lunedì 23 agosto 2010

In alto, a destra. La scommessa di Fini, guardando avanti

Gianfranco Fini ha tra le mani una vera opportunità politica. Quella di proseguire, suo malgrado fuori, e non più dentro il partito berlusconiano, la modernizzazione liberale della destra italiana, la cui speranza è stata legata per oltre un quindicennio all’icona di Berlusconi. Fini è un’icona diversa: più “antica”, nel senso della continuità con la storia della Prima Repubblica, ma insieme più “moderna” perché alternativa ad un leaderismo anti-politico, che nella storia italiana ha molti precedenti, anche a destra, e nell’ultimo Berlusconi purtroppo un interprete “professionale” e perfetto.
L’icona di Berlusconi è calda, strabordante, “personale”. Quella di Fini fredda, istituzionale e “politica”. Ma il problema e la differenza non è solo di forma, di temperamento o di carattere.
La difesa del dissenso contro la logica del partito plebiscitario ha posto Fini in rotta di collisione con il berlusconismo, che, nella sua deriva finale, ha completamente sostituito la politica e la discussione delle idee con le kermesse, i sondaggi, le feste azzurre, le relazioni private, dichiarando un’assoluta intolleranza verso ogni tipo di dibattito – qualificato tout court come teatrino – e verso chi chi, in un modo o nell’altro, più o meno sensatamente e efficacemente, ha provato ad animarne qualcuno. Questi uomini e donne nel lessico berlusconiano (quello sì, indubbiamente penetrante e persuasivo) sono divenuti “parrucconi”, “vecchi arnesi” e altre finezze simili.

L’impresa già riuscita a Fini in questi due anni (anche se la svolta, in realtà, era partita procedendo in un crescendo rossiniano già dal 2003) è, anzitutto, quella di aver ridato un volto e un’appartenenza a chi, specie tra i giovani, forse con una punta di idealismo, ha ritrovato la voglia di tornare in piazza, nelle sedi reali o virtuali di discussione, sul web, a parlare criticamente di alcuni valori: la patria, l’etica pubblica, i nuovi diritti e la legalità declinata in maniera postideologica, in particolare oltre le contrapposte derive manettare o insabbiatrici. E’ evidente, dunque, che la “svolta” di Fini è un tornante della storia italiana che non ha nulla a che fare con un semplice ritorno al passato e a quella che era la politica prima dell’anomalia berlusconiana.

L’obiettivo ora deve essere quello di allargare, citando Lucia Annunziata, l’orizzonte di Futuro e Libertà per l’Italia: un futuro che non è rappresentato dall’astensione sulla sfiducia al sottosegretario Caliendo, interpretata dagli analisti come la premessa per la creazione di un “terzo polo” puramente tattico con Casini e Rutelli che, indubbiamente, almeno un poco “vecchi arnesi” lo sembrano, per una loro idea molto manovriera della politica e per un certo equilibrismo centrista. Si alzi in piedi chi, almeno una volta, non l’ha pensato. Il vero obiettivo “futurista” di quella generazione figlia legittima del Berlusconi pre-politico (quello dei Drive In) e di quello politico (il Silvio delle meraviglie e del partito liberale di massa) è di passare il guado, di fare almeno un po’ ciò che per 15 anni si è quasi solo detto, di non rinnegare affatto, ma di non servire più un babbo che si è fatto ormai troppo vecchio e risentito e che ha perso lo smalto e la freschezza necessari a realizzare la famosa, promessa e mai realizzata, “rivoluzione liberale”.

I “futuristi”, dunque, come rivendica giustamente il Secolo d’Italia rifiutano tutti i clichè: “Macchè terzo polo e ribaltone, siamo l’altra destra possibile”. Ecco, forse è proprio questo il passaggio necessario (e decisivo) a rianimare quella “svolta in alto a destra” che, a differenza di quanto ha scritto Lucia Annunziata, non è affatto cominciata con un’astensione e rimane ancorata, malgrado le difficoltà, alla lealtà verso l’impegno di governo conferito all’intera maggioranza, e non al solo Berlusconi, dagli elettori. “In altro a destra” si possono incontrare quei ragazzi nati dopo 1989, o anche un po’ prima, che – per loro fortuna o meno – non hanno conosciuto le stagioni delle “pastette”, dei “compromessi storici” e delle “convergenze parallele”. Non è quella, manifestamente, né la logica né la strategia del Fini di oggi come, per ragioni opposte, del Fini di ieri. Il suo linguaggio rimane politico, non politichese.

Daniele Priori - Nato a Marino (Rm) il 27 marzo 1982. Giornalista, è segretario politico dell’associazione GayLib. Tra i primi tesserati dei Riformatori Liberali dall’autunno 2005, è tra i soci fondatori di Libertiamo. Collabora col “Secolo d’Italia” e con riviste locali e nazionali. E’ direttore di collana presso l’editrice Anemone Purpurea di Roma per la quale ha pubblicato, insieme a Massimo Consoli, il libro “Diario di un mostro – Omaggio insolito a Dario Bellezza”


CREDITS: Libertiamo

venerdì 6 agosto 2010

Il PDL deve svegliarsi dal sonno dogmatico

- Lettera di Benedetto Della Vedova a L’Opinione di giovedì 5 agosto 2010 -

Caro Arturo,
commentando la mia adesione al gruppo parlamentare di Futuro e Libertà alla Camera dei deputati, mi hai fatto una serie di domande difficili. A cui non voglio dare risposte facili. Ma a cui voglio rispondere non solo per l’amicizia e la stima che mi lega a te e al tuo giornale, ma per il dovere, che avverto, di spiegare il senso della mia scelta a molti amici liberali e radicali che hanno seguito la mia vicenda politica dal 2005 ad oggi, prima nei Riformatori Liberali e poi in Libertiamo.
Risposta alla prima domanda. E’ proprio vero che la rottura tra Fini e Berlusconi si è consumata su di una questione di “democrazia interna”? No. Non c’è stata una rottura, ma un’espulsione. Le cose vanno chiamate col loro nome. Di quale modello di “democrazia interna” si debba dotare un partito moderno, si sarebbe continuato a discutere. Io ero per un modello molto “americano”, da partito degli elettori più che da partito degli iscritti, per la logica delle primarie più che per quella delle tessere. Ma non si è arrivati a discutere di quello. Fini è stato buttato fuori prima, perché “fuori linea”. E chiunque legge l’ordine di proscrizione votato dal PdL capisce la comicità involontaria di quel documento berlusconian-leninista.

Seconda riposta. Penso – mi chiede Arturo – che “Fini rinunci alla sua vocazione autocratica che precede addirittura quello del Cavaliere”? Sì. Peraltro non penso che nella transizione tra Prima e Seconda repubblica i one-man party del centrodestra – quello finiano, quello berlusconiano, quello bossiano – rispondessero alla malizia narcisistica di leader autocratici, ma ad una debolezza strutturale del sistema politico. Le letture “psicologiche” non mi convincono. Preferisco quelle razionalmente politiche. Finiti i partiti della Prima Repubblica, mancavano quelli della Seconda, e sono stati surrogati da leadership impegnate in progetti epocali: la costituzionalizzazione ed “europeizzazione” della destra, l’affermazione di un liberal-popolarismo di massa, e la costruzione di un sindacato di territorio nordista. Tutti hanno governato da “padroni” la fase eccezionale (e eccezionalmente lunga) che dal ‘94 ha portato al collasso del centrosinistra. A quel punto si è tornati – o meglio, si pensava di essere tornati – alla normalità. Il PdL non è il partito del “predellino”, è il partito che voleva edificare la casa comune dei moderati e dei liberali dei prossimi decenni. Decenni, non mesi. Un partito così doveva per forza funzionare in modo “normale”. Discussioni, divisioni, negoziati, compromessi. Lo fanno tutti i partiti del centrodestra europeo e occidentale. Lo doveva fare anche il PdL. Invece no, dopo poco più di un anno, si è “costituzionalizzato” un modello di partito centralistico-carismatico e si è istituito un servizio d’ordine ideologico incaricato di pedinare i deviazionisti. Faccio io una domanda a te, Arturo: in quale posto dell’Occidente avanzato i partiti liberal-conservatori funzionano così?

Risposta alla domanda numero tre. L’idea di partito che Fini ha in testa non rimanda al “modello archeologico” della prima Repubblica? La mia risposta è questa: se salta definitivamente il PdL, cioè se salta il bipolarismo, e questa frattura non viene ricomposta e riassorbita, i partiti post-berlusconiani somiglieranno molto a quelli della Prima Repubblica. La natura dei partiti non dipende solo dalla volontà dei leader, ma dagli incentivi e dai limiti posti alla loro azione dalle caratteristiche del sistema politico. Se invece nel PdL ci si sveglia dal sonno dogmatico – siamo ancora in tempo, per quanto non so – si può salvare a destra e quindi anche a sinistra un modello di partito maggioritario, di “partito-paese”, capace di sopravvivere all’inevitabile fine della vicenda politica berlusconiana.

Grazie per l’attenzione e l’ospitalità.

Benedetto Della Vedova

Con Libertiamo, per l’egemonia liberale nel centrodestra

Le critiche mosse su questo giornale all’adesione di Benedetto Della Vedova al gruppo di Futuro e Libertà nascono da un assunto: che Fini non è un liberale. Non lo è per storia e formazione. E questa non è certo una novità. La conseguenza argomentativa ricavata dai lettori, tuttavia, è che Fini, liberale, non lo sarà mai. La composita formazione parlamentare costituitasi su sua iniziativa si configurerebbe, pertanto, come un mostruoso incubatore di quell’assistenzial-statalismo di tradizione aennina di cui la nascita del Pdl aveva definitivamente consegnato le spoglie al cimitero dei caduti (ideologici) novecenteschi.

Quell’assunto, a giudizio di chi scrive, è fattualmente infondato. Per almeno due ragioni. La prima: il percorso intellettuale compiuto da Fini nei tre lustri trascorsi. L’ex missino arrivato ad accogliere le suggestioni innovative e trans-ideologiche delle moderne destre europee (da Rajoy a Sarkozy a Cameron). Il passaggio dal conservatorismo ‘legge e ordine’ alle battaglie (liberali) sulle libertà civili, i diritti di cittadinanza, i temi eticamente sensibili. Battaglie per le quali – rammentiamo – Fini ha finito col pagare lo scotto dell’isolamento e dell’abiura da parte del suo stesso partito. Quel partito, il Pdl, non a caso nato con la parola ‘libertà’ nella sua ragione sociale!

La seconda ragione per la quale a nostro avviso le doglianze espresse dagli amici lettori meritano di essere ricondotte ad una più razionale ponderazione è che, in Futuro e Libertà, Della Vedova c’è in quanto liberale. C’è perché militante di quella missione da cui tutti qui, collaboratori ed amici lettori di Libertiamo, ci sentiamo ciascuno nel nostro ruolo investiti.

La linea di Libertiamo, come ha ribadito Piercamillo Falasca, non cambia.
Le posizioni critiche, come ha garantito Pasquale Annichino, continueranno ad essere incoraggiate.

Personalmente avanzo al lettore uno spunto di riflessione in più.
Credo che la prospettiva aperta con la nascita di Futuro e Libertà sia per Libertiamo strategicamente, culturalmente e politicamente profittevole. Credo infatti che della causa della libertà si possa finalmente fare, all’interno del centrodestra, quello che la Lega ha fatto per la causa del Nord: non una ma ‘la’ battaglia per recuperare alla sua mission primigenia l’azione di governo. E perché questo sia occorrerà fondamentalmente una cosa: che la visione liberale diventi – mi si passi il richiamo gramsciano – ‘egemonica’.

Prosaicamente, credo che con la nascita di Futuro e Libertà a Libertiamo si offra la chance – una pura velleità nel partito afono del leader – di sfoderare la lama delle ragioni liberali.
L’obiettivo che Libertiamo ha inseguito in questi anni – ricondurre la bussola della riflessione, oltre che dell’azione politica, del centro destra lungo il percorso (talvolta abbandonato, talaltra troppo timidamente battuto) della riduzione dello stato nella società e nell’economia italiana – ad avviso di chi scrive pare dunque avvicinarsi, con lo ‘sparigliamento’ del Pdl, non annichilirsi. Non smarrirsi in un indistinto ritorno alla pre-modernità aennina.

Su quali basi fondo questo ragionamento? Beh, su un fatto: il ruolo primario assunto da Della Vedova all’interno del nuovo gruppo parlamentare. Un peso politico nuovo per un liberale, niente affatto scontato e, per questo, niente affatto privo di costi che lo stesso Della Vedova avrà il dovere di onorare, non solo con la maggiore responsabilità all’interno dell’attività parlamentare, ma anche, mi si conceda, per il conto che tutti noi ‘militanti della libertà’ che in lui riponiamo fiducia non mancheremo di sottoporgli.

Opziono dunque questo ragionamento ad un ‘ma’ che – riconosco – più che eventuale è condizione dirimente. Il gruppo di Futuro e Libertà, pur se confinato per ora alla sola azione parlamentare, deve adesso chiarire – in maniera univoca e, possibilmente, tempestiva – quali sono le sue priorità. Quali, cioè, gli obiettivi in direzione dei quali orientare (e dare coerenza) ad un’attività politica che nei mesi a venire si fonderà, inevitabilmente, sul confronto con la maggioranza di governo.

È necessario che il contributo che Fli darà all’agenda di governo sia sostanziale, e sostanzialmente orientato agli impegni prioritari per il paese (oltre che per gli elettori di centrodestra): le liberalizzazioni e la riforma federale dello stato, la svolta radicale nel rapporto tra burocrazia e cittadini e tra fisco e imprese. Prioritario è ridurre peso ed estensione dello stato; prioritario eliminare le sacche di illegalità che si annidano nell’ipertrofia normativa (troppe leggi, nessuna legge: è nel far west che vive il Paese reale. E questo non è tollerabile non più e non solo in termini etici ma – anche e soprattutto – per le aberranti ricadute sul sistema economico nazionale). Prioritario portare al Sud il dizionario della responsabilità, cominciando a parlare agli individui, non agli establishment ostinatamente ancorati alla preservazione del pubblico come necessità
Sono queste le priorità dei finiani? Se si che lo dicano e si impegnino a perseguirle.

Futuro e Libertà fallirà se non saprà essere altro che un gruppo ‘contro’. Riuscirà, al contrario, se saprà agire in sede governativa come una ‘lobby’ libertaria, portatrice di quegli interessi modernizzatori e riformatori ai quale il Pdl è stato sin qui troppo colpevolmente sordo.

È una sfida, quella di Fli. È una sfida che comporta una buona dose di saggezza, di arguzia strategica ed anche di determinazione. In questo Libertiamo può offrire un contributo decisivo. Continuando sostanzialmente a fare quanto fatto con solida coerenza sino ad ora, confidando, come sempre, nel fondamentale ruolo – critico, stimolante – dei suoi lettori.

Simona Bonfante - 37 anni, siciliana, giornalista e blogger, si è fatta le ossa di analista politico nei circoli neolaburisti durante gli anni di Tony Blair. Dopo un periodo in Francia alla scoperta della rupture sarkozienne, è recentemente rientrata a Milano dove, oltre a scrivere per varie testate online, si occupa anche di comunicazione politica, per lo più come ghostwriter.


CREDITS: Libertiamo

mercoledì 4 agosto 2010

Il PdL? Per noi doveva essere libertario…

- di Carmelo Palma, da Il Secolo d’Italia del 4 agosto 2010 -

Res sunt consequentia nominum. Il centralismo democratico “chiama” le espulsioni, le comporta come pratica, perché le prevede come regola, le impone come ordine efficiente, perché concepisce il dissenso come disordine. I chierici della leadership pensano che la fisiologia liberale sia una patologia democratica, che la libertà politica sia compresa nell’unità del partito e non possa eccederla.

L’espulsione di Fini e dei finiani del PdL è una conseguenza logica della decisione illogica d’imbalsamare il carisma berlusconiano e di prestare ai fini della politica liberale i mezzi, e perfino il vocabolario, della disciplina leninista. Come se la qualità liberale rilevasse solo “fuori” e non “dentro” e la regola di un partito – come di qualunque organizzazione umana – non desse, assai più dei suoi progetti, una misura esatta della sua identità.

Quando nell’aprile scorso la Direzione del PdL si riunì per rintuzzare le critiche del Presidente della Camera, pose le premesse per l’imputazione e per la sentenza pronunciata venerdì scorso dall’Ufficio politico del PdL. E lo fece con disinvoltura e noncuranza, come se le parole leniniste potessero esprimere, ma non travisare la sostanza di un partito per definizione “liberale”.

“L’unità d’azione nel periodo della lotta è assolutamente necessaria. Nessuna critica, nel corso di questa lotta infuocata, è ammissibile all’interno dell’esercito proletario”
scriveva Lenin nel 1906, così spiegando il centralismo democratico:

“Libertà di discussione, unità d’azione: … E’ questo un principio nuovo nella prassi del nostro partito, ed è quindi indispensabile lavorare a fondo per la sua coerente applicazione”.
Di questo “nuovo” principio devono aver tenuto conto i componenti del Politburo berlusconiano, stilando un documento che ha il tenore, lo spirito e la lettera dell’originale leniniano:

“Le posizioni dell’On. Fini si sono manifestate sempre di più, non come un legittimo dissenso, bensì come uno stillicidio di distinguo o contrarietà nei confronti del programma di governo sottoscritto con gli elettori e votato dalle Camere, come una critica demolitoria alle decisioni prese dal partito, peraltro note e condivise da tutti, e infine come un attacco sistematico diretto al ruolo e alla figura del Presidente del Consiglio”.
Non siamo stati in pochi a ritenere che un partito libertario potesse succedere all’anomalia anarchico/monarchica del berlusconismo più credibilmente di un partito-sarcofago costruito per conservare, nei secoli dei secoli, la mummia del fondatore. E non è detto che non lo si possa recuperare dalla pozza in cui è stato gettato con l’acqua sporca della “dissidenza” in un’operazione più suicida che omicida, che ha rovesciato il tavolo del partito per scompaginare i piani di un giocatore.

Peraltro dal punto di vista storico la fondazione del PdL aveva superato, in teoria definitivamente, la logica di un centro-destra imprigionato nel rapporto tra un Berlusconi “sdoganatore” e un Fini “sdoganato”, e aveva aperto una stagione diversa, perché lontani anni luce dalla loro immagine del ’94 erano ormai entrambi i protagonisti.

Un partito libertario, che ricordi più un mercato che una caserma e più una piazza che una sagrestia, esporrebbe il centro-destra italiano a molti rischi, ma scongiurerebbe il peggiore, quello dell’auto-dissoluzione o della libanizzazione, quando verrà meno l’ubi consistam del consenso berlusconiano.

Peraltro, non è solo il centro-destra, ma l’intero sistema politico ad essere appeso a questa vicenda, cui molti si ostinano a guardare come ad una questione privata tra il fondatore il co-fondatore. L’evoluzione del sistema politico italiano, nella lunga transizione che dalla fine della Prima Repubblica ci sta conducendo al termine della parabola berlusconiana, ha visto le leadership sostituire i partiti e l’ordine anti-politico rimpiazzare quello partitocratico.

Ai “partiti-padroni” sono succeduti i “padroni-partito”, dando nel nostro paese una declinazione del tutto particolare e anomala a quella “personalizzazione” che pure è una tendenza caratteristica della politica contemporanea. La mappa della politica italiana è rimasta inchiodata, per oltre un quindicennio, ad una manciata di nomi: Berlusconi, Bossi, Fini, Prodi, Casini, Bertinotti, Di Pietro e la coppia D’Alema-Veltroni. La discesa in campo di Berlusconi non ha imposto, ma consolidato la regola.

Mentre negli altri paesi dell’occidente avanzato i partiti cambiavano i leader (anche quelli più longevi e di maggiore successo), in Italia i leader cambiavano i partiti (solo la Lega ha ancora il nome che aveva nel 1994). Leader forti e inamovibili e partiti fragili e fungibili hanno condannato la politica italiana ad una disciplina rigida e ad una piattaforma erratica, in cui sono più i contenuti ad adeguarsi alle formule che viceversa.

Il PdL, come il suo “gemello diverso”, il Pd, avrebbe potuto trascinare il bipolarismo italiano all’età adulta, non più incidente congiunturale, ma caratteristica strutturale, non più sotto-prodotto fortunato della dialettica tra berlusconismo e antiberlusconismo, ma principio costitutivo del gioco politico-elettorale. La normalizzazione del processo politico attorno a due grandi country-party (come avviene, al di là dei sistemi elettorali, in quasi tutti i grandi paesi avanzati) esige però, innanzitutto, la normalizzazione dei partiti. I partiti di una democrazia normale non possono conformarsi all’eccezione, ma alla regola del sistema.

Come ha scritto su Libertiamo.it Benedetto Della Vedova:

“I partiti sono nel piccolo ciò che i sistemi democratici sono nel grande: un modo per discutere e eventualmente mutare le ricette di governo. Un modo per darsi torto, non solo per darsi ragione…L’unità di tutte (e sottolineo: tutte) le forze politiche moderate e conservatrici dell’occidente avanzato non è garantita da statuti centralistici e da regimi carismatici, ma da forme di organizzazione politica che consentono il confronto competitivo di proposte e di leadership alternative. Se ciò che altrove è fisiologico nel PdL appare patologico, non è così scontato che a sbagliare siano gli altri (tutti gli altri) e che l’unico modo per scongiurare, come è giusto, il ritorno al passato partitocratico sia il consolidamento di una democrazia “anti-partitica”.
Il PdL doveva segnare il passaggio dalla biografia alla storia, dopo meno di due anni segna il ritorno dalla storia alla biografia. Se Berlusconi aveva surrogato la destra che non c’era e inventato, con una buona dose di approssimazione e di fantasia, quella che avrebbe potuto esserci, ora, di quella che c’è, scomunica la parte che non è “sua” e che non sente di appartenergli. Lo stesso berlusconismo nell’arco del quindicennio è stato tutto fuorché uguale a se stesso, ha stabilmente privilegiato la sussistenza politica alla consistenza programmatica, sacrificando ora questo, ora quello alle necessità della congiuntura politica. Primum vivere, deinde philosophari.

In senso stretto, non esiste quindi un’ortodossia berlusconiana, semmai un berlusconismo ortodosso, un richiamo della foresta dell’anti-politica uguale e contrario a quello anti-berlusconiano. Così non è il berlusconismo, ma Berlusconi stesso a farsi ortodossia e a vestire la divisa bolscevica che gli intellettuali della casa gli hanno cucito addosso.

Carmelo Palma - 41 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it


CREDITS: Libertiamo & il Secolo d'Italia

domenica 1 agosto 2010

Libertiamo con Fini e con Futuro e Libertà? Per essere ciò che siamo, liberali

Libertiamo con Fini? Della Vedova nel gruppo parlamentare Futuro e Libertà? Noi sappiamo che una parte del nostro “piccolo mondo liberale” – i lettori, gli autori ed i sostenitori di Libertiamo – è scettica nei confronti di questa scelta. Il rispetto che bisogna avere per le opinioni altrui, e soprattutto per le opinioni di chi ci è più vicino, impone che si spendano un po’ di parole sulle ragioni per cui – da liberali – abbiamo aderito all’iniziativa politico-parlamentare di Gianfranco Fini. A ciò che Benedetto Della Vedova ha scritto ieri e Carmelo Palma l’altroieri, provo ad aggiungere qualche considerazione, partendo dal fondo della storia, da uno stralcio del documento dell’Ufficio di Presidenza del PdL di giovedì sera
l’On. Fini e taluni dei parlamentari che a lui fanno riferimento hanno costantemente formulato orientamenti e perfino proposte di legge su temi qualificanti come ad esempio la cittadinanza breve e il voto agli extracomunitari che confliggono apertamente con il programma che la maggioranza ha sottoscritto solennemente con gli elettori.
Insomma, nel maggiore partito di centrodestra ritenere che sia opportuno ridurre i tempi per l’acquisizione del diritto alla cittadinanza italiana, magari per chi in Italia è nato, e concedere il voto alle elezioni amministrative a tutti i residenti, sostanzialmente sulla base della taxation e non della cittadinanza, è ufficialmente considerato censurabile. Non “minoritario” e nemmeno politicamente “inopportuno”, ma addirittura tanto confliggente con il programma del PdL da rappresentare una causa di incompatibilità politica tra chi ha queste idee e il PdL.

Voltandoci alle nostre spalle, e ripercorrendo gli ultimi diciotto o ventiquattro mesi della vita politica del centrodestra, scorgiamo vive e irrisolte le fratture tra questo PdL e la nostra idea di libertà, di paese e di politica: le strumentalizzazioni sul caso Englaro e sul testamento biologico; una narrazione della congiuntura economica ispirata al principio del “tutto bene, stiamo messi meglio degli altri”, slogan di copertura per l’immobilismo e strategia di sopravvivenza quotidiana (niente riforme, solo maquillage a scopo sondaggi); la promiscuità con certi satrapi illiberali del mondo – da Putin a Gheddafi passando per Lukashenko – lontana parente di una pur legittima realpolitik e sicuramente estranea all’atlantismo che aveva ispirato il governo Berlusconi 2001-2006; il “subappalto” all’esterno di alcuni temi cruciali per la vita della società (alla Lega Nord il federalismo fiscale, il contrasto dell’immigrazione clandestina e le politiche per la sicurezza urbana, alla Conferenza Episcopale la bioetica e i diritti civili); la logica dell’emergenza elevata a metodo di governo; la sensazione di occupazione politica del Tg1, così diversa dal rapporto che Berlusconi aveva saputo avere in passato con l’informazione e così simile a quella che l’antiberlusconismo andava dipingendo in passato; un pilastro delle nostre idee – il garantismo – usato come giustificazione dell’impunità dei potenti, e mai opposto, invece, al giustizialismo praticato nei confronti dei pezzenti (leggasi reato di clandestinità et similia).

Su questi temi, in questo arco di tempo, Libertiamo ha incrociato – non casualmente – Gianfranco Fini e la sua piccola ma ricca e problematica galassia culturale.

Saremo a lungo grati a Silvio Berlusconi per aver sdoganato in Italia la “rivoluzione liberale”, ma sedici anni per un cambiamento sempre annunciato, spesso elettoralmente “ricapitalizzato” e mai praticato hanno fiaccato prima le speranze e poi i nervi della costituency delle nostre idee. Che Berlusconi abbia deluso le aspettative liberali è un rospo che abbiamo inghiottito da un po’: quante volte ce lo siamo detti, in fondo? Per far degli esempi, chi tra noi non ha reagito con un misto di rammarico e scetticismo all’ultimo rilancio sulla modifica dell’articolo 41 della Costituzione, e così nelle ripetute promesse di taglio dell’Irap o di altre imposte? Quanta distanza c’è tra “La paura e la speranza” tremontiana e il programma economico di Martino del 1994 o finanche la riforma (anch’essa tremontiana) dell’Irpef del 2003?

Ed ecco che la domanda di molti è: “E con Fini tutto ciò sarà diverso?”. Se lo scetticismo è sempre comprensibile e legittimo, lo è meno il riflesso di chi giudica un leader e la sua iniziativa sulla base del “dna politico” e non sui dati di realtà e attualità. E’ sbagliato, a giudizio di chi scrive, “decodificare” Fini non per il suo presente politico, ma per il suo passato ormai sufficientemente remoto. Tanto più che questo passato, incomprensibilmente, per Fini sarebbe una condanna, e per altri – a partire dal Cavaliere – un’assoluzione. Noi abbiamo la pretesa di dire che Fini ha in mente il partito che avevamo creduto (o forse sperato) di poter creare, un partito aperto, moderno e plurale che guardi alle migliori esperienze di centrodestra europee ed americane. Non il “partito liberale” – per fortuna o purtroppo, ma questo è un altro discorso – ma un grande partito per la società aperta, in cui le nostre idee possano fattivamente contribuire alla costruzione di una seria e moderna piattaforma programmatica rivolta alla maggioranza degli elettori.

PS. Libertiamo sarà sempre se stessa (e per rincarare la dose in testa alla finestra del browser ora leggete: Libertiamo.it – Idee per una politica liberale, liberista e libertaria). Rompicoglioni eravamo e rompicoglioni restiamo.
DIFFONDI Libertiamo.it!
Inserito da:

Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo. Ha scritto, con Carlo Lottieri, "Come il federalismo può salvare il Mezzogiorno" (2008, Rubbettino) ed ha curato "Dopo! - Ricette per il dopo crisi" (2009, IBL Libri).


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