilmente questo personaggio ha cambiato idea o è successo qualcosa che gliel’ha fatta cambiare e noi, donne del Pdl, non ce ne siamo accorte», spiega ancora la Mussolini un po’ perplessa. Ma ecco che qui arriva al punto, precisando quello che la turba, ciò che non capisce. Aldilà di tutto, questa della Santanché pur sempre conversione è, di questo si tratta e «di fronte a una conversione, in fondo noi, donne del Pdl, soddisfatte dovremmo esserlo davvero». Soddisfatte e felici. Perché, elenca, «noi, donne del Pdl, abbiamo lavorato sodo, in tutti questi mesi, per costruire una casa politica solida, credibile e accogliente: è giusto dare ospitalità ai pellegrini della politica. Noi, donne del Pdl, abbiamo sacrificato simboli e posizioni personali per il bene comune: è giusto, quindi, dare un posto all’ultimo arrivato come al figliol prodigo. Noi, donne del Pdl, abbiamo sperato in un partito aperto e plurale, auspicando una apertura a personalità importanti e di peso: è giusto, così, che si accolga un personaggio che magari è di peso per i bijoux. Noi, donne del Pdl, abbiamo fermamente creduto e operato affinché la meritocrazia e la affermazione di una democrazia paritaria fossero al centro dell’azione politica del Pdl: è giusto, allora, che aumenti la componente femminile al governo con una donna proveniente da un altro partito. Tutto ciò per noi, donne del Pdl, dovrebbe essere fonte di felicità e soddisfazione».

Ecco, invece, no. Non è così. E precisamente questa è la stranezza su cui si riflette, che poi tanto stranezza non è. E la risposta che la Mussolini cerca, alla fine si scopre essere già nella sua stessa domanda. Noi lì l’abbiamo trovata. E con noi probabilmente qualche altro.

16 gennaio 2010


CREDITS: FFWebMagazine