mercoledì 25 novembre 2009

1994, il sogno futuro di un ritorno al passato

Per chi come me è innamorato (platonicamente) di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, è davvero difficile iscriversi alla corrente berlusconiana o a quella finiana. Ma siamo nati in Italia, siamo italiani e… that’s it.
Attenzione: io ammiro e stimo Silvio e Gianfranco. Sono i miei due leader politici italiani preferiti, di gran lunga migliori dei parrucconi della Prima Repubblica, dei quali non riesco – forse perché sono nato nel 1982 – ad avere molta nostalgia.
Oggi che il bipolarismo italiano sembra essersi ridotto a un derby tra Fini e Berlusconi, a tutti noi, specie se “pidiellini” (vuoi mettere con conservatives, republicans o tories?), viene chiesto di schierarci. O di qua o di là. Ci manca solo la Linea gotica.
No, quello dello schieramento “o con me o contro di me”, che si ode specialmente nel campo berlusconiano, è un gioco vecchio, puzzolente e perdente. Un gioco che non piacerà nemmeno a Silvio Berlusconi.
Sempre che si stia parlando del Silvio Berlusconi del 1994, quello della “discesa in campo”. Quello che fece sognare anche un bambino di 12 anni come me, cresciuto a pane e politica in una solida famiglia missina. Sto parlando del Berlusconi della rivoluzione liberale, quello che si schierava contro “La vecchia classe politica italiana travolta dai fatti e superata dai tempi”. Quel Berlusconi che tuonava contro i “vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti”. Quel Berlusconi che era “liberale in politica e liberista in economia”. Quel Berlusconi che credeva “nell’individuo, nella famiglia, nell’impresa, nella competizione, nello sviluppo, nell’efficienza, nel mercato libero e nella solidarietà, figlia della giustizia e della libertà”.

Noi amiamo (politicamente) quel Silvio Berlusconi. Quello delle due aliquote di tassazione al 23 e al 33 per cento. Non il presidente del Consiglio di un Governo che, attraverso il suo ministro dell’Economia, dice che non si possono tagliare le tasse o lascia il suddetto ministro mitizzare lo Stato ed i benefici del big government. Non il capo di una maggioranza che non riesce ad avanzare una riforma organica, liberale e coraggiosa della giustizia, del mondo del lavoro e delle professioni, della PA (anche se bisogna cantare “meno male che Brunetta c’è”) e soprattutto della Costituzione. Non il Presidente di un partito dove non si riesce a discutere liberamente di questione morale o di temi etici (sebbene, personalmente, io non concordi con Fini) o di un nuovo modello di cittadinanza (qui concordo).
Intendiamoci, io non sono un “finiano”. Sono semplicemente me stesso e penso che, se il Pdl non riuscirà a trovare la “quadra”, questo rappresenterà un rischio per la parte politica in cui ho scelto di militare e per gli equilibri dell’intero Paese.

Io non so se Fini aspiri ad essere il leader di una destra liberale, moderna, con lo sguardo rivolto al futuro. Lo spero e ci credo. Di sicuro, il Berlusconi del 1994 era il leader di una destra liberale, moderna, con lo sguardo rivolto al futuro. Se il nostro Silvio tornasse quello di un tempo, saremmo tutti felici e contenti.

Gianmario Mariniello - Nato a Napoli nel 1982, laureando in Giurisprudenza all'Università Federico II di Napoli. Lavora presso il Gruppo Pdl alla Camera dei Deputati, già Dirigente nazionale di Azione giovani, è attualmente Vice Coordinatore regionale del Pdl in Campania e consigliere comunale nella sua città, Aversa. Collabora con il Bimestrale “CON”.


CREDITS: Libertiamo

giovedì 19 novembre 2009

La Caserma della (NON) Libertà

Dal sito ufficiale del PdL:

BONDI: Valutiamo con attenzione la saldatura culturale fra Veltroni ed alcuni ex di An
18 novembre 2009 ore 16:15
"Tra la sinistra e gli ex Msi è avvenuta una saldatura che va valutata con attenzione".

Lo ha affermato il coordinatore del Pdl Sandro Bondi, commentando la proposta di legge bipartisan sull’immigrazione presentata da Walter Veltroni insieme, tra gli altri, a Flavia Perina e Fabio Granata. "La conferenza stampa congiunta dell`On. Perina e dell`On. Veltroni nel corso della quale è stata illustrata una proposta di legge sulla cittadinanza non deve destare scandalo. E` una notizia, ed è una notizia degna di riflessione. E` avvenuta, infatti, una saldatura, innanzitutto sul piano culturale - come avevo recentemente avvertito - tra la sinistra e alcuni esponenti della destra italiana provenienti dalla storia del Msi e poi di Alleanza nazionale. E` un dato nuovo della situazione politica italiana da valutare con attenzione".

Uno che è stato Sindaco del PCI, di "cultura sinistra" se ne intende bene...
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CICCHITTO: E' inaccettabile che alcuni deputati del Pdl presentino il DDL sul voto ad immigrati con l'opposizione
18 novembre 2009 ore 16:51

"E’ inaccettabile che su un tema cosi’ delicato quale quello riguardante il tema della concessione del voto alle elezioni amministrative agli immigrati residenti in Italia da cinque anni alcuni colleghi appartenenti al gruppo del PDL abbiano preso l’iniziativa di presentare un disegno di legge firmato con esponenti di tutti i gruppi dell’opposizione, senza che la presidenza del gruppo sia stata minimante interpellata e tenendo conto che questa proposta non e’ contenuta nel programma di governo".


Lo ha affermato Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl che ha osservato:
"D’altra parte la materia non rientra in quelle riguardanti la bioetica, come il testamento biologico, sulle quali vige la liberta’ di coscienza. Ricordiamo che in una riunione dell’ufficio di Presidenza i coordinatori nazionali del partito avevano preannunziato che si sarebbe svolta una riunione dell’organismo dirigente del partito, vista l’esistenza di diversi pareri sull’argomento. Evidentemente va fatta una scelta politica ricorrendo all’unico strumento decisionale possibile, quello costituito dal metodo democratico. Di conseguenza invitiamo i coordinatori nazionali a convocare riunioni degli organismi statutari che discutano e decidano.


In assenza di riunioni dell’Ufficio di Presidenza, ed eventualmente della direzione, su tutte le questioni in discussione, si verifica una situazione nella quale si sovrappongono le posizioni piu’ diverse senza che si sappia qual’e’ la linea del partito, con conseguenze negative. Auspichiamo la continuita’ dell’opera di governo, l’unita’ del PdL e l’omogeneita’ della maggioranza. Per favorire questo risultato e’ indispensabile che ci sia una sede, quella degli organismi di partito, di discussione e di decisione. In caso diverso nel PdL non ci sara’ certo un ’regime da caserma’, ma quello che De Gaulle chiamava ’lo chanlit’, con i rischi conseguenti che sono stati evocati ieri dal Presidente Schifani, che noi francamente vorremmo evitare visto che pensiamo alla passione politica dei militanti e degli elettori del PdL che ci hanno votato nel 2008 sulla base di un preciso programma che nessuno ha il diritto di annullare, ne’ con iniziative unilaterali ne’ con azioni cosiddette bipartisan. Noi riteniamo che esistano tutte le condizioni per andare avanti. Esistono opinioni comuni su tutti i problemi principali da parte di una larghissima maggioranza sia dei gruppi parlamentari, sia del PdL, aldila’ della stessa origine da Forza Italia, da AN e dagli altri partiti che si sono ritrovati nella formazione del partito unitario fondato sulla leadership politica e di governo di Silvio Berlusconi".

Com'era il discorso sul "nn è vero ke il PdL è una caserma"?!?

mercoledì 18 novembre 2009

‘Il futuro della libertà’ e il ritorno alla Politica: una lettura del libro di Gianfranco Fini

I libri scritti da uomini politici nella maggior parte dei casi hanno una chiara finalità politica, ovvero proporre una “narrazione” che concorra a delineare l’immagine del loro autore (solitamente un leader o aspirante tale) e ad affermarla e consolidarla nelle percezioni dell’opinione pubblica. Nel nostro paese questa tradizione non è molto sviluppata, i politici raccontano e si raccontano poco. Diversa è la situazione in un paese a noi vicino e per alcuni aspetti (culturali e storici) a noi simile, la Francia. Qui i volumi a firma di personaggi e leader politici abbondano ed hanno anche un buon successo di mercato. Tipica è anche la narrazione di “sé”. In altri termini, in questi scritti il politico racconta la propria esperienza esistenziale e politica collocandola all’interno di una più ampia narrazione, della vicenda del proprio paese e della propria visione della politica (diagnosi dell’oggi, soluzioni ai problemi, concezione della natura e delle finalità della politica), cercando di presentare la propria vicenda personale come coerente con le sue prospettive più generali e attribuendo ad essa anche un valore esemplificativo.



Anche il libro di Gianfranco Fini “ Il futuro della libertà” propone una narrazione, ma in questo caso manca il racconto della propria vicenda personale. Il testo, nella forma di una lettera rivolta ai giovani nati nel 1989, propone una lettura del mondo contemporaneo e, in particolare, dell’Italia dei nostri giorni, con un’analisi dei problemi e quindi delle grandi sfide che ci troviamo oggi a fronteggiare e delle risposte che ad essi una politica consapevole ed anche rinnovata può fornire. Perché non arricchire queste riflessioni con il racconto del proprio percorso personale e intellettuale? Perché rinunciare a una strategia comunicativa – l’intreccio tra esperienza individuale e dimensione collettiva - che può risultare estremamente efficace? Possiamo immaginare la risposta che a questo interrogativo sarebbero pronti a dare quanti si baloccano con l’idea del “compagno Fini”: tutta la sua storia interna all’Msi ed anche ad Alleanza Nazionale fino ad anni non troppo lontani non ha niente a che vedere con la visione laica, liberale, repubblicana (magari un po’ “comunista”, direbbero questi signori) proposta nel suo libro; per lui è meglio fingere di averla dimenticata, quella storia. In realtà non crediamo che nei mutamenti, seppur profondi, non si mantenga un’importante continuità: se Fini ha compiuto un certo percorso è perché il suo modo di porsi di fronte alle cose del mondo – più pragmatico che ideologico, più aperto al confronto con gli altri che chiuso in un soddisfatto compiacimento – glielo ha consentito. Crediamo anche nella sincerità della strada che ha intrapreso, percorsa per tappe ma senza arretramenti. Tuttavia, non ritenendo che la mancata narrazione della sua storia personale sia motivata da un imbarazzo verso il proprio passato, attendiamo il seguito del racconto finiano, perché quel percorso è importante per conoscere il “personaggio” Fini. Chi nella politica contemporanea e “presidenzializzata” si propone come leader non può esimersi dallo svelare fino in fondo quell’anima che si colloca nel sottile confine tra dimensione pubblica e privata (o forse intima) e sulla quale si fonda la personale “visione del mondo”.



Ma quella visione, è indubbio, emerge con chiarezza da “Il futuro della libertà”. Esso rivendica la nobiltà della “politica” come un’attività che può fare molto, anche se certo – e fortunatamente – non tutto. La prospettiva di Gianfranco Fini è quella di un politico di professione che crede nella possibilità di “governare, anticipare e indirizzare” i grandi cambiamenti, non subirli soltanto, che crede che la politica debba e possa avere una “visione strategica”. Per questo è critico verso un modo diffuso di concepire e fare la politica in Italia oggi, una politica che “non dimostra la capacità di guardare a un orizzonte più ampio di quello dettato dall’agenda quotidiana”, che troppo spesso obbedisce a “riflessi pavloviani del ‘come eravamo’ e non alle visioni strategiche del ‘come saremo’”. Ma la sua critica non è avanzata attraverso il registro linguistico dell’ “antipolitica”, quella retorica che in Italia contrappone una supposta migliore società civile ad una politica incapace, fannullona e corrotta. Essa, piuttosto, si fonda sul richiamo alla necessità di ridare forza e autonomia ad una politica che sia luogo di formazione per eccellenza dell’interesse comune. E in questo si coglie l’adesione ad una visione repubblicana e al tempo stesso liberale che coniuga l’idea di appartenenza alle diverse comunità – da quella nazionale a quelle più particolari - e dell’importanza di una partecipazione politica fondata sull’etica della responsabilità con una concezione “universalistica” della cittadinanza e dei diritti. Il “particolare”, che costituisce una dimensione essenziale dell’esistenza di ognuno di noi, si pone in questo modo in un rapporto fecondo con l’ “universale”: “non devono essere, la famiglia, la valle, la regione e la nazione, rimedi all’ansia e rifugi ‘terapeutici’. Devono essere invece fattori di scambio, di confronto, di apertura, nella consapevolezza che nel particolare familiare o territoriale (…) si può scorgere un sentimento universale di fratellanza, perché tutti gli uomini hanno origini simili e tutti hanno diritto al rispetto per sé e per la propria identità”. E questa visione “aperta”, che unisce strettamente il sentimento nazionale alla democrazia e al carattere universale dei diritti, si traduce anche in una visione “laica” dello Stato e della politica, fondata sulla ragione, che ha come orizzonte i principi della libertà e della dignità e che concepisce il progresso come qualcosa in grado di “aumentare le opportunità dell’uomo”, di “accrescere le sue possibilità di scelta sulla propria vita e sul proprio futuro”; una visione laica che rifugge i dogmatismi e guarda “all’uomo nella concretezza delle sue aspirazioni, dei suoi bisogni e dei suoi drammi”.



La lunga “lettera” di Gianfranco Fini propone dunque una “visione politica” ed anche un “sogno”, un “sogno sognato collettivamente” che “non può che essere un sogno politico”, di una “società più prospera, più moderna, più giusta e più libera”. Mera retorica? Questo è il linguaggio dei grandi leader occidentali, necessario per mobilitare e coinvolgere l’opinione pubblica in vista della realizzazione di progetti di cambiamento e innovazione. Certo, non è il linguaggio che parla oggi un centrosinistra che ha perduto ogni spinta propulsiva e si sta richiudendo in posizioni di difesa e chiusura. Ma non è nemmeno il linguaggio di una parte dell’attuale centrodestra, che appare prigioniero dell’oggi e non sembra esente dalla critica rivolta da Fini alla politica italiana di avere perduto “troppi treni” “con le riforme e il rinnovamento”. E che di fronte alle grandi sfide del mondo contemporaneo (dalla globalizzazione alla bioetica) sembra ossessivamente tentato da soluzioni volte ad arginare una modernità vissuta con ansia e paura.



Sulle tante riflessioni proposte ne “Il futuro della libertà”, sulle diagnosi e le terapie, si può o meno convenire, tuttavia è evidente che nel lungo ragionamento proposto dal Presidente della Camera vi è uno spirito nuovo. Si tratta di uno spirito profondamente diverso da quello che anima quella politica ferma, stagnante e chiusa in sé stessa che domina oggi in Italia e che trova ancora qualche guizzo, a sinistra e a destra, solo quando si fa antipolitica, anch’essa, però, ormai stanca e ripetitiva, non più credibile nemmeno come tale. Non vi è dubbio, sarebbe ipocrita negarlo, che Gianfranco Fini con questo scritto presenta un modo di concepire la politica e un modo di pensare la destra che si differenzia dal “berlusconismo”, che rimane, nella propria essenza, profondamente antipolitico. Intendiamoci, l’antipolitica berlusconiana ha svolto un ruolo fondamentale nel rinnovamento di questo paese: non possiamo neanche immaginare che cosa sarebbe stato dell’Italia se Berlusconi non fosse sceso in campo nel ’94 per colmare quell’enorme vuoto politico prodotto dal crollo della Prima Repubblica; la sua apparizione ha rivoluzionato la competizione partitica rendendola bipolare e ha rinnovato in profondità la comunicazione e il linguaggio politici, rendendoli più “moderni”, più capaci di parlare direttamente all’opinione pubblica, dopo una pluridecennale stagione di una politica dominata dalle oligarchie partitiche abituate a parlare principalmente tra loro. Eppure, come ha osservato ad esempio Donatella Campus, Berlusconi non ha saputo portare fino in fondo la sua rivoluzione, non ne ha consolidato le acquisizioni, rinunciando a porre al centro della sua agenda politica una profonda riforma delle istituzioni e – aggiungiamo noi – a costruire una partito politico davvero in grado di sopravvivergli. Forse questo era inevitabile, a causa di una sua, ripetutamente rivendicata, estraneità alla politica che però ha finito con il costringerlo dentro a logiche di compromesso e mediazione che richiamano alla memoria le dinamiche della prima Repubblica. Per questi motivi “tornare alla politica” con la P maiuscola appare oggi necessario, proprio anche per consolidare i pochi ma importanti risultati di questi ultimi quindici anni e per ridare fiato ad un paese che la debolezza della politica sta lentamente uccidendo. Gianfranco Fini, forse, sta indicando una strada possibile per farlo.



Naturalmente, tornando al suo libro, rimaniamo in attesa della seconda puntata. Chi si propone come leader politico oltre a raccontare il proprio “sogno”, oltre a delineare l’immagine del “mondo che vorrebbe”, deve anche raccontare sé stesso, perché è in questo modo che può avvicinare a sé un’opinione pubblica sempre più disillusa e che mai come ora ha necessità di una nuova identificazione. Un sogno collettivo altro non è che un sogno condiviso da individui che si riconoscono in una “comunità immaginata” e chi aspira a un ruolo di guida deve convincere di appartenere, con le proprie idee ma anche con la propria esperienza di vita, a quella comunità. La leadership è anche esempio.



Sofia Ventura - Nata a Casalecchio di Reno nel 1964, Professore associato presso l’Università di Bologna, dove insegna Scienza Politica e Sistemi Federali Comparati. Studiosa dei sistemi politici in chiave comparata, ha dedicato la sua più recente attività di ricerca ai temi del federalismo, delle istituzioni politiche della V Repubblica francese, della leadership e della comunicazione politica.





CREDITS: Libertiamo

Gheddafi e Dalai Lama: il Governo concede troppo al primo, troppo poco al secondo

di Benedetto Della Vedova & Carmelo Palma

C’è un’obiettiva sproporzione politica e simbolica tra l’accoglienza calorosa riservata al Colonnello Gheddafi e il silenzio con cui l’esecutivo sta accompagnando l’inizio della visita del Dalai Lama in Italia. Dal primo si sono dovute sentire, per l’ennesima volta, parole di propaganda antisemita e di derisione esplicita della fede cristiana, che non ci pare abbiamo suscitato reazioni veementi e risentite. Dal secondo non ci si potrà che attendere parole di pace e di riconciliazione che, purtroppo, continuano a non trovare effettivo riscontro sul piano internazionale.
Il problema, ancora una volta, non è fare la “pagella” dei buoni e dei cattivi, perché il governo di una medio-grande potenza industriale è tenuto a mantenere relazioni proficue con qualunque interlocutore, nel nome degli interessi del Paese e delle esigenze di pace e di stabilità della comunità internazionale. Nel contempo, però, un grande Paese è anche tenuto a promuovere e riconoscere le leadership che più possono favorire il raggiungimento di questi obiettivi e di arginare quelle che, al contrario, non sono interessate a consolidare, ma a destabilizzare gli equilibri globali. Non occorre essere un esperto o un analista per comprendere chi tra il Colonnello Gheddafi e il Dalai Lama rientri nella prima categoria e chi nella seconda.

Nella scorsa legislatura ritenevamo che l’incontro del Dalai Lama con il Presidente Prodi o con un esponente del Governo incaricato dal capo dell’esecutivo avrebbe rappresentato un messaggio esplicito e amichevole nei confronti delle autorità cinesi; a maggiore ragione oggi pensiamo che, dopo le parole di Obama, il presidente Berlusconi abbia l’opportunità di concorrere, con un gesto concreto e eloquente, alla ripresa dei negoziati tra il regime cinese e le autorità tibetane in esilio. La piattaforma del Dalai Lama (un piano per l’autonomia religiosa, culturale e civile del Tibet) è lontana anni luce da una qualunque pretesa secessionista, e non compromette né mette in discussione la sicurezza né l’unità della Repubblica Popolare Cinese.
Nella storia della Repubblica, un solo Presidente del Consiglio accettò di incontrare il Dalai Lama: il neo-eletto Berlusconi, nel 1994. Auspichiamo che lo scandalo si ripeta. E che al contrario non si ripeta l’imbarazzante spettacolo delle tournée italiane del Colonnello Gheddafi, a metà tra l’avanspettacolo, l’irrisione, e la performace narcisistica. Quella che i più (a destra come a sinistra) hanno salutato con la benevola condiscendenza che si riserva ad un vecchio clown, e non con la severità che si merita un vecchio tiranno.


CREDITS: Libertiamo

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E' indubbiamente una vergonga, che il nostro Paese sia prono verso dittatori terroristi senza scrupoli come Gheddafi (e anke Putin, nn dimentichiamocelo), e poi non abbia il coraggio di dar voce al Dalai Lama e alle istanze tibetane. Certo, non è ke il "fratello maggiore" USA dia tanto il buon esempio, ma appunto poteva essere un'occasione per dimostrare anke ke l'Italia non è subalterna a nessuno, principale alleato compreso.

Fortunatamente, a questa ignavia si opponel l'eccezione del Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini. L'ex leader di AN ospiterà infatti a Montecitorio la guida spirituale buddhista. Bravo Gianfranco, continui a farmi/farci sognare!!!

lunedì 9 novembre 2009

Il Muro, l'Europa ed un chiaro NO a D'Alema





Oggi, come ben molti certo sapranno, ricorre il ventennale della caduta del Muro di Berlino, evento storico la cui portata, soprattutto simbolica, è evidente agli occhi di tutti.

Qui lo celebriamo attraverso la musica, coi video postati all'inizio di questo pezzo. Si tratta di due canzoni davvero significative dell'evento, ossia "Wind Of Change" degli Scorpions (band tedesca, oltretutto) e di "The Wall" dei Pink Floyd, ke l'ex leader della band Roger Walters suonò dal vivo proprio in qui giorni di svolta.

La Caduta rappresenta la fine del Comunismo (almeno in Europa), il ricongiungimento del Vecchio Continente dilaniato dalla guerra e dalle successive "spartizioni" e "usurpazioni".

Proprio in questo contesto, ritengo sia giusto affermare un fiero, fermo, risoluto e chiaro NO all'ipotesi di Massimo D'Alema quale Alto Rappresentante della PESC, ossia una sorta di Ministro degli Esteri unitario dell'UE.

E, si badi, non si tratta affatto di un no "di bandiera"; il problema non risiede infatti nell'appartenenza politica di Baffino, ma è tutta una questione di idee, specialmente a livello Europeo.

L'on. D'Alema ha una mentalità sovietico-stalinista, è amico dei terroristi di Hezbollah ed ha sempre dimostrato avversione per uno Stato LIBERO e DEMOCRATICO quale è Israele.

Può l'Europa mettere nelle mani di siffatta persona, la conduzione della sua politica estera unitaria?!

Se vuole affermare l'antisemitismo e riprendere a foraggiare i terroristi arabi, si accomodi.

Altrimenti chiuda DEFINITIVAMENTE la porta in faccia al "deputato di Gallipoli".

E altrettanto faccia il Governo italiano, che almeno a parole sembra voler sostenere questa candidatura. Nn facciamo i soliti provinciali del "basta ke sia italiano", qdo magari poi, in altre circostanze, e in altri organismi, non sappiamo valorizzare le nostre eccellenze VERE.

Per un approfondimento del tema, invito a leggere l'articolo sottostante.
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La candidatura di Massimo D’Alema alla prestigiosa e influente posizione di futuro ministro degli esteri dell’Unione Europea è un altro colpo da maestro del presidente del consiglio Silvio Berlusconi. D’Alema, l’unico leader della sinistra che potrebbe dare dei grattacapi al Premier, riceve il pieno appoggio del governo per le sue ambizioni europee. Se ce la fa, Berlusconi si leva dai piedi un formidabile avversario che si dovrà sentire almeno un po’ in debito nei suoi confronti. Se viene scartato, Berlusconi ci fa sempre bella figura e D’Alema si addossa i demeriti della sconfitta. Detto questo, non è impossibile che D’Alema ce la faccia – anche se il suo principale avversario, il ministro degli esteri inglese David Milliband sembra avere più punti a suo favore nel complicato Manuale Cencelli delle nomine europee. E se D’Alema fosse, bisogna chiedersi se è un bene o un male per l’Europa avere un uomo come D’Alema a capo della diplomazia europea.
Partiamo dalle questioni istituzionali. Ora che il Trattato di Lisbona ha superato l’ultimo scoglio – l’opposizione del presidente della Repubblica Ceca – il servizio esteri attivo entrerà in funzione col nuovo anno. A capo di questa nuova struttura – la cui composizione e ubicazione fisica rimangono ancora un mistero a Bruxelles – sta l’alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza. A sua volta, e a differenza che in passato, l’alto rappresentante è vicepresidente della Commissione Europea. D’Alema, se vincesse, dovrebbe quindi essere a capo di un nuovo e amorfo ministero degli esteri europeo, il cui personale e le funzioni con tutta probabilità saranno dettate dagli interessi, le quote e il sistema delle spoglie degli stati membri. Dovrà rispondere al Parlamento Europeo in fase di nomina e successivamente dovrà relazionare gli euro eletti in merito a qualsiasi questione si ritenga necessario, opportuno o doveroso riferire. E dovrà rispondere al Presidente della Commissione, il conservatore portoghese europeista (e di secondo mandato) José Manuel Barroso, che sarà il suo capo. Non abbiamo dubbi che D’Alema, consumato navigatore della palude politica romana, se la saprà cavare in questi frangenti; ma certamente la struttura istituzionale, che circonda la posizione cui lui ambisce, instaura importanti freni e meccanismi di controllo e di contenimento di un ministro degli esteri altrimenti potenzialmente molto attivo. L’attuale titolare, Javier Solana, ha goduto di una significativa indipendenza. D’Alema, specie se affiancato come pare da un presidente del Consiglio Europeo proveniente da un paese piccolo (si parla dell’attuale premier belga, Herman Van Rumpuy), potrebbe facilmente guadagnarsi il ruolo di prima donna, a dispetto dei limiti istituzionali. Dipenderà dalla sua capacità di tessere consenso tra paesi diversi e governi di colore politico diversi e di non calpestare l’ego di leader come il presidente francese Nicolas Sarkozy o interferire con l’influenza di leader come il Cancelliere tedesco Angela Merkel. Ci vorrà umiltà insomma, dote che non appare essere il punto forte di Massimo D’Alema.
Il che solleva le questioni di sostanza. Massimo D’Alema di certo riflette una visione della politica estera europea che gode di ampio sostegno in parte dell’opinione pubblica e del mondo politico e diplomatico europeo. Ma è la visione che meglio serve gli interessi europei? Quale esponente della sinistra europea, D’Alema ha una visione critica del rapporto con gli Stati Uniti, che si riflette in un impegno atlantista molto tiepido e un desiderio talvolta malcelato di vedere l’Europa assumere un ruolo concorrente, se non antagonista degli Stati Uniti. La sua eredità intellettuale affonda le radici nell’esperienza antimperialista e terzomondista della FGCI degli anni di piombo. Pur avendo messo quell’esperienza alle sue spalle, come tanti altri esponenti della sinistra europea, D’Alema oggi abbraccia in maniera dogmatica quegli elementi del sistema internazionale che servono più a mettere il freno alla potenza americana che ad avanzare valori occidentali quali la libertà, la democrazia e i diritti umani. Un riflesso di questa tendenza è quanto D’Alema pensa del Medio Oriente, dove è riuscito – complice la sua storica pregiudiziale contro Israele e per i palestinesi – a mitizzare le forze fondamentaliste di Hamas e Hezbollah, minimizzandone la minaccia non solo a Israele ma a molti alleati occidentali nella regione e riducendo tutti i problemi del Medio Oriente a uno solo – la questione palestinese e le politiche israeliane che a suo dire la rendono intrattabile.
Da Alto Rappresentante, queste posizioni peseranno come un macigno, specie su due temi – l’Iran e il processo di pace in Medio Oriente. Sull’Iran, D’Alema assumerebbe un ruolo chiave, visto che l’Alto Rappresentante è il negoziatore principale del dossier nucleare iraniano per decisione del Consiglio di Sicurezza – e vista la propensione al dialogo, il disdegno per le preoccupazioni israeliane, la dedizione ideologica al multilateralismo sotto la bandiera dell’ONU e la convinzione che un’azione unilaterale americana sia una minaccia alla pace mondiale di misura maggiore che una bomba atomica iraniana, D’Alema non interpreterà necessariamente a favore dell’Europa il suo ruolo di ministro degli esteri. In quanto al Medio Oriente, D’Alema sarà obbligato a promuovere la posizione ufficiale del Quartetto e la Roadmap – che impone a Hamas prima di considerarlo un interlocutore legittimo la rinuncia della violenza, il riconoscimento d’Israele e il rispetto di impegni passati – e dovrà rifarsi alla lista di organizzazioni terroristiche dell’Unione Europea, che comprende Hamas. Ma da Ministro degli Esteri e successivamente da leader di spicco dell’opposizione, D’Alema si è ripetutamente pronunciato in maniera fortemente critica rispetto a questi due temi. Se ottenesse la nomina, la sua disponibilità a rivedere le sue posizioni passate sarà il primo tema sull’agenda della politica estera europea e – considerando l’umiltà mostrata da D’Alema in passato – potrebbe rivelarsi un inciampo fatale che ne caratterizzerà l’intero mandato.

Emanuele Ottolenghi - Nato a Bologna nel 1969, laureato in Scienze Politiche presso l'Università di Bologna, ha conseguito il Ph.D alla Hebrew University di Gerusalemme e ha insegnato presso l'Oxford Centre for Hebrew and Jewish Studies. Attualmente dirige il Transatlantic Institute di Bruxelles; è l'autore di "La Bomba Iraniana" (Lindau, 2008)

venerdì 6 novembre 2009

La laicità di Fini è politica, inclusiva ed elettoralmente vincente

di Benedetto Della Vedova

- Conosciamo il refrain: la laicità di Gianfranco Fini non è che il vezzo narcisistico di un politico à la page, che, per essere definitivamente sdoganato, deve dispiacere alla destra che dispiace alla sinistra. E ben si comprende, anche per questo, che dispiaccia alla guardie svizzere “del partito dei valori”, che vedono nel cristianesimo un’identità da rivendicare assai più che una fede da professare.

Però, a questa idea di laicità da “minoranza laica” Fini non sembra particolarmente affezionato. Ne “Il Futuro della Libertà”, quando parla di una politica laica il Presidente della Camera non fa tanto riferimento ad una cultura politica alternativa a quella cattolica, ma ad un’idea della cittadinanza e della partecipazione politica capace di “rifondare la polis” su basi diverse da quelle puramente identitarie, che nelle società avanzate e complesse non costituiscono più un fattore di unità, ma di divisione e di isolamento.
La politica laica è, per Fini, quella che consente di costruire una relazione solida tra la polis della cittadinanza e la cosmopolis della vita sociale, tra la dimensione statuale e quella globale. Proprio perché la politica deve cercare ciò che è “comune” a tutti i cittadini, piuttosto che ciò che è “proprio” di ognuno, scrive Fini citando Vita Activa di Hannah Arendt, non può fondare sulla religione né sulla nazione i propri meccanismi di legittimazione di funzionamento. Il timore di una uso politicamente confessionale della religione alla pari di quello di un’involuzione etnico-nazionalistica dell’ideale patriottico non fa però di Fini un laicista o un internazionalista della rive gauche. Al contrario, lo rende un normale esponente del centrodestra europeo, che anche nelle sue componenti più tradizionalmente democratico-cristiane (in Germania e in Spagna) è solidamente ancorato ad un’idea laica della politica del tutto sovrapponibile a quella che nel centrodestra italiano continua a suscitare scandalo.

Nella logica del “Dio, patria, famiglia” ad essere politicamente sbagliati non sono né la fede, né l’amor patrio, né il vincolo familiare, ma l’idea della brutale identificazione del “pubblico” con il “privato” della maggioranza, della polis con l’oikia (per citare, sempre, Hannah Arendt), che pregiudica la possibilità non solo di costruire, ma perfino di concepire il senso di una cittadinanza comune.
La svolta laica di Fini non dipende dunque dal fatto che egli sia personalmente estraneo alla cultura profonda della destra italiana o interessato a presidiare il “lato laico” della propria compagine politica. La laicità di Fini è la condizione e la premessa, intellettuale e morale, di quel patriottismo costituzionale a cui il Presidente lega indissolubilmente la propria scommessa politica.

La laicità di Fini non investe tanto il piano dei valori morali, ma di quelli politici. Il Presidente della Camera è spesso superficialmente accusato di sottovalutare le conseguenze del relativismo morale sul piano della coesione sociale. In realtà invece egli ha ben chiaro, a differenza di molti suoi critici, il rischio del relativismo politico connesso ad un’idea del Paese interamente affidata alla retorica passatista delle “nostre” radici piuttosto che all’idea di un futuro “comune”.
La laicità di Fini, dunque, è in linea con il popolarismo europeo di Sarkozy ma anche della Merkel, non è “di sinistra”, non è anticristiana, è politica ben prima che etica. Chiede al Pdl di coltivare una fiducia ragionevole e non una paura istintiva dei cambiamenti e di divenire un partito aperto ed inclusivo e quindi in prospettiva più forte, anche elettoralmente, di un Pdl “Dio, patria e famiglia”, chiuso nel recinto identitario, tanto meno attraente quanto più scollegato dalla vita reale di elettori ed eletti.


CREDITS: Libertiamo

martedì 3 novembre 2009

Mahmoud Vahidnia ha mostrato che l’Ayatollah è nudo. E se lo invitassimo in Italia?

Le ultime notizie su Mahmoud Vahidnia, lo studente iraniano di matematica che la scorsa settimana ha contestato in pubblico la Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, lo danno in buona salute, non in stato d’arresto e soddisfatto dello scambio di battute – “costruttivo”, avrebbe detto lo stesso Mahmoud, secondo l’agenzia stampa in lingua persiana Alef - con la Guida Suprema. Sarà vero, per ora conviene crederlo, ma è opportuno che da Occidente si tenga alta l’attenzione: cosa farà il regime iraniano, quando le luci dei riflettori si saranno spente sulla vicenda, resta un’incognita pericolosa.
Mahmoud Vahidnia, il genietto della matematica, ha l’aria simpatica di un “secchione”. La sua abilità è stata quella di mostrare, nelle sue parole, una moderazione degna di un politico navigato: “Io penso che se loro (i responsabili della Tv di regime, nda) pubblicassero le critiche contro di Lei, dei semplici problemi non verrebbero amplificato e non condurrebbo a spaccature, divisioni e odio”. E ancora: “Quando una semplice critica non trova il contesto per essere espressa, poi gradualmente si tinge di cattive intenzioni”.

Quel suo “Io non ho mai visto nessuno criticarla pubblicamente”, rivolo a Khamenei, richiama alla mente quella famosa fiaba di Andersen, in cui un re nudo si aggira per la città, accompagnato dagli elogi di cortigiani e sudditi che lodano la qualità delle sue vesti, finchè un bambino non grida a tutti la verità: che il re è nudo. Che il regime degli Ayatollah e di Ahmadinejad sia nudo, o comunque poco vestito, è chiaro agli occhi di milioni e milioni di cittadini iraniani, soprattutto giovani (in Iran i due terzi della popolazione ha meno di trenta anni). Questo pezzo enorme della società iraniana è assetata di cambiamento, di modernità e di libertà, come hanno dimostrato i “moti” (si diceva così un tempo, no?) dello scorso giugno.

Mentre Mahmoud parlava, la Tv di Stato – a cui gli strali dello studente erano rivolti – ha pensato bene di interrompere la diretta dell’evento pubblico, confermando nei fatti ciò che Mahmoud stava denunciando: la visione del mondo che la televisione di regime consegna agli iraniani è distorta, parziale, “mediata” dal potere teocratico. Ma ciò che la Tv non ha voluto, hanno potuto le nuove tecnologie, i videofonini, i blog e Youtube. E il discorso di Vahidnia è rimbalzato da computer a computer, in Iran e fuori dall’Iran, tanto che l’ayatollah ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, replicando allo studente che “non ci sono obiezioni alle critiche”, che “scegliere i responsabili della Tv di Stato non significa approvarne tutte le scelte” e così via.

Il re è nudo, ma non basta la voce di uno studente ad aprire gli occhi e le menti di una società così complessa e contraddittoria come quella iraniana. Ci vuole molto di più: il mondo libero o supposto tale non può esimersi dal dare man forte ai tanti Mahmoud di Teheran e dintorni. Qualcuno ha proposto di invitare il giovane in Italia: perchè no?

Piercamillo Falasca - Nato a Sarno nel 1980, laureato in Economia alla Bocconi, è fellow dell’Istituto Bruno Leoni, per il quale si occupa di fisco, politiche di apertura del mercato e di Mezzogiorno. È stato tra gli ideatori di Epistemes.org. E’ vicepresidente dell’associazione Libertiamo.


CREDITS: Libertiamo