I liberali, con la loro coerente difesa delle libertà individuali in tutti gli ambiti della vita economica e sociale, tendono a sfuggire alle tradizionali categorie della politica ed a scombinare ordini concettuali scontati e preconfezionati. Proprio per questa ragione è abbastanza comune la tentazione di ricondurre il pensiero liberale a schemi più familiari e collaudati, operando le semplificazioni e le interpolazioni del caso. In questo senso di frequente si sente affermare che i liberali sono “di destra sui temi economici e di sinistra sui temi civili”. E’ opinione di chi scrive che questo sintetico assunto abbia arrecato negli anni notevoli danni ai liberali, generando spiacevoli equivoci e compromettendo la possibilità di comprendere le diverse implicazioni delle loro idee. E’ sbagliato pensare che i liberali debbano essere “di sinistra sui temi civili”, perché su questi argomenti – come su qualsiasi altra questione – i liberali sono per il diritto soggettivo alla scelta, cosa che è ben diversa dall’essere di sinistra. Alcune delle proposte liberali sui temi civili possono indubbiamente apparire “di sinistra”, nel senso che ci si può in linea di principio aspettare che siano condivise dalla sinistra politica, come alcune questioni che attengono alla sfera più intima (l’orientamento sessuale, le scelte riproduttive o l’eutanasia).
Al tempo stesso, su basi liberali, si possono affermare anche molte idee che stridono con le classiche posizioni progressiste. Una delle questioni più paradigmatiche da questo punto di vista è quella della “non discriminazione”: se un liberale difende un principio di neutralità dello Stato rispetto ai suoi cittadini, non necessariamente sottoscrive un sistema sociale in cui ai privati sia negata la possibilità di discriminare, cioè di selezionare i propri rapporti sociali ed economici sulla base di criteri personali, magari anche ampiamente discutibili.
Discriminare significa operare delle scelte. Ed ogni scelta è sempre necessariamente inclusione nei confronti di alcuni ed esclusione nei confronti di altri. Le ragioni che ci conducono a determinate scelte, quelle di avere a che fare o non avere a che fare con qualcuno, sono evidentemente soggettive. Possono essere più o meno sagge, possono essere giudicate come economicamente inefficienti sulla base di considerazioni macroeconomiche, possono essere infine considerate “sbagliate” secondo la morale in vigore in un certo periodo. Ma quello che è certo è che tali scelte devono essere considerate insindacabili, nel momento in cui si collocano nella sfera della libertà di ciascuno. Se decidiamo di non comprare più la carne dal nostro macellaio abituale può essere per un ampio ventaglio di possibili ragioni. Perché abbiamo deciso di diventare vegetariani, perché abbiamo trovato un macellaio con carne migliore o a prezzi migliori, perché in un altro negozio a servire c’è una bella ragazza, perché il nostro macellaio ultimamente sta diventando maleducato, perché è interista, perché si è fatto un piercing al naso, perché tutto sommato ha la pelle troppo scura. Sono fatti nostri.
Il recente dibattito sull’omofobia, ad esempio, ha bene evidenziato i possibili termini della questione. Se a destra si continua a rifiutare che la famiglia tradizionale possa essere messa a tutti gli effetti in concorrenza con patti di convivenza alternativi, a sinistra si pretende molto spesso di mettere in clandestinità qualsiasi giudizio negativo sull’orientamento omosessuale.
In realtà il pieno diritto dell’omosessuale di esprimere le proprie scelte sessuali dovrebbe poter pienamente convivere con il diritto di altri di non gradire tali scelte, e di manifestare conseguentemente in forme non violente il proprio punto di vista. Non è ammissibile, da una prospettiva di vista liberale, pensare di neutralizzare per legge le preferenze culturali delle persone, perché questo rappresenterebbe un’evidente aggressione alla libertà di opinione e di associazione.
Per questo occorre difendere – per le stesse identiche ragioni – il diritto dell’omosessuale ad esternare la propria sessualità ed il diritto dell’omofobo ad esternare la propria contrarietà allo stile di vita omosessuale.
Il liberale non deve temere di creare scandalo tra i “conservatori” sostenendo magari la possibilità dell’adozione per le coppie omosessuali e allo stesso tempo di creare scandalo tra i “progressisti” battendosi contro qualsiasi ipotesi di introduzione del “reato di omofobia”.
Del resto è persino paradossale che lo Stato da un lato vieti alle coppie gay il diritto di sposarsi e di crescere bambini – relegandole esso stesso quindi in una condizione di minorità morale – dall’altro pretenda di punire “discriminazioni” (anche presunte) quando sono messe in atto da soggetti privati.
L’elaborazione liberale e libertaria ha saputo produrre sul tema dell’egualitarismo argomentazioni robuste contro molti capisaldi dell’agenda politica progressista, come quote, azioni positive, integrazione forzata e leggi anti-discriminazione.
Intellettuali laissez-faire come Wendy McElroy o Thomas Sowell hanno fornito contributi importanti al dibattito sostenendo come l’emancipazione delle donne e delle minoranze etniche debba passare attraverso le dinamiche di mercato – che peraltro si sono dimostrate straordinariamente efficienti in tal senso – e mettendo in guardia invece contro l’invadenza normativa e la tentazione di forzare la mano imponendo soluzioni politiche “a tavolino”.
Tali soluzioni sono da rigettare perché limitano la possibilità degli individui di rapportarsi liberamente, entrando nel merito delle decisioni economiche di soggetti privati e sottoponendo tali decisioni ad un vaglio di accettabilità politica, e perché si traducono inevitabilmente in una reverse discrimination istituzionalizzata nei confronti della cosiddette “classi privilegiate” (di volta in volta gli uomini, i bianchi, etc.).
Come scrive, in proposito, la McElroy “se ad un uomo viene negata l’assunzione o la promozione che merita in base ad un sistema di quote, questa non è giustizia, è vendetta – ed è sbagliato”.
Le sociologhe Cathy Young, Christina Hoff Sommers e Daphne Patai hanno speso negli ultimi anni molte pagine per evidenziare come questo tipo di politiche di genere contribuiscano peraltro ad avvelenare il clima tra i sessi creando in taluni ambienti un clima di caccia alle streghe “politicamente corretta” contro il maschio.
Un’importante conseguenza inintenzionale dell’approccio progressista – ben enfatizzata dal “nero” Sowell – è infine il rafforzamento di una cultura dell’eterno vittimismo e della dipendenza nelle “classi” che sono beneficiarie delle affirmative actions, una cultura che non contribuisce a favorire lo spirito d’iniziativa e l’obiettivo di una vera autosufficienza.
Fondamentalmente essere liberali vuol dire rifiutare la prospettiva costruttivista, cioè l’idea che si debba implementare attraverso mezzi politici una visione del mondo “giusta a priori”.
L’idea da rifiutare è che gli individui si debbano allineare per legge alla morale maggioritaria di una certa epoca. Questo deve valere sia quando la morale in questione sia quella bigotta e tradizionalista, sia quando la morale in questione sia quella progressista che si nutre di concetti quali il multiculturalismo e l’egualitarismo. Meglio invece che gli equilibri culturali emergano dal basso, come esito di una grande pluralità di interazioni libere tra gli individui. In effetti uno degli aspetti meno convincenti della visione di sinistra su certe questioni è l’ossessione per l’uniformità, per l’applicazione armonica e su larga scala di determinati principi di fratellanza ed uguaglianza, dove ogni deviazione rispetto alla visione ideale è considerata inevitabilmente una stortura da correggere.
Il liberale è per natura più scettico rispetto alle pretese della politica di creare società perfette e nei confronti di ogni progetto di ingegneria sociale. Preferisce di norma la varietà all’uniformità, le decisioni decentrate a quelle centralizzate, le soft laws alle hard laws.
Una società libera e non “pianificata”, del resto, sarà inevitabilmente una società fatta di regole e di decisioni disomogenee, a macchia di leopardo, determinate dagli attori coinvolti: ci saranno scompartimenti in cui si può fumare e scompartimenti anti-fumo, quartieri inclusivi e quartieri esclusivi, multietnica in certi luoghi e meno in altri, spiagge nudiste e quelle in cui è vietato il topless. Ci saranno posti in cui due gay potranno baciarsi in pubblico ed altri in cui sarà particolarmente sconveniente farlo.
Anche sul tema dell’immigrazione sarebbe sbagliato che i liberali non rivendicassero la propria originalità e la propria alterità rispetto all’elaborazione politica di sinistra.
Se la semplificazione populista e “cattivista” di alcuni ambienti di destra appare inadeguata a gestire ed a comprendere la complessità del fenomeno migratorio, la ricetta giusta non è nemmeno il “volemose bene” caro alla sinistra ed a larga parte del mondo cattolico.
La sfida che si presenta ai liberali è pertanto quella di prefigurare una terza via tra la xenofobia preconcetta e l’integrazione forzata, basata sul rispetto per gli immigrati che vengono in Italia per lavorare, ma al tempo stesso su una rigorosa difesa del concetto di proprietà privata e di libertà di associazione (inclusiva della libertà negativa di associazione).
In questo senso un mero rilassamento delle attuali politiche di immigrazione e di cittadinanza non appare una risposta soddisfacente: secondo Murray Rothbard, padre del moderno libertarianism, un liberalismo spinto alle sue estreme conseguenze non significa affatto “frontiere aperte”. Il modello di società “privatizzata” che ne conseguirebbe sarebbe “chiuso quanto gli specifici abitanti/proprietari lo desiderassero”.
Certo, noi non viviamo nel modello anarcocapitalista teorico prefigurato da Rothbard bensì in un sistema in cui una parte del territorio è posseduto dai privati, ma la maggior parte del territorio è pubblico. Tuttavia in questo contesto effettivo appare un po’ semplicistico pensare che le restrizioni all’accesso possano essere applicate solo alla parte privata, mentre la proprietà pubblica debba essere considerata una sorta di res nullius, pertanto aperta in linea di principio a qualsiasi immigrazione incontrollata.
E’ invece più ragionevole e pragmatico che gli abitanti di un certo paese esercitino una forma di controllo e di selezione su chi viene ammesso all’interno dei confini di quel paese e a maggior ragione su chi viene ammesso all’utilizzo dei “mezzi politici” (cioè alla possibilità attraverso il voto di influenzare la redistribuzione statale della ricchezza). Dal punto di vista utilitaristico l’immigrazione comporta indubbi vantaggi, tra cui la possibilità di disporre di una forza lavoro fresca ed ad un minor costo, ma va riconosciuto che essa comporta anche una serie di esternalità negative, in primo luogo in termini di sicurezza reale e percepita.
L’economista libertario Hans Hermann Hoppe propone un modello di gestione dell’immigrazione non privo di interesse e che di fatto prevede che chi invita un immigrato si faccia carico anche di una quota parte delle esternalità negative legate all’immigrazione.
Nel modello di “immigrazione su invito” prefigurato da Hoppe non esiste immigrazione completamente “non sollecitata”, ma ogni immigrato ha un referente nel paese ospitante (il datore di lavoro, un amico, un innamorato, etc.) che garantisce per lui, nel caso si renda responsabile di qualche danno. Questa garanzia potrebbe anche essere offerta stipulando un’assicurazione (referenze positive o cattiva reputazione personale, così come età ed altre condizioni sociali, avrebbero naturalmente un peso importante nella determinazione del premio assicurativo).
Il modello di Hoppe ha il merito di ricondurre l’immigrazione ad una dimensione contrattuale e volontaristica, basata sul rispetto dei diritti di proprietà: è solo all’interno di una simile cornice che un fenomeno così complesso può essere inquadrato e gestito senza che si generino conflitti, ostilità e illusioni “rivoluzionarie”. L’alternativa, infatti, è che l’immigrazione sia vissuta dai residenti italiani come aggressione e accaparramento e al tempo stesso che si legittimi nella popolazione immigrata l’idea di una via politica all’emancipazione sociale, più sbrigativa ed “efficiente” di quella basata sui meccanismi di mercato. Questa via politica deve rimanere chiusa, pena il sicuro prendere piede di logiche redistributive e neosocialiste.
Un aspetto su cui occorre riflettere è che, se deve essere riconosciuto un diritto assoluto all’emigrazione, questo non significa in modo automatico che sussista un diritto speculare all’immigrazione.
Insomma – al di là degli audaci accostamenti cari all’estrema sinistra – il muro di Berlino che serviva per non fare uscire chi era stato benedetto da un regime comunista ed il muro tra Stati Uniti e Messico costruito per limitare l’afflusso di clandestini sul suolo americano sono due cose radicalmente diverse.
Come nota Rothbard, le politiche di cittadinanza basate sullo jus sanguinis sono per molti versi più liberali di quelle basate sullo jus soli, in quanto maggiormente riproducono i meccanismi di trasferimento dei diritti e della proprietà che sussistono in ambito privatistico. La cittadinanza, quindi, non dovrebbe scaturire in modo automatico, dalla nascita o dalla semplice permanenza anche di lungo periodo in un certo luogo. Potrebbero semmai essere istituite commissioni ad hoc – elettive oppure nominate da organi elettivi (in modo che siano largamente rappresentative nella loro composizione) – con il potere di approvare le singole naturalizzazioni ad una maggioranza fortemente qualificata sulla base di un insieme di fattori, quali l’anzianità di permanenza in Italia, le tasse pagate, la conoscenza della lingua, delle leggi e della civiltà italiana ed il livello complessivo di adattamento alla società del nostro paese.
In altre parole, la cittadinanza dovrà essere il punto di arrivo del percorso di integrazione di un nuovo arrivato, non un passo (tanto meno il primo) di tale percorso.
Le questioni della (non-)discriminazione e dell’integrazione sono destinate nei prossimi anni ad assumere maggiore rilevanza, non solamente in virtù dell’evidente incremento del flusso migratorio, ma anche in virtù del graduale superamento in Italia delle tradizionali contrapposizioni di classe novecentesche (“lavoratori” contro “padroni”).
Insomma, come già da tempo avviene in un paese come gli USA – che non ha conosciuto se non minimamente la questione socialista tradizionale – anche in Italia la politica si farà sempre più anche su questi temi.
E’ per questo che i liberali non debbono farsi trovare impreparati e sono chiamati a produrre oggi una riflessione originale, coraggiosa e non subalterna, senza mai sentirsi frenati dal fatto che le loro posizioni possano suonare “di sinistra”, “di destra” o qualche volta persino un po’ “leghiste”.
Marco Faraci - Nato a Pisa, 34 anni, ingegnere elettronico, executive master in business administration. Professionista nel campo delle telecomunicazioni. Saggista ed opinionista liberista, ha collaborato con giornali e riviste e curato libri sul pensiero politico liberale
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Libertiamo--
Sante parole...laicamente "sante", eh... :)