lunedì 28 dicembre 2009

Arriva lo spazio video!!!

Pubblico questo video, con un intervento alla Camera dei Deputati dell'on. Benedetto Della Vedova su diritti e cittadinanza, per annunciare che sotto l'intestazione del blog, da oggi potete trovare i video pubblicati su YouTube dalla Redazione di LIBERTIAMO.

‘2010: l’anno che vorrei…’ – Un fisco leggero e competitivo

Se davvero dovessi parlare di come vorrei veramente che fosse l’anno a venire, sarei costretto a parlare di questioni di scarso o nessun interesse per il lettore. Dovrei fare riferimento ai miei cari, ad amici e a conoscenti, e per giunta finirei per toccare quello che a me pare il senso più intimo della vita: cosa è lecito sperare, e per chi e cosa vale la pena di vivere. In fondo, però, anche questo non dovrebbe sorprendere chi ha un animus libertario, se si considera – in fin dei conti – che il primato della dimensione personale su quella pubblica (e quindi anche il rigetto di ogni “religione civile”) è forse uno dei tratti più caratteristici della tradizione davvero liberale.
Anche per noi – come già si diceva nel Sessantotto – nulla è più politico del privato, ma in un senso esattamente opposto a quanto veniva inteso dai cantori del collettivismo e della “libertà come partecipazione”. È proprio il diritto di ignorare lo Stato, i suoi riti e le sue pratiche, rigettando pure l’ossessione per il militantismo e le sue paranoie, che sta al centro della concreta esperienza di quanti – da liberali – non avvertono la minima attrazione per ogni forma di patriottismo costituzionale, e neppure per le diatribe pro-Cav e anti-Cav.
Non su quanto mi sta più a cuore, comunque, mi concentrerò in queste brevi considerazioni in vista del 2010, ma invece su quanto è giusto augurarsi per la nostra vita pubblica: ovviamente rinunciando a fare riferimento a ogni polemica più o meno artefatta e politicante, ma cercando di richiamare l’attenzione su poche questioni reali. Limitandomi a ricordarne tre.

In primo luogo, un buon 2010 dovrebbe vedere il Paese impegnato a ridimensionare il debito pubblico, che non soltanto è all’origine di elevati oneri (che si traducono in deficit e tassazione), ma rappresenta pure una spada di Damocle sulle nostre teste. Sapendo che vi è un’alta probabilità di assistere a un rialzo dei tassi di interesse, è urgente affrontare con serietà tale enorme pietra d’intralcio sulla strada dello sviluppo e della crescita. Per vincere il debito, però, è necessario incidere con coraggio sulle voci di spesa: smettendola di finanziare imprese assistite e coltivare sterminate clientele (soprattutto nella funzione pubblica e, più in generale, nel settore parastatale).
Comprendere l’urgenza di mettere ordine nella finanza pubblica dovrebbe inoltre indurre a dismettere l’ancor vasto arcipelago del settore pubblico, portando a termine quel processo di privatizzazioni che fu avviato – pur tra molte ambiguità – negli anni Novanta, ma poi lasciato a metà strada. Vendere Enel e Eni (ma anche Ferrovie dello Stato, Poste, Rai, Cassa Depositi e Prestiti, Finmeccanica, Tirrenia e via dicendo) aiuterebbe a ridimensionare il debito, e di conseguenza anche il fabbisogno necessario a pagare gli interessi. Ma oltre a ciò porterebbe a un’apertura dei mercati che avrebbe l’effetto di creare nuovi spazi imprenditoriali e migliorare l’ambiente in cui operano le nostre aziende.

Bisognerebbe, in secondo luogo, intervenire sulla questione delle imposte, smettendola una buona volta con quella “caccia all’evasione” che costantemente è condotta da centro-destra e centro-sinistra, e che ovviamente si traduce in un aumento della pressione fiscale. Le aliquote vanno abbassate e, quanto più è possibile, vanno unificate. La progressività delle imposte è figlia di una logica punitiva nei confronti di chi ha successo, ma in questo modo è impossibile avere mobilità sociale e crescita economica.
Invece che combattere chi cerca di tenere quanto è suo, bisognerebbe fare il possibile perché i diritti di chi produce profitti siano anteposti agli interessi delle industrie automobilistiche che vogliono produrre vetture anche in assenza di domanda, dei giornali e delle radio di partito che sopravvivono anche senza lettori e ascoltatori, degli agricoltori che ottengono una rendita anche quando non lavorano la terra, dei dipendenti pubblici che si considerano inamovibili pure nel momento in cui decine di migliaia di operai e impiegati del tessile o della siderurgia si trovano a spasso. La spesa pubblica deve essere ridotta, ma perché questo si verifichi è urgente che il meccanismo che presiede alle entrate sia modificato in profondità.

In questo senso è urgente, infine, che gli amministratori siano costretti a gareggiare tra loro non solo nel corso della competizione elettorale (quando si danno da fare per diventare sindaci o governatori regionali), ma ogni giorno. Intendo dire che la riforma federale in cantiere non può limitarsi ad aumentare la quota delle risorse che lo Stato consegna agli amministratori locali, ma deve invece dar loro più libertà di iniziativa e la facoltà di aumentare e/o diminuire l’entità dei tributi che permettono a quelle istituzioni di operare. Per questo è indispensabile che le imposte locali siano manovrabili, così che spostarsi da una regione all’altra – ma anche da un comune a quello vicino – possa portare benefici anche significativi.
Solo una decisa concorrenza istituzionale può, nel tempo, costringere gli amministratori pubblici ad adottare comportamenti più virtuosi e ridurre le loro pretese. Fino ad oggi i passi verso un’Italia federale (a partire dalla riforma Calderoli) sono stati molto equivoci e deludenti, ma se nel corso del 2010 si procedesse ad introdurre elementi di vera autonomia fiscale e tributaria, il Paese conoscerebbe al contempo una riduzione della pressione fiscale, una limitazione di spese e sprechi, un miglioramento della qualità dei servizi.

Carlo Lottieri - Nato a Brescia nel 1960, insegna Dottrina dello Stato e Teoria generale del diritto all’università di Siena. Direttore del Dipartimento Teoria Politica dell’Istituto Bruno Leoni, è studioso del pensiero liberale e libertario.


CREDITS: Libertiamo

giovedì 24 dicembre 2009

Tornando sulla Destra che vorrei...

Qualcosa ”di destra” sui migranti

- da Il Secolo d’Italia del 23 dicembre 2009 -

Per anni, la politica italiana ha lucrato sull’illusione che “lavorare meno” avrebbe significato “lavorare tutti” e che i prepensionamenti dei padri avrebbero favorito le assunzioni dei figli. Il “socialismo a spese degli altri”, che ha costruito sotto i nostri piedi una voragine di debito pubblico e ha aggravato lo sbilancio generazionale di un paese in rapidissimo invecchiamento, riecheggia oggi, oltre che nell’enfasi egualitaria del sindacalismo di lotta, nella retorica anti-immigratoria del leghismo di governo, secondo cui i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri agli italiani minacciano la coesione sociale e esigono il ritorno ad un’immigrazione a “saldo zero”.

Le dinamiche dell’immigrazione, alla pari di quelle del mercato del lavoro, a cui sono indissolubilmente intrecciate, consentono di mettere al voto “verità” che contrastano con la realtà dei fatti. Per anni, mentre il mercato del lavoro continuava ad essere caratterizzato da bassa occupazione, bassa produttività e bassi salari, era divenuto politicamente “vero” che al suo interno vi fosse troppa precarietà – e ve n’era, nel senso dei contratti a termine, meno che negli altri paesi europei. Allo stesso modo, oggi pare diventato “vero” che in Italia ci siano troppi immigrati e all’immagine realistica di un’immigrazione che, molto relativamente, rimedia alle fragilità demografiche e socio-occupazionali di un paese invecchiato, è sovrapposta la percezione distorta di un Paese assediato da una manovalanza “predona” del lavoro “italiano”.

Un giudizio generalizzato sull’immigrazione impedisce per altro di discernere e di distinguere i diversi aspetti di un fenomeno complesso, che non può essere interpretato secondo una chiave unitaria. Si pensi come, ad esempio, nell’ultimo decennio dall’immigrazione sia venuta, attraverso meccanismi di mercato, l’unica forma concretamente accessibile di welfare familiare, e insieme la più pericolosa sfida al modello familiare paritario. Quello imposto in Italia, non più tardi di 35 anni fa, con il nuovo diritto di famiglia. Sia le badanti, che hanno consentito una riorganizzazione efficiente della vita familiare, sia il maschilismo islamista sono “immigrazione”, ma hanno evidentemente un segno diverso. La stessa differenza tra “regolari” e “clandestini” comporta una lettura più storica e meno burocratica, perché “clandestini” sono stati anche il milione e trecentomila irregolari progressivamente sanati dal 1990 ad oggi, in quanto stabilmente impiegati nelle famiglie e nel tessuto produttivo del Paese.

Per questa ragione, sui temi dell’immigrazione è forse disagevole, ma assolutamente necessario dare prova di moralità politica e preservare un rapporto corretto tra le parole e le cose, tra la realtà dell’esperienza e la rappresentazione che è possibile darne, per aderirvi con una misura, se non perfettamente realistica, almeno intellettualmente onesta. A maggior titolo, questa capacità è richiesta quando il discorso sull’immigrazione incrocia quello sulla cittadinanza degli immigrati. Infatti, su questo tema vengono al pettine i nodi più intricati e allo scoperto i nervi più sensibili: come direbbe un leghista “di lotta”, diventando cittadino l’invasore si fa usurpatore della sovranità politica.

Nel discutere della riforma delle norme che regolano il riconoscimento della cittadinanza, ragioniamo però più di “noi” che degli immigrati. Ragioniamo delle paure che formano il materiale incandescente della lotta politica, della fragilità di un ideale civile, arrangiato con l’improvvisato copia-e-incolla di “pezzi” di tradizione culturale e religiosa, della debolezza sociale di un Paese che ha disimparato a vivere la competizione (anche all’interno del mercato del lavoro) come un fattore di dinamismo e di crescita.

Fare un discorso “di destra” su questa materia significa parlare in termini di libertà e di responsabilità, di merito e di intraprendenza, di moralità e di dignità civile. Significa parlare in spirito di verità, non contrapponendo ad un terzomondismo anti-capitalista un “nativismo” prepotente e altrettanto vittimistico. Per anni abbiamo sentito descrivere l’immigrazione straniera come una punizione che la storia (e la geografia) avrebbe inflitto ai paesi sviluppati, per le loro colpe vetero e neo-coloniali. Oggi bisogna guardarsi dalla menzogna uguale e contraria, secondo cui l’immigrazione sarebbe parte di un disegno “globalista” interessato a disarmare le resistenze culturali e religiose delle patrie europee.

Fare un “discorso di destra” significa valorizzare il fatto che l’Italia dispone complessivamente di una buona immigrazione – visto che il tasso di attività è di 11 punti superiore a quello dei nativi (fonte: Ministero dell’Interno 2009)- e ammettere che l’immigrazione regolare e irregolare è stata comunque trainata dalla fragilità demografica e dalla scarsa intraprendenza occupazionale degli italiani, poiché le regolarizzazioni dirette e indirette (attraverso le assunzioni di stranieri, in teoria residenti all’estero, autorizzate all’interno dei cosiddetti decreti-flussi) hanno solo in parte bonificato la situazione, che vede la clandestinità annidata più nell’economia illegale che nell’attività criminale.

Fare un “discorso di destra” significa imporre il principio per cui, in una società aperta, la cittadinanza non può costituire una rendita, né un vantaggio competitivo spettante per “diritto acquisito”, ma un potere guadagnato meritatamente, anche sul piano morale, attraverso il concorso fattivo alla vita e alla prosperità del Paese. E soprattutto, fare un “discorso di destra” significa ripartire dal “no taxation without representation”, dal fatto che a decidere delle tasse prodotte siano i rappresentanti di quanti hanno contribuito a produrle e che non possono essere, in misura eccessiva, non cittadini.

Fare un “discorso di destra”, infine, significa reagire con intransigenza alla sfida islamista, comprendendo che, anche per arginare una deriva pericolosamente multiculturalista, quando non separatista, è opportuno riconoscere agli stranieri la possibilità di far valere istanze e interessi che, nella normale dialettica civile, passano attraverso la rappresentanza politica, i suoi giochi democratici e i suoi inevitabili compromessi.

Non è credibile che per milioni di persone l’Italia rimanga semplicemente un “posto di lavoro” o una “terra di soggiorno”; che un paese tra i più dipendenti dall’immigrazione fissi termini per il riconoscimento della cittadinanza doppi rispetto a quelli statunitensi, francesi e inglesi, trattando gli stranieri da vera e propria “controparte politica”; che per i prossimi decenni gli italiani siano una cosa, e l’Italia un’altra, con i cittadini a rappresentare solo un pezzo della fotografia del Paese. Tutto questo non è neppure “di destra”. E’ semplicemente sbagliato.

Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.

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Non si potrà sfuggire a lungo al principio dello ius soli

La discussione sulla cittadinanza, in corso alla Camera dei Deputati, è un’occasione da non sprecare per il futuro del Paese. La sostanziale conferma dello status quo (il testo a prima firma Bertolini, sul quale si sviluppa per il momento il lavoro parlamentare) rischia purtroppo di rimandare sine die la soluzione di un problema che avrà dimensioni sempre più grandi negli anni a venire. L’Italia avrebbe invece bisogno di un vero e proprio Quattordicesimo Emendamento.

“Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono”( “All persons born or naturalized in the United States, and subject to the jurisdiction thereof, are citizens of the United States and of the State wherein they reside”). Così recita il primo comma del Quattordicesimo emendamento grazie al quale venne introdotta nella Costituzione americana una concezione ampia e universale di citizenship. Ma non è stato sempre così.

Fino al 1868, l’anno dell’approvazione dei cosiddetti Reconstruction Amendments (le modifiche costituzionali di “pacificazione”, dopo la guerra civile), il riconoscimento della cittadinanza aveva un connotato anzitutto razziale, basato sull’astrusa classificazione giuridica della “bianchezza” (whiteness), che per decenni costrinse le corti statunitensi a tentativi goffi di tracciare confini oggettivi tra razza bianca e razza nera, o tra razza bianca e nativi.

Il riconoscimento della cittadinanza ai maschi neri (per le donne si dovette aspettare ancora, ma questo è un altro argomento) e ai naturalizzati rappresentò un profondo punto di rottura nella storia americana: da diritto di proprietà ereditabile ma inevitabilmente non acquistabile, la cittadinanza diveniva un traguardo raggiungibile, una scelta individuale, un futuro per i proprio figli. La patria americana smetteva di essere una mera questione di sangue: il figlio dell’ultimo degli schiavi di colore o del disperato giunto sulle coste dell’America per trovare lavoro, se nato su suolo americano, sarebbe stato cittadino. Come è noto, l’affermazione dello ius soli non pose immediatamente fine alle politiche razziali di alcuni Stati e non esaurì in un colpo solo i problemi della cittadinanza. Ma la sua costituzionalizzazione rappresentò un “germe” che avrebbe poi inesorabilmente e positivamente contaminato il futuro della società americana: l’emendamento fu la leva grazie alla quale, a metà del ventesimo secolo, la Corte Suprema smantellò la segregazione razziale (famoso il caso Brown v. Board of Education, del 1954); e ancora prima, era stato l’appiglio costituzionale grazie al quale nel 1898 vennero riconosciuti come cittadini i bambini nati sul suolo americano, ma figli di cittadini di altri paesi, (questi ultimi, infatti, a differenza dei discendenti degli schiavi neri, erano soggetti ad altra giurisdizione e fino alla sentenza di fine secolo questo elemento era stato ritenuto ostativo). Ancora oggi, è il Quattordicesimo Emendamento il terreno dello scontro su cui Democratici e Repubblicani dibattono sul riconoscimento della cittadinanza ai figli dei clandestini nati sul territorio USA.

E allora: cosa vorrebbe dire dotare l’Italia di un suo Quattordicesimo Emendamento? Significherebbe stabilire un tracciato, o se vogliamo porre le fondamenta solide su cui costruire, anno dopo anno, decennio dopo decennio, il concetto di cittadinanza nel nostro Paese. Un concetto che presumibilmente continuerà a cambiare significato con ogni generazione, in parte a svuotarsi di contenuti, in pare a caricarsi di altri. Ma qualunque sia il senso che lo status di cittadino avrà negli anni, difficilmente si sfuggirà alla “potenza” dello ius soli. Un criterio non discrezionale, e quindi liberale. Una traduzione del principio di uguaglianza delle opportunità.

Insomma, possiamo discutere a lungo su quanti anni di residenza siano necessari affinché un immigrato possa chiedere ed ottenere la cittadinanza, o quali prove debba superare il candidato cittadino, ma difficilmente potremo sfuggire alla domanda par excellence: vogliamo o no che nell’Italia di domani sia cittadino italiano chi, figlio di persone che hanno scelto il nostro paese per costruire il proprio benessere, nasce in Italia? Ecco che la questione si pone in tutta la sua ruvida concretezza: se non vogliamo che la cittadinanza sia il movente di una profonda e duratura guerra civile della quotidianità, non potremo sfuggire a lungo al principio dello ius soli.

Rosita Romano - Nata nel 1984, si laurea con lode in Giurisprudenza alla LUISS Guido Carli di Roma. Dal 2007 al 2009 è stata rappresentante degli studenti presso il Consiglio di Facoltà e presso la Commissione per il Diritto allo Studio (contribuendo attivamente alla riforma dell'ordinamento dell’università). E' stata membro della Commissione Paritetica per la Didattica e fondatrice di un magazine universitario. Stagiaire a Bruxelles presso il Segretariato Generale della Commissione Industria, Ricerca ed Energia del Parlamento Europeo, ha collaborato con l’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione al Ministero per lo sviluppo Economico ed ha lavorato presso gli Affari Istituzionali di UniCredit Group. Praticante avvocato ed ideatrice di “Rompiamo il Muro”, l’anti-lobby della Generazione F.


CREDITS: Libertiamo

mercoledì 23 dicembre 2009

Proposte di metodo e di merito che arrivano dal Pdl

Ma la “vera destra” pensa all'integrazione

di Federico Brusadelli

«Sui temi dell’immigrazione è forse disagevole, ma assolutamente necessario dare prova di moralità politica e preservare un rapporto corretto fra le parole e le cose, tra la realtà dell’esperienza e la rappresentazione che è possibile darne, per aderirvi con una misura, se non perfettamente realistica, almeno intellettualmente onesta». È una questione innanzitutto di metodo, quella che - con echi confuciani (“Governare è innanzitutto rettificare le parole”) – pone oggi Benedetto Della Vedova, deputato del Popolo della libertà, sul Secolo d’Italia. Si parla molto di immigrazione, meno di integrazione. Si parla di “emergenza” e mai di “normalità” di un processo storico, geografico, economico e sociale ineludibile. Un dato di fatto da affrontare, più che con grida d’allarme o con tentazioni “protezioniste”, con serietà, moderazione e aderenza alla vera natura delle cose.

Un’aderenza che si fa ancora più difficile, nel nostro esagitato dibattito politico, quando dalla gestione dei flussi migratori si passa a parlare di cittadinanza. Ecco che, scrive ancora Della Vedova, «vengono al pettine i nodi, allo scoperto i nervi più sensibili: come direbbe un “leghista di lotta”, diventando cittadino l’invasore si fa usurpatore della sovranità politica». E a dar forma alla discussione ci pensa la paura, con tutto ciò che ne consegue. I toni si esasperano, le distanze si fanno inconciliabili, si adottano toni da questione “di vita o di morte”. Tutto viene fagocitato dal problema della “sicurezza in casa nostra”. Servirebbero toni diversi, un pizzico di pragmatismo, e più correttezza. Insomma, il termine giusto è proprio “moralità politica”, per tornare alle parole dell’intervento citato.

E poi, dopo il metodo, i contenuti. Che, per quanto ci riguarda, possono e devono essere contenuti “di destra”, senza cedere a complessi di inferiorità (come se ad avere voce in capitolo, quando si tratta di integrazione, potesse essere solo la tradizione “di sinistra”) e senza cedere neanche alla tentazione di dipingersi, in modo caricaturale, seguendo i cliché che vogliono una destra tutta muscoli e difesa intransigente del territorio.

Un “discorso di destra”: il che significa «parlare in termini di libertà e di responsabilità, di merito e di intraprendenza, di moralità e di dignità civile, non contrapponendo a un terzomondismo anti-capitalista un “nativismo” prepotente e altrettanto vittimistico»; significa ritenere la cittadinanza «un potere guadagnato meritatamente, anche sul piano morale, attraverso il concorso fattivo alla vita e alla prosperità del paese»; significa «ripartire dal “no taxation without representation”»; significa «reagire politicamente e con intransigenza alla sfida dell’integralismo etnicista e religioso».

Un percorso necessario per evitare «che gli italiani siano una cosa, e l’Italia un’altra», scrive Della Vedova concludendo la sua riflessione. Una road map di metodo e di merito, insomma. Una road map “di destra”, ragionata e ragionevole. Perché quella disconnessione fra un paese reale e i suoi cittadini è ingiusta e sbagliata. E, soprattutto, non possiamo permettercela.

23 dicembre 2009


CREDITS: FFWebMagazine

Finanziaria, Pri-Mre: taglio consiglieri comunali rimedio posticcio

"Se c'è la necessità di risparmio della spesa pubblica, la via maestra rimane quella dell'abolizione delle Province. Ogni altra soluzione sa di rimedio posticcio. In particolare la riduzione dei consiglieri comunali rischia di essere una ulteriore penalizzazione dei partiti minori anche a livello locale, dopo che sono stati già ridimensionati abbondantemente con le nuove leggi elettorali a livello nazionale. Con il taglio dei consiglieri comunali si arriva di fatto ad una riforma elettorale mascherata". E' quanto si legge in una nota congiunta Pri-Mre, dopo un incontro tra il segretario del Pri Nucara, la senatrice Mre Sbarbati e il senatore Mre Musi.


CREDITS: PRI

lunedì 21 dicembre 2009

Un esempio di (euro)lungimiranza liberale

Erroneamente, il mandato come Ministro della Difesa di Antonio Martino, storico economista liberale, tra i fondatori di Forza Italia (la FI che c'ha fatto inutilmente sognare...), è stato bollato col marchio dell'antieuropeismo.

In realtà, è patrimonio storico dei liberali, un'idea di Europa che non sia solo tecnocratica e appannaggio di qualche furbone...


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A400M, il bidone evitato da Martino: grazie Antonio!

Oscar Giannino

Oggi primo volo dell’A400M, il velivolo da trasporto militare del consorzio pubblico Airbus-EADS. Nel 2001-02, l’allora ministro della Difesa Antonio Martino tenne fuori l’Italia dal megacontratto europeo, che accomuna Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Regno Unito e Turchia. All’epoca, l’opposizione levò fuoco e fiamme, accusandolo di antieuropeismo. Fui tra i pochi a difendere la bontà della scelta. Oggi più che mai penso sia giusto – lo faremo in pochi – tributare il giusto omaggio a Martino. Aveva visto lontano. Il contratto fu firmato nel 2003, le consegne dovevano cominciare nel 2010. Invece il programma è in ritardo di anni, e forse – forse – le prime vere consegne arriveranno nel 2014. Perché prima bisogna risolvere il problema degli extra costi, passati da 20 a 25 miliardi di euro. Con EADS, il gruppo franco-tedesco più strapuntino spagnolo di fatto pubblico, che rifiuta di addossarseli per la sua inefficienza come da contratto, e chiede invece li paghino i governi. Avremmo dovuto sobbarcarci a spese pazze, mentre tagliamo i bilanci della Difesa. Senza per altro avere gli aerei. È esattamente questa l’Europa statalista e sprecona dalla quale stare sempre lontano, tutte le volte che ci si riesce. Grazie Antonio!


CREDITS: IBL/Chicago Blog
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L’A400M, il pragmatismo di Martino e gli europeisti immaginari

Merito ad Oscar Giannino per aver tirato fuori la questione e merito soprattutto ad Antonio Martino di aver tenuto fuori l’Italia dal programma A400M, il velivolo da trasporto militare costruito dal consorzio Airbus-Eads che nei giorni scorsi ha effettuato il primo volo di prova. Il programma marcia con diversi anni di ritardo rispetto alle stime iniziali, se pensiamo che l’entrata in servizio dell’aereo era inizialmente fissata al 2007, poi al 2009, al 2010 ed ora ancora più in là: si dovrà probabilmente aspettare il 2014 per le prime consegne del velivolo ai Paesi aderenti al programma (Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Regno Unito e Turchia). Con i ritardi, sono lievitati anche i costi, passati da circa 20 miliardi di euro agli attuali 25.

Insomma, si può davvero parlare di “bidone”, come fa Giannino? “La mia opinione – scrive su Epistemes.org Andrea Gilli, ricercatore di Relazioni Internazionali presso lo European University Institute di Fiesole – è che l’A400M non sia un bidone, ma che l’Italia abbia fatto bene a non farvi parte”.
Intervistato da Libertiamo.it, il ricercatore argomenta così la sua posizione: “Martino ha fatto una scelta corretta, ma non per i motivi elencati da Giannino. Di programmi d’arma che rispettano i costi e i tempi ce ne sono davvero pochi e in questo l’A400M è in buona compagnia: pensiamo all’Eurofighter o al F-35/22 Lightning JSF, due programmi cui partecipa anche l’Italia, entrambi fuori tempo e fuori costo”. La scelta dell’allora ministro della Difesa, continua Gilli, “fu dettata principalmente da tre fattori: primo, i nostri C27J dovranno essere rimpiazzati solo fra 10 o 15 anni e l’A400M sarebbe quindi arrivato, anche calcolando i ritardi, troppo presto rispetto ai piani di ammortamento della nostra flotta; secondo, la situazione di bilancio non consentiva molta fantasia; infine, l’accordo industriale non era dei più vantaggiosi per l’Italia, sia in termini di work-sharing che rispetto al ruolo che il nostro Paese avrebbe avuto nel consorzio”. In poche parole, l’Italia avrebbe partecipato ai costi del programma, ma le leve decisionali del consorzio sarebbero state sostanzialmente precluse al nostro Paese. Uno schema classico cui molti “europeisti immaginari”, per usare un’espressione di Martino, amano soggiacere.

Rispetto alla dotazione delle forze armate italiane, nel suo articolo su Epistemes.org Gilli specifica la sua posizione: “Le nostre forze armate erano già dotate di un adeguato mix di C27J prodotti da Alenia e di C130 Hercules prodotti dalla Lockheed Martin. Seppur di dimensioni minori, erano comunque recenti (specie i C27J), e dunque non vi era l’impellenza di sostituirli. Dunque quell’acquisto, sebbene importante per le capacità europee, era in contraddizione con le nostre necessità operative. La stessa cosa non si può dire per i francesi e i tedeschi, che dovevano sostituire i loro (vecchissimi) Transall C-160, e gli inglesi (con i loro C17 Globmaster)”.

Con la sua decisione, sottolinea Daniele Sfregola, giurista ed esperto di relazioni internazionali, “Martino ha sicuramente tutelato l’interesse nazionale, il principio-
base di ogni decisione assunta da un ministro della Difesa. Certo, ha anche accentuato la debolezza intrinseca dell’Europa unita come giocatore nello scacchiere politico-militare…”. Accentuato o semplicemente evidenziato? “Dipende dai punti di vista – continua Sfregola – ma i fatti, anche se allarghiamo la visuale e inglobiamo lo stato dell’arte del processo d’integrazione europea, sembrano aver dato ragione a Martino”. Non è certo su quel programma d’arma che si giocava e si gioca il futuro della costruzione europea.

Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo. Ha scritto, con Carlo Lottieri, "Come il federalismo può salvare il Mezzogiorno" (2008, Rubbettino) ed ha curato "Dopo! - Ricette per il dopo crisi" (2009, IBL Libri).


CREDITS: Libertiamo

Regionali: beghe verdi dopo la scelta pro Zaia

TOSI PERDE E NON VA IN PIAZZA CON I SUOI
di Stefano Filippi

La presenza (telefonica) di Silvio Berlusconi ha fatto passare in secondo piano un’assenza significativa ieri mattina al comizio pidiellino di piazza Bra: quella del sindaco leghista Flavio Tosi, la cui presenza al lancio della campagna elettorale per le regionali era data per certa. Al suo posto, tra i podisti intirizziti della «Christmas run» e i visitatori della mostra dei presepi, c’era Francesca Martini, sottosegretario veronese. Così a solidarizzare con Silvio Berlusconi c’erano tre sottosegretari (Brancher alle Riforme, Giorgetti all’Economia, Martini alla Sanità), ma non il sindaco in corsa fino a poche ore prima per la candidatura a governatore.
Tosi non ha preso molto bene l’investitura di Luca Zaia, e l’assenza di ieri potrebbe esserne una conferma. La prima poltrona della regione Veneto non rientrava nei suoi programmi: è diventato primo cittadino scaligero nella primavera 2007 con percentuali schiaccianti, non ipotizzava di mollare dopo meno di due anni. È stata la Lega Nord a far circolare il suo nome quando Umberto Bossi ha chiesto a Berlusconi il posto di Giancarlo Galan.
I compagni di partito non gli hanno fatto un grande favore. Perché Tosi, dopo le incertezze iniziali, ha creduto di potercela fare. Con Zaia la competizione è stata leale anche se condotta dietro le quinte. Aveva buone carte: esperienza di amministratore, capacità comunicativa, sangue freddo. Contava sul fatto che Bossi non avrebbe rinunciato al ministero dell’Agricoltura, e avrebbe potuto evitare questo rischio lasciando Zaia a Roma e trasferendo Tosi a Venezia. In più la designazione di Zaia avrebbe sbilanciato su Treviso gli equilibri del Carroccio veneto.
Alla fine il Senatùr ha puntato sul ministro e non sul sindaco dopo aver avuto garanzie da Berlusconi che il Pdl sosterrà i candidati leghisti in Veneto e Piemonte senza tirarsi indietro. Tosi ci è rimasto male ma ha sfoderato un’altra delle sue doti, quella di grande incassatore. Sabato mattina è andato da Bossi e si è fatto spiegare dalla sua viva voce le ragioni della scelta. Poi, da presidente del consiglio nazionale della Liga Veneta (cui formalmente toccava designare il leghista da mandare a Palazzo Balbi), è stato Tosi a proporre formalmente il nome di Zaia. E l’assemblea ha votato all’unanimità. Uno per tutti, tutti per uno nel mostrare il volto di un partito senza crepe.
L’esatto opposto di quanto accade nel Pdl, che offre invece l’immagine di un movimento lacerato dal malcontento dell’ala Galan. Ieri, nella ghiacciaia di piazza Bra, decine di sindaci e amministratori locali con fascia tricolore finalmente parlavano in libertà dopo mesi di manfrina. E si confidavano che la fine dell’era Galan era stata decisa da mesi. Che è stato il governatore ad alimentare la polemica per non essere scaricato senza contropartita. Che la minaccia di una lista autonoma scissionista è unicamente «pro domo sua». Che la «pausa di riflessione» del Doge serve in realtà a guadagnare tempo per trovargli un posto adeguato. E che l’accordo con la Lega non è in discussione. Sabato sera ad Arcore da Berlusconi c’era anche Brancher assieme a Bossi, Tremonti e Calderoli. «Tra noi non ci sono problemi», ha assicurato ieri il sottosegretario alle Riforme.
Alberto Giorgetti, coordinatore del Pdl veneto, mostra più cautela: «Entro Natale bisognerà definire un accordo globale con la Lega, dev’essere riconosciuto il valore di 15 anni di buon governo veneto e garantita la continuità. E il Pdl dovrà definire una lista forte e competitiva che ci confermi primo partito veneto». Per Francesca Martini, che è stata consigliere regionale e assessore con Galan, «la resistenza a oltranza del governatore è un fatto interno al Pdl. Dopo 15 anni è giusto lasciare spazio a forze rinnovatrici. I messaggi in stile “dopo di me il diluvio” sono destinati a rientrare».


CREDITS: Il Giornale

sabato 19 dicembre 2009

Tradimento ed Errore: il PdL scarica Galan, via libera al leghista Zaia

Ora è ufficiale...l'anno prossimo Giancarlo Galan non sarà ricandidato dal centrodestra come Presidente della Regione Veneto.

Dopo 15 anni di onorato servizio, che ha portato il Veneto all'eccellenza non solo in Italia ma anche in Europa, il "Doge" viene sacrificato sull'altare di un'alleanza, quella con la Lega Nord, che si fa sempre più simile ad una prigionia...

Certo, nn è stato difficile per i padani far breccia nel cuore del Cavaliere: le sue infauste vicende di questo movimentato 2009 hanno permesso a Bossi e ai suoi di accreditarsi come tra i più fedeli "samurai del Capo", mentre le "fibrillazioni" interne al PdL hanno fatto il resto.

E così, per i tanti che mugugnano per questa cessione forzata, abbiamo i Brancher, i Giovanardi, i "sociali" che esultano...

Ora l'ex manager Publitalia si è preso del "tempo per riflettere": tra le ipotesi, una "carega" compensativa, un periodo fuori dalla politica, o la corsa solitaria con l'UdC e "chi ci sta"...

L'auspicio di chi scrive è quello di non vedere il Condottiero battere in ritirata...

Ecco il documento, molto fumoso, con cui di fatto si dava il benservito a Galan da parte del PdL:


UFFICIO DI PRESIDENZA DEL PDL: Il testo del documento finale
17 dicembre 2009 ore 10:22

Documento finale della riunione dell’Ufficio di presidenza del Pdl, approvato dai coordinatori Sandro Bondi, Denis Verdini e Ignazio La Russa.



"L’ufficio di presidenza riconferma la vicinanza e la solidarieta’ al presidente Berlusconi, vittima di un’aggressione frutto di una campagna di odio senza precedenti che ha dato credito ad accuse infamanti, che respingiamo in toto, con l’intento di infangare la storia di un uomo, di un partito, di una vicenda politica.


Inoltre, rileva la necessita’ che la democrazia in Italia possa avvalersi di un patto democratico tra le maggiori forze politiche che segni chiaramente i confini della normale dialettica politica, pur a volte anche aspra, e apra una stagione nuova, in cui una legittimazione reciproca tra le grandi forze politiche conduca ad un abbandono di ogni scorciatoia giudiziaria, premessa indispensabile per una stagione di riforme costituzionali da lungo tempo attese, da quella della giustizia a quella della forma di governo. A riguardo, sul possibile nuovo clima di confronto vanno apprezzati alcuni segnali di apertura di parte della opposizione a partire dalle dichiarazioni dei due leader di Udc e Pd, Pierferdinando Casini e Pierluigi Bersani, sulla scorta dell’auspicio autorevole del Presidente della Repubblica.


Si approvano, sul secondo punto illustrato da La Russa e Verdini le candidature alle Regionali di Veneto, Piemonte, Liguria, Lombardia, Lazio, Calabria. Si approva infine, sul terzo punto all’odg (cittadinanza), la decisione di proseguire nel partito l’approfondimento del tema avviato dalla Consulta Affari Costituzionali in parallelo con l’iter dei lavori parlamentari".

CREDITS: PdL

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Ed ecco l'ufficializzazione della candidatura di Zaia...

Regionali, sciolto il nodo in Veneto: è Zaia il candidato leghista alla presidenza
Luca Zaia (Adnkronos)


ultimo aggiornamento: 19 dicembre, ore 18:24

Padova - (Adnkronos/Ign) - La direzione nazionale ha votato all'unanimità il ministro dell'Agricoltura. ''Questa candidatura mi infonde un grande senso di responsabilità'', commenta l'esponente leghista

Cacciari: ''La decisone del Governatore da candidare è stata presa prepotentemente al centro sulla base di criteri spartitori"

CREDITS: ADNKRONOS

venerdì 18 dicembre 2009

Perchè noi liberali non siamo ‘di sinistra’ sui temi civili

I liberali, con la loro coerente difesa delle libertà individuali in tutti gli ambiti della vita economica e sociale, tendono a sfuggire alle tradizionali categorie della politica ed a scombinare ordini concettuali scontati e preconfezionati. Proprio per questa ragione è abbastanza comune la tentazione di ricondurre il pensiero liberale a schemi più familiari e collaudati, operando le semplificazioni e le interpolazioni del caso. In questo senso di frequente si sente affermare che i liberali sono “di destra sui temi economici e di sinistra sui temi civili”. E’ opinione di chi scrive che questo sintetico assunto abbia arrecato negli anni notevoli danni ai liberali, generando spiacevoli equivoci e compromettendo la possibilità di comprendere le diverse implicazioni delle loro idee. E’ sbagliato pensare che i liberali debbano essere “di sinistra sui temi civili”, perché su questi argomenti – come su qualsiasi altra questione – i liberali sono per il diritto soggettivo alla scelta, cosa che è ben diversa dall’essere di sinistra. Alcune delle proposte liberali sui temi civili possono indubbiamente apparire “di sinistra”, nel senso che ci si può in linea di principio aspettare che siano condivise dalla sinistra politica, come alcune questioni che attengono alla sfera più intima (l’orientamento sessuale, le scelte riproduttive o l’eutanasia).
Al tempo stesso, su basi liberali, si possono affermare anche molte idee che stridono con le classiche posizioni progressiste. Una delle questioni più paradigmatiche da questo punto di vista è quella della “non discriminazione”: se un liberale difende un principio di neutralità dello Stato rispetto ai suoi cittadini, non necessariamente sottoscrive un sistema sociale in cui ai privati sia negata la possibilità di discriminare, cioè di selezionare i propri rapporti sociali ed economici sulla base di criteri personali, magari anche ampiamente discutibili.
Discriminare significa operare delle scelte. Ed ogni scelta è sempre necessariamente inclusione nei confronti di alcuni ed esclusione nei confronti di altri. Le ragioni che ci conducono a determinate scelte, quelle di avere a che fare o non avere a che fare con qualcuno, sono evidentemente soggettive. Possono essere più o meno sagge, possono essere giudicate come economicamente inefficienti sulla base di considerazioni macroeconomiche, possono essere infine considerate “sbagliate” secondo la morale in vigore in un certo periodo. Ma quello che è certo è che tali scelte devono essere considerate insindacabili, nel momento in cui si collocano nella sfera della libertà di ciascuno. Se decidiamo di non comprare più la carne dal nostro macellaio abituale può essere per un ampio ventaglio di possibili ragioni. Perché abbiamo deciso di diventare vegetariani, perché abbiamo trovato un macellaio con carne migliore o a prezzi migliori, perché in un altro negozio a servire c’è una bella ragazza, perché il nostro macellaio ultimamente sta diventando maleducato, perché è interista, perché si è fatto un piercing al naso, perché tutto sommato ha la pelle troppo scura. Sono fatti nostri.

Il recente dibattito sull’omofobia, ad esempio, ha bene evidenziato i possibili termini della questione. Se a destra si continua a rifiutare che la famiglia tradizionale possa essere messa a tutti gli effetti in concorrenza con patti di convivenza alternativi, a sinistra si pretende molto spesso di mettere in clandestinità qualsiasi giudizio negativo sull’orientamento omosessuale.
In realtà il pieno diritto dell’omosessuale di esprimere le proprie scelte sessuali dovrebbe poter pienamente convivere con il diritto di altri di non gradire tali scelte, e di manifestare conseguentemente in forme non violente il proprio punto di vista. Non è ammissibile, da una prospettiva di vista liberale, pensare di neutralizzare per legge le preferenze culturali delle persone, perché questo rappresenterebbe un’evidente aggressione alla libertà di opinione e di associazione.
Per questo occorre difendere – per le stesse identiche ragioni – il diritto dell’omosessuale ad esternare la propria sessualità ed il diritto dell’omofobo ad esternare la propria contrarietà allo stile di vita omosessuale.
Il liberale non deve temere di creare scandalo tra i “conservatori” sostenendo magari la possibilità dell’adozione per le coppie omosessuali e allo stesso tempo di creare scandalo tra i “progressisti” battendosi contro qualsiasi ipotesi di introduzione del “reato di omofobia”.
Del resto è persino paradossale che lo Stato da un lato vieti alle coppie gay il diritto di sposarsi e di crescere bambini – relegandole esso stesso quindi in una condizione di minorità morale – dall’altro pretenda di punire “discriminazioni” (anche presunte) quando sono messe in atto da soggetti privati.

L’elaborazione liberale e libertaria ha saputo produrre sul tema dell’egualitarismo argomentazioni robuste contro molti capisaldi dell’agenda politica progressista, come quote, azioni positive, integrazione forzata e leggi anti-discriminazione.
Intellettuali laissez-faire come Wendy McElroy o Thomas Sowell hanno fornito contributi importanti al dibattito sostenendo come l’emancipazione delle donne e delle minoranze etniche debba passare attraverso le dinamiche di mercato – che peraltro si sono dimostrate straordinariamente efficienti in tal senso – e mettendo in guardia invece contro l’invadenza normativa e la tentazione di forzare la mano imponendo soluzioni politiche “a tavolino”.
Tali soluzioni sono da rigettare perché limitano la possibilità degli individui di rapportarsi liberamente, entrando nel merito delle decisioni economiche di soggetti privati e sottoponendo tali decisioni ad un vaglio di accettabilità politica, e perché si traducono inevitabilmente in una reverse discrimination istituzionalizzata nei confronti della cosiddette “classi privilegiate” (di volta in volta gli uomini, i bianchi, etc.).
Come scrive, in proposito, la McElroy “se ad un uomo viene negata l’assunzione o la promozione che merita in base ad un sistema di quote, questa non è giustizia, è vendetta – ed è sbagliato”.
Le sociologhe Cathy Young, Christina Hoff Sommers e Daphne Patai hanno speso negli ultimi anni molte pagine per evidenziare come questo tipo di politiche di genere contribuiscano peraltro ad avvelenare il clima tra i sessi creando in taluni ambienti un clima di caccia alle streghe “politicamente corretta” contro il maschio.
Un’importante conseguenza inintenzionale dell’approccio progressista – ben enfatizzata dal “nero” Sowell – è infine il rafforzamento di una cultura dell’eterno vittimismo e della dipendenza nelle “classi” che sono beneficiarie delle affirmative actions, una cultura che non contribuisce a favorire lo spirito d’iniziativa e l’obiettivo di una vera autosufficienza.

Fondamentalmente essere liberali vuol dire rifiutare la prospettiva costruttivista, cioè l’idea che si debba implementare attraverso mezzi politici una visione del mondo “giusta a priori”.
L’idea da rifiutare è che gli individui si debbano allineare per legge alla morale maggioritaria di una certa epoca. Questo deve valere sia quando la morale in questione sia quella bigotta e tradizionalista, sia quando la morale in questione sia quella progressista che si nutre di concetti quali il multiculturalismo e l’egualitarismo. Meglio invece che gli equilibri culturali emergano dal basso, come esito di una grande pluralità di interazioni libere tra gli individui. In effetti uno degli aspetti meno convincenti della visione di sinistra su certe questioni è l’ossessione per l’uniformità, per l’applicazione armonica e su larga scala di determinati principi di fratellanza ed uguaglianza, dove ogni deviazione rispetto alla visione ideale è considerata inevitabilmente una stortura da correggere.

Il liberale è per natura più scettico rispetto alle pretese della politica di creare società perfette e nei confronti di ogni progetto di ingegneria sociale. Preferisce di norma la varietà all’uniformità, le decisioni decentrate a quelle centralizzate, le soft laws alle hard laws.
Una società libera e non “pianificata”, del resto, sarà inevitabilmente una società fatta di regole e di decisioni disomogenee, a macchia di leopardo, determinate dagli attori coinvolti: ci saranno scompartimenti in cui si può fumare e scompartimenti anti-fumo, quartieri inclusivi e quartieri esclusivi, multietnica in certi luoghi e meno in altri, spiagge nudiste e quelle in cui è vietato il topless. Ci saranno posti in cui due gay potranno baciarsi in pubblico ed altri in cui sarà particolarmente sconveniente farlo.

Anche sul tema dell’immigrazione sarebbe sbagliato che i liberali non rivendicassero la propria originalità e la propria alterità rispetto all’elaborazione politica di sinistra.
Se la semplificazione populista e “cattivista” di alcuni ambienti di destra appare inadeguata a gestire ed a comprendere la complessità del fenomeno migratorio, la ricetta giusta non è nemmeno il “volemose bene” caro alla sinistra ed a larga parte del mondo cattolico.
La sfida che si presenta ai liberali è pertanto quella di prefigurare una terza via tra la xenofobia preconcetta e l’integrazione forzata, basata sul rispetto per gli immigrati che vengono in Italia per lavorare, ma al tempo stesso su una rigorosa difesa del concetto di proprietà privata e di libertà di associazione (inclusiva della libertà negativa di associazione).
In questo senso un mero rilassamento delle attuali politiche di immigrazione e di cittadinanza non appare una risposta soddisfacente: secondo Murray Rothbard, padre del moderno libertarianism, un liberalismo spinto alle sue estreme conseguenze non significa affatto “frontiere aperte”. Il modello di società “privatizzata” che ne conseguirebbe sarebbe “chiuso quanto gli specifici abitanti/proprietari lo desiderassero”.

Certo, noi non viviamo nel modello anarcocapitalista teorico prefigurato da Rothbard bensì in un sistema in cui una parte del territorio è posseduto dai privati, ma la maggior parte del territorio è pubblico. Tuttavia in questo contesto effettivo appare un po’ semplicistico pensare che le restrizioni all’accesso possano essere applicate solo alla parte privata, mentre la proprietà pubblica debba essere considerata una sorta di res nullius, pertanto aperta in linea di principio a qualsiasi immigrazione incontrollata.
E’ invece più ragionevole e pragmatico che gli abitanti di un certo paese esercitino una forma di controllo e di selezione su chi viene ammesso all’interno dei confini di quel paese e a maggior ragione su chi viene ammesso all’utilizzo dei “mezzi politici” (cioè alla possibilità attraverso il voto di influenzare la redistribuzione statale della ricchezza). Dal punto di vista utilitaristico l’immigrazione comporta indubbi vantaggi, tra cui la possibilità di disporre di una forza lavoro fresca ed ad un minor costo, ma va riconosciuto che essa comporta anche una serie di esternalità negative, in primo luogo in termini di sicurezza reale e percepita.

L’economista libertario Hans Hermann Hoppe propone un modello di gestione dell’immigrazione non privo di interesse e che di fatto prevede che chi invita un immigrato si faccia carico anche di una quota parte delle esternalità negative legate all’immigrazione.
Nel modello di “immigrazione su invito” prefigurato da Hoppe non esiste immigrazione completamente “non sollecitata”, ma ogni immigrato ha un referente nel paese ospitante (il datore di lavoro, un amico, un innamorato, etc.) che garantisce per lui, nel caso si renda responsabile di qualche danno. Questa garanzia potrebbe anche essere offerta stipulando un’assicurazione (referenze positive o cattiva reputazione personale, così come età ed altre condizioni sociali, avrebbero naturalmente un peso importante nella determinazione del premio assicurativo).

Il modello di Hoppe ha il merito di ricondurre l’immigrazione ad una dimensione contrattuale e volontaristica, basata sul rispetto dei diritti di proprietà: è solo all’interno di una simile cornice che un fenomeno così complesso può essere inquadrato e gestito senza che si generino conflitti, ostilità e illusioni “rivoluzionarie”. L’alternativa, infatti, è che l’immigrazione sia vissuta dai residenti italiani come aggressione e accaparramento e al tempo stesso che si legittimi nella popolazione immigrata l’idea di una via politica all’emancipazione sociale, più sbrigativa ed “efficiente” di quella basata sui meccanismi di mercato. Questa via politica deve rimanere chiusa, pena il sicuro prendere piede di logiche redistributive e neosocialiste.

Un aspetto su cui occorre riflettere è che, se deve essere riconosciuto un diritto assoluto all’emigrazione, questo non significa in modo automatico che sussista un diritto speculare all’immigrazione.
Insomma – al di là degli audaci accostamenti cari all’estrema sinistra – il muro di Berlino che serviva per non fare uscire chi era stato benedetto da un regime comunista ed il muro tra Stati Uniti e Messico costruito per limitare l’afflusso di clandestini sul suolo americano sono due cose radicalmente diverse.

Come nota Rothbard, le politiche di cittadinanza basate sullo jus sanguinis sono per molti versi più liberali di quelle basate sullo jus soli, in quanto maggiormente riproducono i meccanismi di trasferimento dei diritti e della proprietà che sussistono in ambito privatistico. La cittadinanza, quindi, non dovrebbe scaturire in modo automatico, dalla nascita o dalla semplice permanenza anche di lungo periodo in un certo luogo. Potrebbero semmai essere istituite commissioni ad hoc – elettive oppure nominate da organi elettivi (in modo che siano largamente rappresentative nella loro composizione) – con il potere di approvare le singole naturalizzazioni ad una maggioranza fortemente qualificata sulla base di un insieme di fattori, quali l’anzianità di permanenza in Italia, le tasse pagate, la conoscenza della lingua, delle leggi e della civiltà italiana ed il livello complessivo di adattamento alla società del nostro paese.
In altre parole, la cittadinanza dovrà essere il punto di arrivo del percorso di integrazione di un nuovo arrivato, non un passo (tanto meno il primo) di tale percorso.

Le questioni della (non-)discriminazione e dell’integrazione sono destinate nei prossimi anni ad assumere maggiore rilevanza, non solamente in virtù dell’evidente incremento del flusso migratorio, ma anche in virtù del graduale superamento in Italia delle tradizionali contrapposizioni di classe novecentesche (“lavoratori” contro “padroni”).
Insomma, come già da tempo avviene in un paese come gli USA – che non ha conosciuto se non minimamente la questione socialista tradizionale – anche in Italia la politica si farà sempre più anche su questi temi.
E’ per questo che i liberali non debbono farsi trovare impreparati e sono chiamati a produrre oggi una riflessione originale, coraggiosa e non subalterna, senza mai sentirsi frenati dal fatto che le loro posizioni possano suonare “di sinistra”, “di destra” o qualche volta persino un po’ “leghiste”.

Marco Faraci - Nato a Pisa, 34 anni, ingegnere elettronico, executive master in business administration. Professionista nel campo delle telecomunicazioni. Saggista ed opinionista liberista, ha collaborato con giornali e riviste e curato libri sul pensiero politico liberale


CREDITS: Libertiamo
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Sante parole...laicamente "sante", eh... :)

giovedì 17 dicembre 2009

E se il "nemico interno" fosse Vittorio Feltri?

Un giornale barricadero e militante non può rappresentare un grande partito

di Filippo Rossi

No, non è colpa di Silvio Berlusconi. Proprio no. E non è neanche colpa di Fabrizio Cicchitto, in fondo. Neanche di Gasparri, di Bondi o di Quagliariello. E neanche di un parlamentare come Giancarlo Lehner, che pure è sempre disponibile a qualche uscita scomposta e di cattivo gusto. No. Forse la colpa è, soprattutto, di una persona che con la sua azione mediatica influisce fin troppo sul fare e sul pensare politico del centrodestra italiano. E questa persona è il direttore del Giornale, Vittorio Feltri.


Non è possibile che un grande partito moderato, che punta a rappresentare la maggioranza dei cittadini italiani, che si riconosce nel Partito popolare europeo, che nel suo manifesto dei valori pone al centro la persona umana e la sua dignità, un partito che deve affrontare la sfida del governo in un momento non facile, ecco, non è possibile che un partito così sia rappresentato da un giornale che non è di destra. Ma che, nei modi e nei fatti, è un giornale minoritario, barricadero, militante e sostanzialmente di estrema destra. Un giornale che fa della propaganda la sua cifra stilistica.


Un giornale che, tra l’altro, si è auto-investito di questa rappresentatività. Un giornale il cui direttore, un po’ come San Pietro, si ritiene il custode delle chiavi del Regno (tu entri e tu esci dal Pdl…), e il depositario della Dottrina. Un giornale che, con questa impostazione, non può non invitare allo scontro, con toni da Crociata o da Inquisizione. Un giornale che difende la Lega un giorno sì e l’altro pure, che intervista un’esagitata come Daniela Santanché almeno una volta al mese, quasi che con il suo movimento dello zero virgola possa essere considerata rappresentativa della linea di un grande partito. Un giornale che si diletta nella caccia all’untore, nella delazione del presunto traditore, nella scomunica e – quando serve – nel rogo mediatico degli eretici, o degli “scomodi”. Un giornale che troppo spesso, dal caso Boffo al caso Mussolini, si nutre di insinuazioni e di personalizzazioni.


Un meccanismo che rischia di andare fuori controllo. Una scheggia impazzita. Pagine piene di livore, in questo momento, sono inutili e dannose, per il paese. E anche per il partito (sempre che del partito, a uno come Feltri, interessi qualcosa…).


«L’amore vince sull’odio», ha detto il premier dal letto d’ospedale. E noi siamo assolutamente d’accordo con lui: è la nostra linea. Anzi, vogliamo aggiungere una bella frase di Giacomo Puccini: «Contro tutto e contro tutti fare sempre opera di melodia». Noi ci proviamo, a far vincere l’amore sull’odio. Anche a costo di essere tacciati – cosa che avviene pressoché quotidianamente – di superficialità, di melensaggine, di inutile buonismo.


“Fini è il traditore interno”, “Fini è il traditore interno”, “Fini è il traditore interno”. Eccolo, uno dei mantra feltriani. Ripetuto stucchevolmente, quasi ogni santo giorno. E ritirato fuori anche oggi: la critica alla fiducia sulla Finanziaria? Uno schiaffo a Berlusconi. E via così. Ma non può che sorgere un dubbio (anzi, è un dubbio non nuovo, a essere sinceri): e se il nemico interno, quello che rema contro e che impedisce al Pdl di crescere, di stabilizzarsi, di amalgamarsi e di governare con serenità, fosse proprio lui, il direttore del Giornale, Vittorio Feltri?

Il Tempo di oggi racconta che il premier non ha voluto incontrare Feltri in ospedale, “ufficiosamente” per non fare uno sgarbo a Fini. Forse qualcosa sta cambiando. Forse, per tanti nel centrodestra, è arrivato il momento di disintossicarsi, scendere dalle barricate ed entrare nel mondo normale. Un mondo in cui un grande partito come il Pdl non può ogni giorno sparasi in vena fiale d’odio.

16 dicembre 2009


CREDITS: FFWebMagazine

martedì 15 dicembre 2009

Sull'aggressione a Berlusconi

Per parlare dell'aggressione subita dal Presidente del Consiglio Sivio Berlusconi, al quale va la mia personale solidarietà, pubblico questo bell'intervento degli amici repubblicani, che da sempre si caratterizzano per la loro sobrietà nel formulare idee, proposte e considerazioni.

Nei prossimi giorni, a freddo, riflessioni e analisi più profonde e "personali.


Aggressione a Silvio Berlusconi

Si è passato il livello di guardia. Questo non solo per l’aggressione vigliacca contro il presidente del Consiglio, ma anche e soprattutto per le reazioni ignobili che abbiamo sentito nelle ore successive. Quelle dell’onorevole Di Pietro che, per primo, ha contribuito, fin dall’inizio di questa legislatura, ad alzare i toni dello scontro politico con autentiche sceneggiate, prima a Piazza Navona, poi alla Camera dei deputati, nemmeno si trovasse a fare il guitto in un talk show. E quelle non meno incredibili dell’onorevole Bindi, persona che pure dovrebbe ricordare la stagione di violenza che ha fatto da sfondo agli inizi della sua carriera politica. Con atteggiamenti irresponsabili come questi ci vuole poco per riaccendere il percorso della violenza e portare il paese sull’orlo del caos: Di Pietro e la Bindi stanno dando il loro prezioso contributo.

In Iran abbiamo i mullah che alimentano l’odio delle folle contro gli americani e l’opposizione interna; da noi abbiamo due deputati che fanno altrettanto contro il presidente del Consiglio, anche quando è stato colpito in maniera proditoria. E’ sbagliato pensare che l’attacco contro Berlusconi sia frutto del gesto inconsulto di uno squilibrato: uno squilibrato, al più, si ritiene Napoleone Bonaparte. Se si giunge alle vie di fatto, è evidente che chi commette atti simili risente di un clima di scontro nel paese, vi si identifica e lo esaspera a sua volta. I cosiddetti "matti" non sono delle monadi senza porte e senza finestre, ma dei sensori del sistema sociale e ne danno la loro originalissima interpretazione. Che può essere altamente pericolosa. Ha detto bene il ministro Bossi, che ha subito parlato di "terrorismo". Ciò che è accaduto è l’anticamera del terrorismo. E sottolineiamo la parola anticamera.

Il direttore della "Stampa" Mario Calabresi ha centrato, fra i tanti commenti a questo episodio, la questione che si è aperta. Calabresi ha scritto che "di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni". Eppure alla "Stampa" sono giunte, scrive Calabresi, "numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono ‘xenofobo’, ‘antidemocratico’ o ‘razzista’". Simile modo di ragionare è stato commentato da Calabresi in una maniera chiarissima: "Mi fa paura". Di questo si tratta. Cioè sapere che ogni manifestazione pubblica può diventare un’occasione per far scoppiare la violenza.

Di Pietro e la Bindi non si rendono conto che, come Berlusconi ha dei nemici pronti a tutto, altrettanto possono averli loro: e se saltano i freni inibitori, la situazione è destinata a degenerare.

Per mesi abbiamo sottolineato come il Capo dello Stato fosse preoccupato dai toni esasperati dal confronto politico, invitando quindi le parti ad un clima di di-stensione. Purtroppo questi appelli sono caduti nel vuoto. Non solo le forze politiche non li hanno raccolti: ci ricordiamo quando Franceschini chiedeva alle madri se avessero voluto Berlusconi come educatore dei loro figli. Non li ha raccolti la magistratura, che dà spazio alle dichiarazioni dei pentiti di mafia. Non li ha raccolti il servizio pubblico televisivo che, appena può, allestisce un caravanserraglio contro il premier senza remore né principi. Si è creato un clima infame, da cui, a questo punto, non sappiamo come si possa uscire.


CREDITS: PRI

domenica 13 dicembre 2009

Solo per ribadire qual è la destra moderna in cui crediamo

Sì, l’ho detto, «non scivoliamo troppo a sinistra», e al Predellino si sono commossi, la Ventura si ravvede, mentre il solito Campi proprio non vuole stare a sentire. Battute di una partitella a ping pong. Naturalmente, nessun “ravvedimento”, solo una riflessione, seria. Una riflessione su come comunicare un tentativo di dare forma a una destra laica, liberale e repubblicana in un mondo che cambia e che richiede fantasia e innovazione.

Per noi il pericolo, più che quello di “scivolare a sinistra” è quello di essere fraintesi e dare l’impressione di essere caduti nel “politicamente corretto”. Non è così. Abbiamo messo l’accento su cosa non ci piace di un certo modo di fare politica a destra; era e rimane necessario. Ma non dobbiamo dimenticare di ribadire una serie di “ma”….

Un breve, incompleto, elenco. Guardiamo con rispetto alla Costituzione e alle sue regole e crediamo che tale rispetto debba essere ogni giorno ribadito con le parole e i comportamenti da chi detiene ruoli di autorità, ma non riteniamo che volerla riformare costituisca un attentato alla democrazia; per questo non amiamo i “sacerdoti della Costituzione” nostalgici dei tempi in cui le oligarchie dei partiti decidevano delle sorti del paese incuranti degli elettori.

Non ci piace che dal consenso si faccia derivare non solo il legittimo diritto/dovere di governare ma anche una sorta di potere “assoluto”, ma crediamo nell’utilità della leadership e siamo convinti che l’elezione diretta del presidente in un contesto semi-presidenziale aiuterebbe il consolidamento del nostro sistema (e per questo non gridiamo al pericolo di “derive leaderistiche”).

Riteniamo che il Parlamento debba poter “lavorare” per rendere migliore la nostra legislazione e efficace il controllo sul governo, ma non rimpiangiamo la “centralità del Parlamento” (ovvero l’assemblearismo) della Prima Repubblica.

Crediamo che di fronte all’immigrazione sia necessario un atteggiamento aperto e pragmatico e non ci piace che si inseguano le paure dei cittadini senza dare a esse risposte serie e razionali, ma non dimentichiamo che i nuovi arrivati devono imparare a rispettare le nostre regole e che non vi deve essere spazio nel nostro paese per una segmentazione multiculturale; le culture si devono incontrare, nel rispetto dei fondamenti del nostro vivere civile.

Si potrebbe continuare, ma forse è sufficiente ricordare che il nostro desiderio di una destra più aperta e simile alle altre destre europee (dunque non confessionale, protezionista e anti-modernista) non ci ha resi cultori del “pensiero debole”, semplicemente ci costringe continuamente a pensare piuttosto che a “obbedire”, tenendo ben presente il nostro orizzonte di principi. Ricordiamo però a noi stessi che è bene ricordarlo ogni tanto anche agli altri.

Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica


CREDITS: Libertiamo & FFWebMagazine

venerdì 4 dicembre 2009

Ideologica proposta di Gasparri e Quagliariello su capacità giuridica dell’embrione

“Sono ‘contro l’aborto’, non per criminalizzarlo ma per di ridurlo con politiche efficaci. Assegnare la capacità giuridica all’embrione rappresenta invece un salto nell’ideologia antiabortista. Gasparri e Quaglieriello sostengono, infatti, che la loro legge ha solo un contenuto culturale e non normativo, non corregge o modifica la legge 194. Quindi si tratta di una legge propagandistica e programmaticamente ipocrita, che riprende un vecchio testo del Movimento della vita (proposta di legge di iniziativa popolare del ’95).”

Così, oggi, Benedetto Della Vedova, in un’intervista a Radio Radicale, ha commentato il disegno di legge di modifica dell’articolo 1 del Codice civile presentato dal Presidente dei senatori del Pdl e dal Vice-capogruppo vicario.

“Che esista un forte componente “pro life” nel centrodestra è acclarato – ha continuato il deputato del Pdl – ma che questa durezza ideologica diventi le “linea politica” di un partito che punta a rappresentare il 40% delle elettrici e degli elettori italiani sarebbe un azzardo politico ed elettorale. Ben venga l’iniziativa dei capigruppo al Senato, comunque, così il PdL ne discuterà. D’ora in poi, però, mi auguro che i due presentatori siano più prudenti nel bollare come “fuori linea” iniziative politiche e legislative su altri temi.”

Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.


CREDITS: Libertiamo

giovedì 3 dicembre 2009

Da Fini molte differenze, ma nessun tradimento

Il fuori onda di Fini ha dato adito a troppi commenti fuori luogo. Il contenuto è passato in cavalleria: la vera notizia è divenuta il fuori onda in sé, il fatto stesso di poter ascoltare una conversazione rubata.
C’è qualcosa di paradossale nel fatto che la polemica sulle velenose dichiarazioni di Spatuzza (e sui sospetti che questi diffonde a piene mani contro il premier), alle quali – è stato detto – occorre dare un riscontro accurato proprio per disinnescare un’ altrimenti devastante bomba atomica istituzionale, abbia finito per degenerare fino ad alimentare il sospetto sui complotti, sulle manovre, e sui tradimenti di cui il Presidente della Camera si sarebbe reso colpevole.
Il sospetto non è mai, a differenza di quanto pensava Leoluca Orlando, “l’anticamera della verità”. Un’accusa ripetuta all’infinito non può surrogare un fatto indimostrato, neppure quando l’addebito è politico. Sul processo breve e sul lodo costituzionale che dovrebbe, più coerentemente, porre al riparo il premier dall’assedio processuale, l’accordo di Fini è stato dichiarato in modo pubblico e politicamente impegnativo. Sulla difesa della dignità e dell’immagine di Berlusconi dalle accuse di quanti, a quanto è dato di capire, lo vorrebbero da oltre 30 anni, improbabile terminale strategico della strategia mafiosa (sia sul versante economico, sia su quello politico), Fini è stato altrettanto esplicito. Continuare a chiedergli ragione di quanto ha detto o fatto (come se avesse detto o fatto il contrario di quello che ciascuno ha potuto sentire o vedere), non è solo inutile, ma dannoso.
L’energico “massaggio” a cui i più diffusi giornali di centrodestra si dedicano quotidianamente da mesi per indicare al pubblico ludibrio l’estraneità politica di Fini al centrodestra (sic!), è tanto infondato quanto destabilizzante. Sembra che qualcuno voglia scommettere sulla classica “profezia che si autoadempie”. Ma così si gioca allo sfascio.
Servirebbe, al contrario, che ciascuno si muovesse in modo da svelenire e non da avvelenare una situazione che il gioco degli equivoci può solo ulteriormente complicare. Giuliano Ferrara, mi pare, ha capito che sarebbe anche nell’interesse del suo amato Cav. valorizzare il percorso finiano piuttosto che – magari per semplice pigrizia mentale – archiviarlo superficialmente nel faldone dei “fuori dai ranghi”.
Non si può, soprattutto, ossessivamente parlare delle differenze che non ci sono, per non parlare di quelle che ci sono e che Fini (e non solo Fini) non ha mancato di sollevare, chiedendo che su queste iniziasse una discussione libera e aperta. La discussione, non soffocata dalla deterrenza della “disciplina di partito”, potrebbe spaziare su di un’ampia pluralità di temi: su di un processo riformatore, che abbia un respiro strutturale e non congiunturale, a partire dal consolidamento di un sistema bipolare competitivo e non “bellico”, presidenziale, ma non “monarchico”; sui temi dell’identità e dell’etica della cittadinanza, all’insegna di un patriottismo costituzionale fondato su solidi valori civili e non su di un pericoloso revanscismo etnico-religioso; sull’ancoraggio della cultura economica e sociale del Pdl alla moderazione della tradizione popolare europea, e proprio per questo – rispetto alla realtà italiana – ad un coraggio riformatore, che, sempre più spesso, nel Pdl viene descritto come un pericolo o un azzardo; sull’esigenza di affrontare le questioni biopolitiche con un senso realistico della modernità, rifuggendo dall’idea che il “ritorno al passato” possa mettere al riparo la società da problemi e contraddizioni morali… E si potrebbe continuare.
Di tutto questo – e di molto altro che è stato oggetto delle “provocazioni” finiane- occorrerebbe discutere, prima che per capire quale sia la “linea”, per chiarire quale debba essere la meta di un partito inedito per la storia italiana, che, anche per questo, non può dividersi in modo così scontato e burocratico, tra guerriglie, sospetti e accuse di tradimento.

Benedetto Della Vedova - Nato a Sondrio nel 1962. Laureato alla Bocconi, economista, è stato ricercatore presso l’Istituto per l’Economia delle fonti di energia e presso l’Istituto di ricerca della Regione Lombardia. ha scritto per il Sole24Ore, Corriere Economia, Giornale e Foglio.Dirigente e deputato europeo radicale, è stato Presidente dei Riformatori Liberali. Da due legislature è deputato, eletto prima nelle liste di Fi e quindi del Pdl.


CREDITS: Libertiamo

mercoledì 2 dicembre 2009

Manca solo Fidel...

Grande risalto mediatico, e grande amarezza in sede europea, ha suscitato la visita il Bielorussia del Premier italiano Berlusconi. Motivo?! In parte, forse, x la concessione al nostro Stato di alcuni faldoni dell'archivio KGB in merito al Belpaese. Ma, soprattutto, x l'apprezzamento ed il sostegno che il Cav ha manifestato nei confronti del Presidente della Russia Bianca, Lukashenko. E così, dopo Putin e Gheddafi, Lui sbaciuccia pure Lukashenko…evvai…ormai manca solo un bel banchetto con l’immarcescibile Fidel e poi siamo a cavallo…e trattandosi del Cavaliere, non sarebbe poi una cosa così strana…


Bielorussia, benvenuti nell’ultima dittatura europea


E’ difficile trovare la Bielorussia quando la si cerca in tutti gli indici della libertà. Bisogna scorrerli, andare a leggere in fondo, poi ancora più giù e scendere ancora ai margini della pagina. E allora, forse, la si trova. Freedom House, che misura la libertà politica e civile la segna in viola (Paese non libero) sulla mappa d’Europa. E’ purtroppo l’unica macchia di questo colore nel nostro continente. Quando Condoleezza Rice la definiva “avamposto della tirannia” non aveva tutti i torti. La repubblica ex sovietica è la 167ma su 180 Paesi analizzati nell’Index of Economic Freedom redatto da Wall Street Journal e Heritage Foundation. E’ invece 179ma nell’indice di corruzione percepita di Transparency International.

Tutti conoscono l’amore per la democrazia dimostrato dal presidente Alexandr Lukashenko, ex commissario politico delle truppe di frontiera del Kgb ai tempi dell’Urss, al potere ininterrottamente dal 1994. Pur essendo (per lo meno nel periodo sovietico) un comunista d’acciaio, nel 1995 aveva pubblicamente elogiato Hitler, in quanto uomo che aveva riportato l’ordine in Germania dopo un decennio di caos democratico. Nelle sue elezioni ha sempre rispettato la volontà del suo elettorato. Non di quello degli altri partiti. Secondo i commissari dell’Ocse ha truccato tutte le elezioni, comprese quelle del 2006 che hanno provocato una rivolta nel Paese. Lukashenko lo ha anche ammesso, dichiarando che se non avesse messo mano ai dati elettorali per manipolarli avrebbe ottenuto più del 90% dei voti. Si sarebbe ridotto a una vittoria più realistica dell’82% per cercare di avvicinarsi agli standard europei. Cinque funzionari bielorussi, tuttora, non possono ottenere visti di ingresso per l’Ue perché sospettati di aver fatto sparire (nel senso fisico del termine) alcuni oppositori politici.

Non si poteva pretendere che il premier Silvio Berlusconi, primo leader occidentale a recarsi in visita nell’ultima dittatura europea, desse lezioni di democrazia a Lukashenko. L’Ue, benché sospetti ancora che il regime bielorusso agisca in malafede, da un anno gli ha ridato la possibilità di viaggiare in Europa occidentale e sta gradualmente ri-tessendo i legami perduti con Minsk, a partire dalla sua inclusione nella Partnership dell’Est. Da parte sua, Lukashenko ha condotto prime parziali privatizzazioni, ha chiesto un prestito al Fondo Monetario Internazionale e proprio in questi giorni sta approvando una prima riforma del sistema di voto, che facilita la registrazione di nuove liste partitiche e permette anche ai partiti d’opposizione di monitorare le elezioni. Come in altri casi precedenti (Libia), l’Italia sta esplorando per prima un canale diplomatico che, prima o poi, verrà aperto anche dagli altri Paesi europei. E questa politica ha un senso. Quel che ci si potrebbe chiedere, semmai, è: cosa può ricavare l’Unione Europea dalla riapertura di rapporti con un Paese come la Bielorussia?

Se ci sta a cuore la sicurezza, dobbiamo sapere che la repubblica ex sovietica è vissuta sinora di esportazione di armamenti. Saddam Hussein riceveva armi da Minsk. Hugo Chavez e Mahmoud Ahmadinejad sono tuttora suoi clienti. Lo sterminio della popolazione del Darfur è stato condotto con armi made in Lukashenko. In aree instabili come i Territori palestinesi, il Libano, lo Yemen, il Congo e in zone che potrebbero tornare ad esserlo come i Balcani e il Caucaso, eserciti regolari e milizie irregolari si armano grazie a Minsk. Da un punto di vista politico, sino a quest’anno, Lukashenko si è sempre comportato come l’interfaccia europea di Chavez, Ahmadinejad, a suo tempo di Saddam Hussein, del dittatore sudanese Omar Bashir e del regime della Corea del Nord.

Nel teatro politico europeo, Lukashenko ha sempre sostenuto la Russia. Oltre a imporre il russo come lingua ufficiale nel suo Paese e mirare, sin dal 1994, a una riunificazione con la Federazione, oltre a creare un unico blocco economico e una difesa integrata con quella di Mosca, la Bielorussia ha sempre svolto la funzione di avamposto del Cremlino contro le rivoluzioni colorate, contro l’emancipazione delle repubbliche ex sovietiche che vogliono avvicinarsi all’Unione Europea e alla Nato. Lukashenko litiga con Putin sul prezzo del gas e del petrolio, per questioni di rivalità politica ed economica. Lo strappo più grande con Mosca è avvenuto nella guerra in Georgia, quando Lukashenko non ha voluto riconoscere l’indipendenza delle regioni separatiste pro-russe di Abkhazia e Ossezia. Ma quando si tratta di fare una scelta di campo, la Russia è pronta a prestare al suo vicino ben 2 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi economica e di condurre con i bielorussi le più grandi manovre militari della sua storia recente, come è avvenuto con l’esercitazione Zapad lo scorso ottobre.

Dunque, democrazia no, sicurezza no… l’Ue ci guadagnerebbe in termini economici a riallacciare i rapporti con la Bielorussia? Citando testualmente l’analisi dell’Index of Economic Freedom, la situazione è: “Lo Stato controlla le istituzioni finanziarie, direttamente o indirettamente. Gli investimenti stranieri in tutti i settori devono far fronte a difficoltà che vanno dalle restrizioni legali all’incompetenza della burocrazia. L’assenza di legalità permette l’espansione della corruzione e rende insicuro il diritto di proprietà”. Nella stessa analisi, a proposito di proprietà privata si legge che: “…la sua tutela non è cambiata dai tempi dell’Unione Sovietica: lo Stato detiene la proprietà della terra e delle fattorie collettive. Il sistema legale non protegge pienamente la proprietà privata. La magistratura non è indipendente, né imparziale secondo rispetto agli standard internazionali. Il governo ha pieni poteri di intervenire negli scambi commerciali. Gli avvocati non possono esercitare la professione senza una speciale licenza rilasciata dal Ministero della Giustizia. E’ scarsa anche la tutela della proprietà intellettuale”. Da quel che si legge, insomma, in Bielorussia abbiamo scoperto un nuovo Eldorado.

Stefano Magni - Nato a Milano nel 1976, laureato in Scienze Politiche all’Università di Pavia, è redattore del quotidiano L’Opinione. Ha curato e tradotto l’antologia di studi di Rudolph Rummel, “Lo Stato, il democidio e la guerra” (Leonardo Facco 2003) e il classico della scienza politica “Death by Government” (“Stati assassini”, Rubbettino 2005).
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Berlusconi e Lukashenko: quanto costa e quanto rende la politica dello scambio coi dittatori?

di Carmelo Palma & Piercamillo Falasca

Fedele all’impegno di fare della politica estera una piattaforma di lancio delle imprese italiane, Berlusconi ha scelto una spregiudicata e rischiosa “politica dello scambio” con regimi politici ed autocrati più o meno impresentabili. Se loro aprono il portafoglio delle commesse pubbliche alle imprese italiane (o, come è il caso libico, promettono di aprire pure i forzieri dei fondi sovrani per le necessità di alcuni campioni nazionali), allora Berlusconi se ne fa complimentoso garante sul piano internazionale, senza lesinare apprezzamenti né lodi.
Da questo punto di vista non possono stupire gli sperticati riconoscimenti ieri riservati ad Aleksandr Lukashenko, il dittatore bielorusso, che non aveva mai ricevuto a Minsk leader politici occidentali e a cui fino allo scorso anno era interdetto l’ingresso nei confini dell’Unione Europea. Berlusconi è sinceramente convinto di servire in questo modo gli interessi del Paese. E altrettanto sinceramente noi pensiamo che queste parti non gli piacciano, addirittura gli pesino, ma che le assolva come un doveroso sacrificio.

Quello che occorrerebbe comprendere, però, è quale sia il saldo economico e politico della nouvelle vague diplomatica, che sembra tagliata su misura per i rapporti con despoti che possono discrezionalmente aprire o chiudere i forzieri dello Stato, ma non ci pare possa funzionare quando gli interlocutori sono governi – o leader di governo – che non comprano né vendono contratti pubblici e privati e comunque non hanno bisogno della “legittimazione” italiana.

La nonchalance con cui Berlusconi ha “depoliticizzato” la politica estera italiana costa o rende? L’assoluto “relativismo” della nostra diplomazia e la totale disponibilità del nostro governo a difendere l’indifendibile ci rende interlocutori più smart o partner meno affidabili sui più delicati dossier strategici?
Occorrerebbe discuterne senza acrimonia, senza moralismi e senza cinismi. Ma forse sarebbe il caso di iniziare a discuterne.


CREDITS: Libertiamo

Sembra trascorso molto tempo, ma è passato solo un anno e mezzo da quando Silvio Berlusconi si mostrava tentato dall’idea di affidare a Pietro Ichino, appena eletto senatore del Partito democratico, l’incarico di ministro del Welfare. Era una bella provocazione berlusconiana, ma non se ne fece nulla: ce ne rammaricammo, ma comprendemmo. Ciò che oggi non si comprende è come sia possibile che le politiche del Governo Berlusconi si discostino così spesso e così tanto dalle proposte e dalla “visione” di Pietro Ichino: da ministro a grillo parlante o, peggio, ad antitesi liberale di Sacconi?

In tema di ammortizzatori sociali, di diritto del lavoro, di pensioni, Ichino riesce sovente ad essere interprete del migliore approccio riformatore: dal welfare-to-work al modello danese, dall’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne al sistema di rappresentanza sindacale. Il professore pare predicare troppo spesso nel deserto, con proposte d’ispirazione liberale – meno intermediazione pubblica, meno vincoli, maggiore autonomia – non comprese da chi gli sta intorno nel PD e ormai inascoltate da chi in teoria dovrebbe meglio comprenderle, quel centrodestra al Governo che appena nel 2002 provava ad abrogare l’articolo 18, che nel 2005 approvava una riforma delle pensioni coraggiosa e che solo nella primavera del 2008 ha “rischiato” di ritrovarsi il giuslavorista nell’esecutivo. Tra i cortocircuiti del sistema politico italiano, di cui parlava Giovanni Guzzetta nel suo articolo “AAA: cercasi exit strategy” (pubblicato su Libertiamo.it e Ffwebmagazine), c’è anche la drammatica solitudine politica di Ichino. E, come la sua, quella di quanti – pochi: il nostro Benedetto Della Vedova, Giuliano Cazzola, Antonio Martino e poco più – nel PDL continuano a guardare ai temi del lavoro e del welfare con autentico spirito innovatore.

Si va consumando in questi giorni un ulteriore strappo tra il centrodestra “ideale”- attento alle aspirazioni ed alle esigenze del mercato e dell’impresa, quale veicolo di sviluppo della società – e quello reale. Ed è stato Pietro Ichino a denunciarlo. Una norma su trasferimenti e licenziamenti nel cosiddetto “Collegato alla Finanziaria” (l’articolo 23, per la precisione), se approvata, allargherebbe incredibilmente la discrezionalità del controllo giudiziale sul “giustificato motivo” del licenziamento di un lavoratore, includendo nelle ragioni del motivo l’interesse oggettivo dell’impresa ed affidando appunto al giudice il potere di determinare tale interesse.

Curiosamente , come scrive Ichino sul suo blog “la norma enuncia in apertura anche il principio di insindacabilità delle scelte di gestione aziendale; ma è evidente che questo principio è contraddetto dal successivo riferimento all’interesse oggettivo”. Detto alla Berlusconi, sembra una norma da comunisti. Nel valutare il giustificato motivo di licenziamento, il giudice deve tener conto del cosiddetto “oggettivo interesse dell’organizzazione aziendale”, un principio di cui non si comprende la sostanza e di cui s’ignorano i confini. Non bisogna necessariamente lasciarsi ispirare dalle teoria della Scuola Austriaca di economia per rilevare come sia del tutto insensato parlare di “oggettività” dell’interesse di un’azienda e pensare che un giudice decida – tra manuali di diritto, casi di giurisprudenza e prove documentali – a cosa corrisponda questo interesse. E poi, secondo quale criterio il giudice apprezzerebbe tale oggettività? Le prospettive di profitto – forse – o la produttività, ammesso che sia possibile misurarla? C’è da dubitarne.

Non bisogna infatti essere troppo abituati ai fatti ed ai misfatti di casa nostra per capire come una norma di tale fattura finirebbe per affidare ai giudici una totale discrezionalità che molti di essi utilizzerebbero – per dirla ancora con Berlusconi – da giudici “di sinistra”.

Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo. Ha scritto, con Carlo Lottieri, "Come il federalismo può salvare il Mezzogiorno" (2008, Rubbettino) ed ha curato "Dopo! - Ricette per il dopo crisi" (2009, IBL Libri).


CREDITS: Libertiamo

martedì 1 dicembre 2009

Fini e i fuori onda: conferma sui complotti o sulla "lealtà"?!

Meno di un'ora fa, sul sito dell'agenzia di stampa il Velino, è apparso questo stralcio di un "fuori onda" del Presidente della Camera Fini. Si parla di Berlusconi, di Spatuzza, di giustizia e di "cesarismo".

Questa "rivelazione" sembra uscita non a caso, visti i recenti contrasti tra Fini e il Cavaliere...

Tuttavia, mi pare ke più ke comprovare i "tramacci" dell'ex leader di AN, vi sia al contario la conferma del suo pensiero. E anke della sua "lealtà"...altrimenti perchè il procuratore con cui parla, si sentirebbe in dovere di dirgli ke queste indagini vanno fatte?!


POL - Fuorionda di Fini su Spatuzza, Berlusconi e il consenso popolare

Roma, 1 dic (Velino) - Durante la giornata conclusiva del “Premio Borsellino” a Pescara il presidente della Camera Gianfranco Fini ha avuto uno scambio di battute con il procuratore della Repubblica Nicola Trifuoggi registrato fuorionda e finito sul sito web di Repubblica. Di seguito il resoconto integrale.

FINI: “Se ti sente il presidente del consiglio si incazza”.

TRIFUOGGI: “Non gliel’hanno detto ancora”.

FINI: “Il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza, il pentito, può aprire scenari... Speriamo che lo faccia con uno scrupolo tale da...Perché è una bomba atomica”.

TRIFUOGGI: “Assolutamente sì. No ci si può permettere un errore neanche minimo”.

FINI: “Sì perché non sarebbe un errore giudiziario. È una tale bomba che...Lei lo saprà, ma Spatuzza parla apertamente di Mancino, che è stato ministro degli Interni”. (parole incomprensibili).

TRIFUOGGI: “E mi pare che basti”.

FINI: “Uno è vicepresidente del Csm, l’altro è il presidente del Consiglio”. )..

TRIFUOGGI: “Mi pare che basti, no? Però Comunque si devono fare queste indagini”.

FINI: “No, ci mancherebbe altro....No, lui l’uomo confonde il consenso popolare che ovviamente ha e che lo legittima a governare con una sorte di immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia: Magistratura, la Corte dei Conti, la Cassazione, il capo dello stato e il parlamento. Siccome è eletto dal popolo”.

TRIFUOGGI: “È nato con qualche millennio di ritardo: doveva fare l’imperatore romano”.

FINI: “Ma io gliel’ho detto: confonde la leadership con la monarchia assoluta. Poi in privato gli ho detto: ricordati che gli hanno tagliato la testa a un certo punto. Quindi statte quieto”.

FINI: “A Scampia c’è un altro sacerdote che si chiama Don Aniello e di cognome Mancaniello, ed è un personaggio come questo (ndr Don Luigi Merola). Una volta è venuto un guappo e lui gli ha detto ‘Io non sono un prete, so un mancaniello!’”

Subito dopo il presidente della Camera indica a don Merola, che si lamentava del fatto di non essere ancora mai riuscito ad incontrare il ministro Gelmini, il suo segretario personale.

FINI: “Qualche giorno fa rileggevo un libro sull’Italia giolittiana e a Giolitti, che era considerato il ministro della malavita, un oppositore gli disse: ‘Lei rappresenta lo stato... participio passato del verbo essere’. Efficace, no?”

TRIFUOGGI: “Potrebbe essere riesumata”

FINI: “Infatti non escludo di farlo, citando la fonte... prima o poi lo faccio”


FINI (riferendosi ad Aldo Pecora): “Lui è un creativo nato, perché il movimento lo ha chiamato ‘Ammazzateci tutti’... e sì... il talento è quello”

Pecora nell’ambito del suo discorso afferma: “Noi siamo di passaggio, qua nessuno è eterno, non si vive in eterno”

Fini commenta: “... se ti sente il presidente del Consiglio si incazza”

FINI: “Sono un ragazzaccio io... come dicevano i greci... poco se mi giudico molto se mi confronto... è così, sembra una battuta invece è una massima di vita. È l’umiltà e nello stesso tempo la consapevolezza di vivere”

FINI: “Per i ragazzi come questi (riferendosi a Pecora).. è chiaro che una delusione a 23 anni, non alla nostra età, ti toglie qualunque possibilità di credere nella vita”

FINI, rivolgendosi a Pecora: “Con la giacca e la cravatta sei ancora più bravo”

FINI: “È che con i ragazzi non parli con le parole ma con gli esempi”

(red) 1 dic 2009 14:47


CREDITS: il Velino

Se l'onda diventa tsunami...

Dagli amici di Libertiamo, due interessanti interventi sui problemi riguardanti il PdL. Problemi che vanno affrontati, non nascosti o bollati come deliri di qualche "cane sciolto"...

La chiamano riforma, ma è un attacco allo spirito del Popolo della Libertà

E la chiamano riforma. Ma il nuovo ordinamento forense in discussione presso la Commissione Giustizia del Senato è definibile come tale? La Treccani definisce il termine riforma come “modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento, ecc., rispondente a varie necessità ma soprattutto a esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi(…)”. Non ho dubbi che l’impianto legislativo dell’ex ddl Mugnai (ma si scrive Mugnai e si legge Cnf) intercetti la prima parte della definizione. Esso è una modificazione sostanziale (per quanto in peius), attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, di un’istituzione, un ordinamento. Qualche perplessità maggiore la nutro sulla sua aderenza alla seconda parte della definizione: “rispondente a varie necessità, ma soprattutto a esigenze di rinnovamento e adeguamento ai tempi”. Bene. Qui c’è da mettersi d’accordo sull’interpretazione della “natura dei tempi” che stiamo vivendo e su cosa voglia dire adeguarvisi. E, quindi, se sia opportuno, da un punto di vista politico, dal punto di vista politico del PdL, adeguarvisi nel modo in cui vi si sta adeguando nel caso di specie degli avvocati. Qual è dunque la natura dei tempi che stiamo attraversando? Sono tempi di crisi, e crisi, dal greco, vuol dire cambiamento. Qual è la risposta dell’ordine forense (diventata indirizzo politico del PdL) agli interrogativi posti dalla crisi? L’arroccamento, il controllo delle nascite (di nuovi professionisti), la creazione di un mercato dei servizi legali amministrato dalla corporazione (cui lo Stato presta il beneficio della protezione legale), in un’ottica squisitamente provinciale, da strapaese. Ad esempio, il divieto di costituire società tra professionisti con soci di mero capitale produrrà due conseguenze: fermo restando che il tasso di interconnessione globale delle economie, dei servizi, degli scambi commerciali e di quelli di informazioni non si arresteranno solo perché Tremonti ha deciso che il mercatismo low cost è il nuovo comunismo e che il mercato è sano se va piano e neanche troppo lontano, ci ritroveremo colonizzati dalle grandi law firm di provenienza anglosassone, che risponderanno alla domanda italiana di servizi legali su scala internazionale. In più i nostri giuristi perderanno progressivamente grip sul mercato nazionale e su quelli internazionali, perché privi di strumenti organizzativi e scientifici per rispondere alle issues emergenti dall’economia mondiale. Lo scontro, niente affatto indolore per l’Italia, è tra due diverse visioni del futuro del nostro Paese. Secondo la prima, l’Italia deve mettersi in testa che soltanto correndo col resto del mondo e aprendosi ad esso potrà pensare di garantire benessere e ricchezza anche alle future generazioni, magari accettando qualche piccolo/grande sacrificio nell’immediato; secondo l’altra, il Paese vive bene sotto i campanili e non c’è bisogno del pepe della competizione quanto, piuttosto, della tranquillità della protezione, riassumibile nel trittico Dio, posto fisso e famiglia. Per queste ragioni sull’ordinamento forense si gioca oggi una partita culturale di ampio respiro dalla quale emergerà la linea del centro destra sulla propria idea di sviluppo per il Paese. Nelle dichiarazioni programmatiche del governo è scritto quanto segue:

per crescere dobbiamo (…) colpire i corporativismi e le chiusure difensive che in passato hanno tutelato soltanto i bisogni castali di un sistema assistenziale e dirigista che non ha fiducia nella libertà e nell’autonomia della società (fonte governo.it).
Lo scarto tra questa dichiarazione di principio e il contenuto della proposta sull’ordinamento forense è evidente. Perciò, cui prodest? Siamo sicuri che al PdL convenga portare a casa una legge che piace alla corporazione forense (e neanche unanimemente) ma distrugge le premesse ideali e riformiste del berlusconismo classico, quello che ha allevato una generazione di autonomi e partite Iva, baldanzosi in doppio petto e con quella sicumera individualista che tanto fa incazzare i pii sacerdoti dell’ortodossia sociale di sinistra e tanto bene fa, invece, al dinamismo e al Pil italiano? La constituency pidiellina è un materiale composito, stratificato, il cui trait d’union è, però, la richiesta di opportunità, di libertà e di spazi di autonomia individuale, nel lavoro come nella vita privata, passando dalla concezione del rapporto tra il singolo e la società. E se alcuni tratti di quest’anarchia dell’io sociale berlusconiano possono essere anche oggetto di un aggiustamento in chiave costituzionale, l’anelito marcatamente libertario che ne ispira la richiesta di opportunità resta ancora l’elemento più dirompente del panorama politico italiano. Per questa ragione oggi pomeriggio Libertiamo parteciperà alla manifestazione di protesta organizzata dall’Unione dei Giovani Avvocati Italiani contro la contro – riforma della professione forense in discussione al Senato. “La manifestazione di oggi – spiega Gaetano Romano, presidente di UGAI – servirà a dar voce ai cittadini ed alla base della classe forense chiedendo unanimemente il ritiro in toto della controriforma forense. Non c’è spazio di discussione su un testo inaccettabile e contenutisticamente, a nostro parere, di ispirazione quasi fascista. La base dell’avvocatura, colpita dalla riforma, deciderà oggi anche eventuali ulteriori clamorose iniziative di protesta democratica”. PdL, cui prodest?

Lucio Scudiero - 23 anni, salernitano, è laureando in Giurisprudenza presso l'Università Federico II di Napoli. Si occupa di diritto della privacy presso l'Istituto Italiano Privacy. Tra i fondatori dell'osservatorio economico SalernoeCapitale, laboratorio di proposte e soluzioni liberali per Salerno e la sua provincia.

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Il PdL e il fantasma del PCI. L’irresistibile leggerezza dell’ortodossia

Vedremo presto se la scelta di ricorrere ai principi dell’organizzazione leninista porterà bene al PDL e a quanti pensano di risolvere le inevitabili contraddizioni di un partito del 40% facendo funzionare la “macchinetta” delle votazioni a maggioranza come una democratica ghigliottina.
I due partiti di massa della Prima Repubblica funzionavano in modo rovesciato. La DC ha rinunciato molto presto ad essere un partito vero e proprio, divenendo piuttosto una coalizione di interessi divergenti, legati da una filosofia interclassista e da una pratica compromissoria. Il PCI non ha mai rinunciato (fino al momento in cui ha dovuto rinunciare alla propria ragione sociale) a coltivare e consolidare una “linea”, in cui condensava il meglio – si fa per dire - della sua visione e il peggio del suo opportunismo politico.

A quindici anni e ad una Repubblica di distanza, un grande partito dovrebbe forse darsi un modello diverso. Perché sono cambiati i tempi e le regole del gioco politico. E anche perché i mezzi prefigurano i fini e li giustificano e due modelli come quelli della DC e del PCI non sembrano coerenti con i fini di questa “creatura” nata berlusconiana e, almeno in teoria, proiettata nella storia post-berlusconiana del Paese. Anche per questo, non è un buon segno che una parte della classe dirigente del PdL riscopra le virtù del centralismo democratico, sia pure ripulito e corretto, visto che ai dissidenti è richiesto il silenzio e non la pubblica abiura.

Non c’è dubbio che oggi il PDL è costretto a scontare anche un “errore di giovinezza”: quello di avere pensato di articolare la discussione interna, come se questa potesse riguardare solo il futuro e non anche il presente, solo il profilo ideale del partito e non anche le concrete scelte di governo. Un partito che inizia a discutere, invece, discute inevitabilmente di tutto: anche della genialità tremontiana, a cui tutti ci inchiniamo, ma che ad alcuni inizia a non sembrare del tutto diversa da quella di un rispettabile tecnocrate del centro-sinistra. Anche della legge finanziaria, che ha confermato che il “programma può attendere”. Anche delle questioni istituzionali, in cui un partito che ha regalato alla Lega la testa del referendum Guzzetta oggi rischia l’accerchiamento, la confusione e l’afasia. Anche dei problemi bio-politici, su cui un partito ancora impreparato ha scelto di avventurarsi con un “bignamino” bio-etico desolante, per “vendicare” la morte di Eluana. Anche della giustizia, in cui il processo breve e il lodo costituzionale non sono una riforma, ma semmai una premessa della riforma, che è altrettanto urgente e irrinunciabile.

E’ vero che l’indispensabile legame tra discussione politica e funzione di governo impone ad un partito, su cui grava il peso dell’esecutivo, di trovare un’unità di azione e di indirizzo e di non procedere in ordine sparso. Ma è una responsabilità che pesa sia sulle maggioranze, sia sulle minoranze e più sulle prime che sulle seconde. Questa unità – se non vuole essere la burocratica richiesta di un “voto conforme” – comporta la capacità di trovare una sintesi efficiente tra posizioni diverse e ugualmente “rappresentative” della realtà sociale, culturale e ideale del PDL.

Prendiamo il tema di governo meno suscettibile di interpretazioni anti-berlusconiane, cioè il rapporto tra tassazione e spesa pubblica. Come si risponde alle obiezioni del Professor Baldassarri, lungo le quali si articolerà parte della discussione della finanziaria anche alla Camera? Chiedendo all’Ufficio di Presidenza del partito di decidere se il Professore ha ragione o ha torto? Oppure cercando un modo ragionevole per tenere insieme (perché “devono” stare insieme, in un partito del 40%) le proposte di chi intende innanzitutto garantire la tenuta dei conti pubblici e quelle di chi ritiene che, per ragioni di efficienza e di equità, i livelli di spesa pubblica e imposizione fiscale non possano più considerarsi “variabili indipendenti”?

La risposta alle tensioni interne dovrebbe essere quella di accelerare la costruzione di un partito capace di elaborare, e non solo di supportare, le necessarie sintesi richieste dall’azione di governo. Questa è la scommessa del PdL. Che non c’entra niente con il “contiamoci” minacciosamente pronunciato da chi pensa che ogni differenza segni una ragione e un torto e valga un regolamento di conti. In un partito che vuole governare, e non esercitare l’egemonia sulle masse, una rigida ortodossia è sempre prova di colpevole leggerezza.

Carmelo Palma - 40 anni, torinese, laureato in filosofia, pubblicista. E' stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. Tra i fondatori dei Riformatori Liberali. Direttore dell’Associazione Libertiamo e di www.libertiamo.it


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